Caracalla e la querela nullitatis di Federico Pergami.
Nel sistema processuale romano, fra i gravi e complessi problemi che si pongono nello studio della nullità delle sentenze, emesse all’esito di un procedimento giurisdizionale, spicca quello relativo alle modalità della sua rilevazione[1], se cioè, e con quali strumenti, fosse necessario esperire un autonomo ricorso per una censura ed un eventuale riesame della decisione priva di effetti giuridici, perché emanata per qualche aspetto irregolarmente, oppure, se, al contrario, l’improduttività dei profili processuali della pronuncia vulnerata operasse ipso iure, quale mero accertamento dichiarativo, senza la necessità di un nuovo vaglio giurisdizionale, neppure limitatamente all’esperimento di una fase ulteriore dello stesso giudizio[2].
Caracalla e la querela nullitatis . Nell’esperienza giuridica romana, dunque, il problema relativo necessità o meno dell’esperimento di un autonomo strumento per la rilevazione della nullità delle sentenze resta estremamente controverso, anche per la difficoltà di individuare, nelle disposizioni normative e nella riflessione della giurisprudenza, un criterio veramente sicuro per distinguere i casi in cui la nullità opera ipso iure da quelli in cui, invece, deve essere accertata giudizialmente.
Un problema che, ovviamente, non si poneva nel sistema processuale dell’ordo, nel quale, pur essendo chiara la nozione della possibile esistenza di vizi di cui poteva essere inficiato il procedimento giurisdizionale, mancava, però, per la natura stessa del giudizio, la configurabilità di un controllo da parte di un organo sovraordinato al giudice che aveva pronunciato la sentenza[3] e i mezzi per reagire contro la nullità, che pure esistevano, come per il convenuto soccombente l’infitiatio contro l’actio iudicati e per l’attore la possibilità di riproporre la domanda senza incorrere nell’exceptio rei iudicatae, non erano tecnicamente nè concettualmente configurati come autonomi mezzi di impugnazione[4].
Il possibile contrasto nell’individuazione e nell’utilizzo pratico dei mezzi di rilevazione della nullità di una pronuncia giudiziale, resa in violazione dei principi informatori dell’ordinamento, emergeva, al contrario, e con particolare evidenza, nel momento in cui, con la graduale diffusione delle cognitiones extra ordinem, fu introdotto, nel sistema processuale romano, un formale sistema di impugnazioni contro le decisioni dei funzionari imperiali e l’appellatio veniva utilizzata anche per l’accertamento della nullità delle pronunce giurisdizionali, come conseguenza, per certi aspetti, inevitabile della generalizzazione del nuovo concetto della possibilità di censurare le sentenze ritenute ingiuste o pregiudizievoli per la parte soccombente: un rimedio che pure avrebbe dovuto considerarsi superfluo di fronte ad una pronuncia priva del requisito dell’esistenza giuridica stessa (nec ulla sententia)[5].
Le fonti testimoniano, infatti, con chiarezza l’esistenza di un simile contrasto e documentano come la tendenza a sottoporre a riesame anche una sentenza gravata da nullità fosse già largamente diffusa sullo scorcio del II e nel corso del III secolo, come si ricava dall’esame dei numerosi interventi imperiali del titolo che i compilatori giustinianei hanno raccolto sotto la rubrica Quando provocare necesse non est, C. 7.64, ma soprattutto, al di fuori di esso, con importanti provvedimenti normativi, attribuiti all’imperatore Caracalla ed espressamente finalizzati a contrastare una simile prassi processuale, che doveva apparire come un inutile appesantimento della struttura, già complessa, del nuovo sistema cognitorio[6].
