Considerazioni sui rapporti legislativi fra Oriente e Occidente: unità normativa o partage législatif ? di Federico Pergami.
Il tema dei rapporti legislativi fra Oriente e Occidente nonché quello, specularmente connesso, relativo alla sfera di applicazione e al valore normativo delle costituzioni imperiali contenute nel Codice Teodosiano, continua ad alimentare un acceso dibattito fra gli studiosi della tarda antichità[1], divisi fra coloro che ritengono che, quantomeno dall’ascesa al trono di Costantino, vigesse un vero e proprio dualismo legislativo[2] e chi, al contrario, afferma che ogni costituzione imperiale, indipendentemente dall’attribuzione e dalla formale paternità, avesse vigore in tutto l’Impero[3].
In un precedente lavoro, premessa la considerazione che il problema dovesse essere affrontato in relazione ai differenti momenti storici e alle specifiche espressioni dell’attività legislativa, in intima connessione con l’assetto del potere, avevo inclinato, relativamente al dodicennio di comune governo degli imperatori Valentiniano e Valente, a favore di una supremazia, anche a livello normativo, del fratello maggiore, il quale, nonostante la formale divisione dell’Impero e dei suoi apparati burocratico-legislativi, aveva continuato a rivestire un ruolo preponderante nell’azione di governo, la cui influenza aveva consentito di imprimere un’impronta unitaria a molti aspetti dell’attività normativa, rivestendo invece Valente, particolarmente nei primi anni di governo, una figura marginale e limitata, anche in considerazione dei gravosi impegni militari legati alla campagna militare sul Danubio[4].
Un’ipotesi ricostruttiva in contrasto con le conclusioni cui perveniva il Gaudemet, il quale, invece, riteneva che proprio con l’avvento al potere di questi due imperatori, si sarebbe realizzata in maniera definitiva una divisione dell’Impero e che, di conseguenza, sotto il profilo normativo, “le partage législatif divient habituel”[5].
La dottrina prevalente, come rileva Lucio De Giovanni nella sua recente ed importante monografia sulla realtà giuridica dell’età tardoantica, si è orientata a favore di tale ipotesi ricostruttiva, sostenendo che “le costituzioni emanate in una pars Imperii, pur essendo formalmente intestate a tutti gli Augusti regnanti, non valevano meccanicamente anche nell’altra pars”[6].
A mio giudizio, però, la delicata questione, che merita ulteriori approfondimenti, non può trovare soluzioni generali ed univoche per l’intero periodo storico cui si riferiscono le disposizioni normative contenute nelle raccolte ufficiali, ma deve essere affrontata con riguardo ai singoli imperatori succedutisi alla porpora imperiale, i cui indirizzi di politica legislativa sono privi del carattere dell’uniformità.
- Particolarmente gravi sono i problemi che si pongono all’interprete nell’esaminare i profili relativi al tema del partage législatif nella normativa di Arcadio ed Onorio: un esempio significativo di tali difficoltà si rinviene a proposito della disciplina del processo criminale, che, ad una prima lettura dei provvedimenti imperiali coevi, risulta differentemente regolato nelle due partes Imperii.
Una prima costituzione è rappresentata da un provvedimento normativo, raccolto nel titolo 11.30, De appellationibus et poenis earum et consultationibus, la c. 57 C.Th. 11.30:
C.Th. 11.30.57: Impp. Arcadius et Honorius AA. ad Eutychianum p(raefectum) p(raetori)o. Post alia: Addictos supplicio et pro criminum immanitate damnatos nulli clericorum vel monachorum, eorum etiam quos synodatis vocant, per vim atque usurpationem vindicare liceat ac tenere. Quibus in causa criminali humanitatis consideratione, si tempora suffragantur, interponendae provocationis copiam non negamus , ut ibi diligentius examinetur, ubi contra hominis salutem vel errore vel gratia cognitoris obpressa putatur esse iustitia: ea condicion, ut sive pro consule, comes Orientis, Augustalis, vicarii fuerint cognitores, non tam ad clementiam nostram quam ad amplissimas potestates sciant esse referendum. Eorum enim de his plenum volumus esse iudicium, qui, si ita res est et crimen exegerit, rectius possint punire damnatos. Et cetera. Dat. vi kal. Aug. Mnizo Hon(orio) A. iiii et Eutychiano conss.