- Un primo intervento legislativo, emanato da Caracalla insieme ad Alessandro Severo, è un rescritto, raccolto in C. 7.45.1, De sententiis et interlocutionibus omnium iudicum, nel quale gli imperatori, rivolgendosi nell’anno 208 al prafectus urbis Quintiliano[7], qualificano come priva di effetti (non videtur nobis rationem habere sententia) la decisione resa dal giudice che aveva ricoperto in precedenza la carica, il quale, anziché condannare il procurator, che era stato incaricato di coltivare la lite per conto del titolare del rapporto controverso, aveva emesso la sentenza direttamente contro la parte, nel caso la domina litis[8], cuius persona in iudicio non fuit[9]: per tale motivo, il nuovo funzionario imperiale avrebbe potuto riesaminare ex novo la questione sottoposta al suo vaglio, senza che a ciò fosse di ostacolo la prima pronuncia, che doveva considerarsi come non emessa, ut de re integra de causa cognoscere[10]:
- 7.45.1: Impp. Severus et Antoninus AA. Quintiliano. Non videtur nobis rationem habere sententia decessoris tui, qui cum cognovisset inter petitorem et procuratorem, non procuratorem, sed ipsam dominam litis condemnavit, cuius persona in iudicio non fuit. Potes igitur ut re integra de causa cognoscere.
L’intento della cancelleria imperiale emerge con chiarezza e si traduce nella volontà di ribadire come la decisione, vulnerata dall’errata individuazione del titolare del diritto processuale in contesa, poiché ipsam dominam litis condemnavit, fosse ipso iure, cioè senza necessità di ulteriori indagini o verifiche, totalmente priva di effetti giuridici e, per tale motivo, inidonea a produrre le conseguenze di una valida sentenza di condanna.
Con finalità analoghe, Caracalla emana un secondo rescritto, conservato in C. 9.47.2, De poenis, nel quale viene parimenti dichiarata la nullità di una decisione emanata in materia penale da un procurator Caesaris[11]:
- 9.47.2: Imp. Antoninus A. Valerio. Procurator meus, qui vice praesidis non fungebatur, exilii poenam tibi non potuit inrogare ac propterea frustra vereris sententiam, quae nulla iuris ratione subnixa est.
L’imperatore dichiara inutilmente emessa, frustra, la decisione resa da un funzionario imperiale privo dei necessari poteri, perché non sorretta da alcun fondamento giuridico, nulla ratione iuris subnixa est. Anche in questo caso, la cancelleria imperiale, pur risolvendo il caso particolare sottoposto al suo esame[12], intende chiarire che, in generale, l’accertamento di una sentenza nulla non richiede nuovi accertamenti giudiziali, rivelandosi ipso iure, per la sua contrarietà ai principi dell’ordinamento, priva di effetti giuridici.
Nella medesima direzione, si colloca anche il contenuto di un ulteriore rescritto, relativo all’ipotesi di un mandatario che abbia agito in giudizio per la tutela di un rapporto litigioso estraneo all’incarico ricevuto dal proprio mandante, come documentato da C. 2.12(13).10[13]: in tale ipotesi, Caracalla, dopo avere delineato i compiti e le funzioni del sostituto processuale, stabilisce che un’eventuale decisione resa dal procuratore, che ecceda, fraude vel dolo[14], i poteri conferitigli, non ha necessità di essere contestata, nel timore che essa acquisti l’autorità della cosa giudicata, rem iudicatam rescindi non oportet, poiché tale pronuncia, nulla per difetto di legittimazione dell’attore, non può essere equiparata ad una decisione di natura giurisdizionale e conseguire gli effetti che l’ordinamento, di norma, ad essa direttamente ricollega:
- 2.12(13).10 Imp. Antoninus: Si procurator ad unam speciem constitutus officium mandati egressus est, id quod gessit nullum domino praeiudicium facere potuit. Quod si plenam potestatem agendi habuit, rem iudicatam rescindi non oportet, cum, si quid fraude vel dolo egit, convenire eum more iudiciorum non prohiberis.
Analoghe conclusioni si traggono, infine, in relazione alla nullità, nihil est praeudicatum, in un caso di res publica indefensa, come risulta da C.11.30.(29).1: Imp. Antoninus Dionysio. Si quid adversus rem publicam indefensam in ea specie, in qua neque defensores creati fuerint neque ut crearentur placuerit, statutum est, actionibus eius nihil est praeiudicatum[15].
- Gli interventi dell’imperatore Caracalla, finalizzati a limitare la prassi diffusa di sottoporre a riesame la pronuncia gravata da nullità sono, del resto, il riflesso di un travaglio giurisprudenziale che, specialmente in età severiana, testimonia le difficoltà di ricondurre a principi generali la distinzione fra nullità e impugnabilità della sentenza.
Se ne ha traccia, anzitutto, in un noto passo di Modestino, raccolto in D. 49.1.19, nel quale il giurista, nell’affermare che le decisioni rese contra iuris rigorem debbono considerarsi nulle (non valere) e, perciò, sine appellatione causa denuo induci potest, si limita a specificare che è tale la decisione non iure profertur, si specialiter contra leges vel senatusconsultum vel constitutionem fuerit provata.
- 49.1.19: Si expressim sententia contra iuris rigorem data fuerit, valere non debet. Et ideo et sine appellatione causa denuo induci potest. Non iure profertur sententia, si specialiter contra leges vel senatus consultum vel constitutionem fuerit provata. Unde si quis ex hac sententia appellaverit et praescriptione summotus sit, minime confirmatur ex hac praescriptione sententia. Unde potest causa ab initio agitari[16].
Il linguaggio utilizzato dal frammento, in verità, non è del tutto perspicuo e conferma come fosse ardua, anche nella riflessione della giurisprudenza, l’individuazione di un criterio rigoroso per l’accertamento delle modalità di rilevazione delle censure contro una decisione giurisdizionale che era stata emanata, per qualche ragione, irregolarmente: infatti, ricollegare la qualifica di nullità alla mera contrarietà a specifiche norme positive (contra iuris rigorem), non costituisce un sicuro elemento distintivo per una particolare categoria di sentenze, ben potendo tale concetto ricomprendere anche una pronuncia non necessariamente nulla, ma che la parte soccombente ritiene, in qualche modo, ingiustamente lesiva dei propri interessi.
Del resto, dell’esistenza del problema e della necessità di ribadire l’inutilità dell’appello per alcune categoria di sentenze (appellationis necessitas remittitur), si ha traccia anche in un passo di Macro, in cui il giurista, con soluzioni più accurate, distingue, in relazione alle decisione contrarie a sacrae constitutiones, due profili di decisioni implicanti la violazione delle norme giuridiche: l’ipotesi della sentenza resa a seguito di una valutazione de iure constitutionis, per la quale l’impugnazione della sentenza è ritenuta superflua, che viene contrapposto al caso di un decisione de iure litigatoris, per la quale, al contrario, appellatio necessaria est (D. 49.8.1.2)[17]:
- 49.8.1.2: Item cum contra sacras constitutiones iudicatur, appellationis necessitas remittitur. Contra constitutiones autem iudicatur, cum de iure constitutionis, non de iure litigatoris pronuntiatur. Nam si iudex volenti se ex cura muneris vel tutelae beneficio liberorum vel aetatis aut privilegi excusare, dixerit neque filios neque aetatem aut ullum privilegium ad muneris vel tutelae excusationem prodesse, de iure constitutio pronuntiasse intellegitur: quod si de iure suo probantem admiserit, sed idcirco contra eum sententiam dixerit, quod negaverit eum de aetate sua aut de numero liberorum provasse, de iure litigatoris pronuntiasse intellegitur: quo casu appellatio necessaria est.