La costituzione, emanata nell’anno 398, attribuisce ai chierici una legittimazione ad appellare per conto del condannato a morte, a cui, al contrario, la precedente legislazione, in particolare dell’imperatore Costantino, aveva vietato il gravame, quantomeno per i reati più gravi[7].
Il testo, in verità, è tutt’altro che perspicuo: dopo avere negato ai monaci e ai chierici la possibilità di sottrarre i condannati all’esecuzione con la forza o con ogni altro mezzo illecito (usurpatio), attribuisce a non meglio identificati soggetti, la facoltà di impugnare la sentenza sfavorevole per ragioni umanitarie, humanitatis consideratione, nell’ipotesi di errore del giudice o di un suo atteggiamento di parzialità.
Il dubbio su quali siano i soggetti legittimati alla proposizione del gravame deriva dalla non sicura riferibilità, se ai chierici o ai condannati, del “quibus” con cui si apre la frase centrale della costituzione, anche perché nessun ausilio si ricava dalla versione giustinianea che, nel titolo VII.62, De appellationibus et consultationibus, è riportata con le stesse parole (C.I. 7.62.29)[8].
A favore della intepretazione che propongo, relativa all’identificazione di costoro con i religiosi, depone, a mio giudizio, una diversa e più ampia disposizione, contenuta nel titolo 1.4, De episcopalis audientia del codice giustinianeo, la c. 6[9], in cui, parzialmente riproducendo la geminata c. 16 C.Th. 9.40[10], la frase “quibus in causa criminali…interponendae provocationis copia non negamus”, risulta separata dal contesto precedente, confermerebbe il riferimento all’azione degli ecclesiastici, che non è sicuro avesse nella versione teodosiana.
Il profilo che maggiormente rileva ai fini della presente indagine è, però, quello relativo alla ripartizione della competenza giurisdizionale: per le ipotesi di impugnazioni contro le sentenze emanate dal proconsole o da altri funzionari, comes Orientis, vicari, prefetto d’Egitto, la decisione in secondo grado spetta al prefetto del pretorio, cui il provvedimento è indirizzato: non tam ad clementiam nostra quam ad amplissimas potestates sciant esse referendum.
- In apparente contrasto con tale ripartizione della competenza giurisdizionale, è il pressochè contemporaneo provvedimento, intitolato agli stessi imperatori Arcadio ed Onorio, raccolto nello stesso titolo, la c. 61 C.Th. 11.30 del 19 agosto 400:
C.Th. 11.30.61: Impp. Arcadius et Honorius AA. Flaviano p(raefecto) u(rbi). Quotiens vir spectabilis vicarius venerandae urbis negotium aliquod praemissa inscribtione cognoscit atque ab eius sententia fuerit provocatum, ad nostram clementiam referri decernimus. Sin vero huiusmodi examen arripuerit, in quo sine ullo legis vinculonon tam crimen obicitur quam cuiusdam criminis conflatur invidia lataque sententia appellatione suspenditur, inlustrem sedem tuam editis ex more apostolis sacra vice audientiam praebere sancimus. Dat. xiiii Kal. Sept(em)b. Brixiae Stilichone et Aureliano conss.
La disposizione prevede che, in un procedimento criminale instauratosi su formale presentazione di un’accusa motivata e sottoscritta[11], praemissa inscribtione, l’impugnazione eventualmente proposta contro le sentenze del vicarius urbi sospenda gli effetti della pronuncia di primo grado e che in tale situazione di pendenza rimanga sino alla decisione d’appello. Rileva ai nostri fini mettere in luce che la competenza per una tale decisione sia rimessa al tribunale imperiale, ad nostram clementiam referri decernimus, piuttosto che, come due anni prima era stato esplicitamente stabilito con la c. 57, all’esame del prefetto del