Un criterio, quest’ultimo, che doveva avere ispirato anche il rescritto di Alessandro Severo[18], nel quale, in una controversia relativa a diritti successori (quaestio de successione esset), la cancelleria imperiale distingue nettamente l’ipotesi di una sentenza contra tam manifesti iuris formam datam, che nulla habere vires palam est e che, per questo, non richiede, per l’accertamento della sua invalidità, dell’auxilium appellationis (ei ideo in hac specie nec provocationis auxilium necessarium fuit) dal caso in cui, per hoc iure factum testamentum pronuntiavit, la mancata proposizione del gravame avrebbe comportato la definitività della decisione giudiziale e il conseguente ottenimento dell’autorità della res iudicata:
- 7.64.2: Imp. Alexander A. Capitoni. Si, cum inter te et aviam defunti quaestio de successione esset, iudex datus a preside provinciae pronuntiavit potuisse defunctum et minorem quattordecim annis testamentum facere ac per hoc aviam potiorem esse, sententiam eius contra tam manifesti iuris formam datam nullas habere vires palam est et ideo in hac specie nel provocationis auxilium necessarium fuit. 1. Quod si, cum de aetate quaereretur, implesse defunctum quartum decimum annum ac per hoc iure factum testamentum pronuntiavit, nec provocasti aut post appellationem impletam causa destitisti, rem iudicatam retractare non debes.
- La soluzione reiteratamente adottata, con cui l’imperatore Caracalla mirava ad escludere l’avvio di un nuovo procedimento giudiziario, o quantomeno un successivo grado di giudizio, per la rilevazione della nullità di una sentenza, doveva essere comunque molto dibattuta e controversa, se la riflessione della giurisprudenza ci trasmette soluzioni pratiche a singoli casi specifici, nei quali, al contrario, si ammette la proposizione di uno specifico mezzo di gravame per l’accertamento della totale invalidità di una decisione giudiziale.
Ne abbiamo, anzitutto, testimonianza in due passi di Paolo, relativi alla medesima fattispecie (D.10.2.41 e 37.14.24)[19], da cui si ricava che il tribunale imperiale, seppure a distanza di molti anni dalla pronuncia e in una situazione consolidata dall’acquiescenza (…et multis annis…secundum divisionem preastitisse…), era stato investito di un’appellatio, quaedam mulier ab iudice appellaverat, per l’accertamento della nullità di una sentenza, nullo enim iure, che aveva compreso, in una divisione ereditaria, le operae libertorum e gli alimenta:
- 10.2.41 (= 37.14.24): Quaedam mulier ab iudice appellaverat, quod diceret eum de dividenda hereditate inter se et coheredem non tantum res, sed et libertos divisisse et alimenta, quae dari testator certis libertis iussisset: nullo enim iure id eum fecisse. Ex diverso respondebatur consensisse eos divisionis et multis annis alimenta secundum divisionem praestitisse. Placuit standum esse alimentorum praestationi: sed et illud adiecit nullam libertorum divisionem.
Del pari orientato in questo senso, è un passo di Papiniano (D.49.1.23.1), che, in una fattispecie analoga a quella regolata dal sopra richiamato rescritto di Caracalla, riportato in C. 9.47.2, prevede l’intervenuto accertamento giudiziale dell’inutilità dell’impugnazione (frustra provocatio) per l’ipotesi in cui il procurator Caesaris avesse deciso una controversia inter privatos:
- 49.1.23.1: Cum procurator Caesaris, qui partibus praesidis non fungebatur, in lite privatorum ius dandi iudicis non habuisset, frustra provocatum ab ea sententia constitit, quae non tenebat.
Infine, un frammento di Callistrato (D. 42.1.32.2), nel quale il giurista precisa che, fra le ipotesi di contrarietà alle costituzioni imperiali, non deve essere annoverata l’erronea applicazione al caso concreto della fattispecie normativa, con conseguente necessità di una formale impugnazione della relativa sentenza, per evitarne il passaggio in giudicato:
- 42.1.32.2: Non videtur contra constitutiones sententiam dedisse. Ideoque ab eiusmodi sententia appellandum est: alioquin rei iudicatae stabitur.
- Del travaglio normativo e giurisprudenziale di età severiana, le fonti più tarde hanno conservato, nelle raccolte ufficiali, tracce significative, seppure quantitativamente scarse. Come aveva stabilito Caracalla, infatti, anche Valentiniano Valente e Graziano, con la costituzione di apertura del titolo De sententiis ex periculo recitandis, ribadiscono, nell’anno 374, seppure esclusivamente in relazione ai vizi formali della sentenza, che la nullità delle decisioni giurisdizionali deve operare senza la necessità di un riesame da parte del giudice superiore:
CTh. 4.17.1: Imppp. Valentnianus, Valens et Gratianus AAA. ad Probum p(raefectum) p(raetori)o. Statutibus generalibus iusseramus, ut universi iudices, quibus reddendi iuris in provinciis permittimus facultatem, cognitis causis ultimas definitione de scripti recitatione proferant. Huic adicimus sanctioni, ut sententia, quae dicta fuerit, cum scripta non esset, ne nomen quidem sententiae habere mereatur, nec ad rescissionem perperam decretorum appellationis sollemnitas requiratur.
Richiamando precedenti statuta generalia, che avevano prescritto la formalità della scrittura e la recitatio pubblica della sentenza[20], infatti, gli imperatori dispongono solennemente che la decisione pronunciata esclusivamente in forma orale, senza prima essere stata redatta per iscritto, non può essere equiparata, neppure sotto il profilo della sua qualificazione giuridica, ad una sentenza, ne nomen sententiae habere mereatur, e, di conseguenza, non richiede la sollemnitas appellationis per la declaratoria dell’improduttività dei suoi effetti.
Non può peraltro sfuggire, esaminando il tenore letterale del provvedimento, che nella mente dell’estensore della disposizione normativa dei Valentiniani non doveva essere ben chiara la nozione di nullità, nè dei suoi effetti: a proposito degli strumenti per l’accertamento dei vizi della decisione, la cancelleria imperiale precisava che il gravame non era richiesto che per la rescissio di quanto era stato tanto ingiustamente deciso, perperam decretorum: sebbene, dunque, il provvedimento sancisse che la pronuncia orale della sentenza non meritasse neppure il nome di sentenza e che non fosse necessario l’appello per impedirne la produzione degli effetti, introduceva il concetto di rescissio come reazione alla nullità: uno strumento che, lungi dall’essere considerato quale mero accertamento dell’inesistenza, era inteso come invalidazione di un atto che, a livello giuridico, era considerato esistente e che, qualificando tali decisioni come assunte erroneamente, perperam appunto, mostrava di avere riguardo non più al solo difetto della forma scritta, bensì alla sostanziale ingiustizia o erroneità della sentenza.
In sostanza, la norma, per un verso, parlando di una formale rescissio, mostrava di avere delineato con chiarezza lo strumento per far valere la nullità, che non doveva essere più, almeno nella considerazione della cancelleria imperiale, la classica infitiatio contro l’actio iudicati che, come ho sopra accennato, non era un mezzo di rescissione, ma esclusivamente uno strumento di accertamento negativo; per altro verso, contemporaneamente, decretava l’inesistenza stessa della decisione ed enunciava il principio dell’inutilità del gravame per ottenerne l’invalidazione[21].
Del resto, quanto poco salda fosse la posizione della cancelleria imperiale è dimostrato dall’ancora differente linguaggio che, dieci anni più tardi, utilizzeranno Graziano, Valentiniano e Teodosio, nella costituzione CTh. 11.30.40:
Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Ad Basilium com(item) s(acrarum) l(argitionum). Omnem, quae de libello scribta recitatur, dici volumus atque esse sententiam atque ad ea provocationis auxilia quisquis efflagitat, ad auditorii sacri venire iudicium neque illic ex praeiudicio poenam vereri, sed appellationis iniustae iustaeve discrimen competenti subire luctamine. Praeterea quid quid in cunctis cognitionibus atque conflictibus libelli absque documento et recitatione decernitur, praeiudicii loco iuste ac probabiliter putatur. Atque ab eo si vel vocem quisquam provocationis obiecerit vel libellum, disputatione non indiget, quin certa atque manifesta praeiudicii condicione teneatur eumque confestim ab eodem cognitore exigi convenient ac teneri.
Il provvedimento ribadisce che solo le pronunce redatte in forma scritta e recitatae oralmente dovevano intendersi quali sentenze, ma non qualifica più come nulle le decisioni assunte in assenza di tali requisiti, che, al contrario, vengono equiparate a quelle rese praeiudicii loco: è, dunque, per la natura anticipatoria di tali decisioni che le stesse non sono soggette ad impugnazione. Da questo momento, dunque, per le sentenze prive dei requisiti della forma scritta e della lettura pubblica, non opererà più il regime della nullità, bensì il principio in base al quale le decisioni interlocutorie, indipendentemente dal loro contenuto, non sono soggette a gravame[22].
- Nell’esperienza giuridica romana, dunque, il problema relativo necessità o meno dell’esperimento di un autonomo strumento per la rilevazione della nullità delle sentenze resta estremamente controverso, anche per la difficoltà di individuare, nelle disposizioni normative e nella riflessione della giurisprudenza, un criterio veramente sicuro per distinguere i casi in cui la nullità opera ipso iure da quelli in cui, invece, deve essere accertata giudizialmente. Di tali difficoltà, del resto, vi è traccia anche nel moderno ordinamento processuale, come si ricava dal vigente art. 161 cpc, che ancora distingue, pur senza una precisa delineazione delle relative fattispecie considerate, le ipotesi in cui, in generale, la nullità delle decisioni giurisdizionali deve essere fatta valere con lo strumento dell’appello o del ricorso per Cassazione, escludendo, per altro verso, la necessità di una nuova pronuncia per il caso di una sentenza priva della sottoscrizione del giudice[23]: un vizio tanto grave da non richiedere, per l’accertamento dell’improduttività degli effetti giuridici, l’esperimento di un apposito mezzo di gravame, che la lunga riflessione del diritto intermedio qualificherà come querela nullitatis[24].
Prof.Federico Pergami
[1] Per uno studio sui modi di rilevazione della nullità di una sentenza, non si può prescindere dall’ormai risalente, ma fondamentale lavoro dell’APELT, Die Urteilsnichtigkeit im römischen Prozess, Schramberg [s.d.], 89 ss.
[2] La trattazione più completa al riguardo resta quella di LITEWSKI, Die römische Appellation in Zivilsachen, 1, in RIDA. 12 (1965), 375 ss.
Il problema della modalità di rilevazione della nullità di una sentenza è stato affrontato, in modo approfondito, dalla dottrina processualistica del diciannovesimo secolo: BETHMANN-HOLLWEG, Der Civilprozess des gemeinen Rechts in geschichtlicher entwicklung. Der römische Civilprozess, 2, Bonn 1866 (rist. an. Aalen 1959), 720 ss.; KELLER, Der römiche Zivilprozess und die Aktionen in summarischer Darstellung, Leipzig 1883 (ris. An. Aalen 1966), 418 ss.; MERKEl, Abhandlungen aus dem Gebiete des römischen Rechts, 2, Über die Geschichte der klassichen Appellation, Halle 1883, 161 ss.; EISELE, Abhandlungen zum römischen Civilprozess, Freiburg 1889, 125 ss.
[3] ORESTANO, L’appello civile in diritto romano, Genova 1952 (che cito nelle ristampa anastatica, pubblicata a Torino 1966), 13 ss.; ID., voce Appello (diritto romano), in ED. 2 (1958), 708 ss. A conclusioni analoghe, seppure con motivazioni parzialmente differenti, CALAMANDREI, La Cassazione civile. 1, Napoli 1920 (ora in Opere Giuridiche. 6, Torino 1976, 17 ss; RAGGI, Studi sulle impugnazioni civili nel processo romano, 1, Milano 1961), 19 ss.; WENGER, Institutionen des römischen Zivilprozessrecht, München 1925 (tr. it. a cura di Orestano, Milano 1938), 44 ss.
[4] Sulla formazione di tali concetti in relazione al riesame delle sentenze (fra cui l’autore ricomprende anche l’istituto dell’intercessio e della revocatio in duplum), vedi l’analisi dell’ORESTANO, L’appello civile, cit., 100 ss., sulla scia del BIONDI, Appunti intorno alla sentenza nel processo civile romano, in Studi in onore di P. Bonfante, 4, Milano 1930, 67 ss.: “…la obligatio iudicati nasce dalla pronuncia del giudice, la quale a sua volta, trova il suo fondamento giuridico nella litis contestatio e nel iussus iudicandi. Pertanto, la obligatio iudicati non poteva essere valida qualora fosse inesistente o invalido taluno di quei tre elementi su cui si fondava”.
[5] Vedi, al riguardo, le osservazioni del BIONDI, Appunti intorno alla sentenza, cit., 68 ss.
[6] Sulla figura dell’imperatore Caracalla, vedi, oltre alle riflessioni di SARGENTI, Aspetti e problemi giuridici del III secolo, Milano 1983, 5 ss., l’ampia ricostruzione di DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, 52 ss.. anche per la rassegna bibliografica.
[7] Così, KRÜGER, Corpus Iuris Civilis. III. Codex Iustinianus, a h.l.
[8] Sul significato dell’espressione, vedi MARRONE, Dominus litis, in AUPA. 2009, 264, per il quale “la domina litis non era stata in iudicio, non perché il suo nome non stava nel iudicium (iudicium nel senso di formula: a parte il fatto, non decisivo, che siamo in sede di cognitio extra ordinem, ed è notissimo esattamente il contrario) ma perché, con la litis contestatio, la domina litis, nel giudizio (in iudicio), non aveva avuto il ruolo di parte, che era stato assunto dal procurator”.
[9] Per un caso analogo, D. 12.3.7, di Ulpiano: Vulgo praesumitur alium in litem non debere iurare quam dominum litis: denique Papinianus ait alium non posse iurare quam eum, qui litem suo nomine contestatus est.
[10] Sul rescritto, in passato, vedi EISELE, Cognitor und procurator, Freiburg und Tübingen 1881, 83 nt. 53; KOSHAKER, Transatio iudicii. Eine Studie zum römischen Zivilprozess, Graz 1905, 120 nt. 1; WIRBEL, Le cognitor, Paris 1911, 207 nt. 1, nonchè, di recente e più ampiamente, MARRONE, Dominus litis, cit., 262 ss.
[11] Sul passo, vedi, in particolare, PEACHIN, Prosopographic notes from law codes, in ZPE. 84 (1990), 109 nt. 29; PISO, An der Nordgrenze des Römischen Reiches. Ausgewählte Studien (1972-2003), München 2005, 390 nt. 133.
[12] Sul progressivo estendersi e generalizzarsi di decisioni imperiali chiaramente limitate, nella loro originaria formulazione, al caso concreto, vedi SARGENTI, Aspetti e problemi giuridici, cit., 237 ss.
[13] Importanti spunti al riguardo si trovano ancora in SANFILIPPO, Corso di diritto romano. Il mandato. Parte prima, Catania [s.d.] 1947 (ora ripubblicato, con una introduzione di Giovanni Nicosia, in Rivista di diritto romano, 4 [2004], http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/), 46 s.
[14] Sulla limitazione della responsabilità del mandatario, in età severiana, alle ipotesi di dolo (senza estensione alla colpa), cfr. Coll. 10.2.3 (Mod. 2 diff.): In mandati vero iudicium, dolus, non etiam culpa deducitur. Per la disciplina in età giustinianea, in cui si ammette la responsabilità del mandatario per culpa o per omnis culpa, vedi D. 17.1.10.1 e C. 4.35.11 e 13).
Diversa è l’ipotesi in cui il procuratore abbia agito nei limiti del mandato, ma abbia perso la lite coltivata per conto del mandante: quest’ultimo poteva agire nei confronti del procuratore con l’actio mandati: al riguardo, vedi ancora SANFILIPPO, Corso, 47.
[15] Sempre al di fuori della sedes materiae, sono numerosi i rescritti coevi, tutti finalizzati a ribadire la superfluità di una doglianza avverso la pronuncia giurisdizionale nulla: C. 7.56.1, di Alessandro Severo, sul difetto di rappresentanza processuale e di ratihabitio dell’opera del falsus procurator; C. 7.57.2 dello stesso, sulla pronuncia priva di forma della sentenza; C. 3.3.1, 7.48.2 e 9.20.4 di Gordiano, su casi di indebito esercizio del potere giurisdizionale da parte di funzionari o giudici incompetenti; C. 7.57.4 dello stesso, sulla nullità per mancanza di forma di una interlocutio praesidis; 7.44.1 di Valeriano e Gallieno sulla stessa questione, in materia di arbitri dati; C. 7.43.5, di Filippo, sulla nullità di una sentenza pronunciata in luogo diverso da quello stabilito e nella contumacia del convenuto.
[16] Particolare approfondimento del contenuto del frammento in RAGGI, Studi sulle impugnazioni civili nel processo romano. 1, Milano 1961, 84 ss. (su cui, con specifico riguardo al passo di Modestino, la recensione di AMELOTTI, in BIDR. [1962], 322 ss., ora in Scritti Giuridici, Torino 1996, 76 ss.); PUGLIESE, Note sull’ingiustizia della sentenza nel diritto romano, in Studi in onore di E. Betti, 3, Milano 1962 (ora in Scritti Giuridici scelti, 2, Napoli 1985), 76 ss.
[17] Sul passo, ampio commento in CALAMANDREI, Cassazione, cit., 51 ss. e, ancora RAGGI, Studi sulle impugnazioni, cit., 78 ss.
[18] Una concordanza non casuale, posto che Macro è da ritenersi attivo proprio sotto Caracalla e Alessandro Severo: in argomento, per tutti, KUNKEL, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, Graz-Wien-Köln, 19672, 256.
[19] Sul passo, vedi le osservazioni di RAGGI, Studi sulle impugnazioni, cit., 28 ss., precedute da un ampio commento già in Osservazioni sulle impugnazioni nei giuridici divisori, in IVRA. 10 (1959), 131 ss.
[20] Gli statuta generalia, a cui la disposizione si richiama, possono essere individuati nella c. 2 C. 7.44 del 21 gennaio 317, indirizzata allo stesso Probo: Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. ad Probum pp. Hac lege perpetua credimus ordinanedum, ut iudices, quos cognoscendi et pronuntiandi necessitas teneret, non subitas, sed deliberazione habita post negotium sententias ponderatas sibi ante formarent et emendatas statim in libellum secuta fidelitate conferrent scriptasque ex libello partibus legerent, se ne sit eis posthac copia corrigendi vel mutandi. Exceptis tam viris eminentissimis praefectis praetorio quam aliis illustrem administrationem gerenti bus ceterisque illustri bus iudicibus, quibus licentia conceditur etiam per officium suum et eos, qui ministerium suum eis accomodant, sententias definitivas recitare. Sul testo giustinianeo, vedi VISKY, Urteilsbegründung im römischen Zivilprozess, in RIDA. 18 (1971), 746 ss.
[21] Tale principio, del resto, non sembra essere stato rinnegato neppure nella Compilazione giustinianea, nella quale figura detta costituzione, nel titolo De sententiis ex periculo recitandis (C. 7.44.3).
[22] Sul regime delle pronunce anticipatorie in epoca severiana, LITEWSKI, Die römische Appellation in Zivilsachen, 2, in RIDA. 13 (1966), 253 ss. e, anche per i riferimenti bibliografici, VINCENTI, “Ante sententiam appellari potest”. Contributo allo studio dell’appellabilità delle sentenze interlocutorie nel processo romano, Padova 1986, 8 ss.
[23] Art. 161 cpc: “La nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per Cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione. Questa disposizione non si applica quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice”.
[24] In argomento, per una disamina dell’istituto della querela nullitatis nel diritto intermedio e nel diritto canonico, cfr. PADOA SCHIOPPA, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, II, Milano 1967, 44 ss.
Patrocinante avanti alle Magistrature Superiori
Professore presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi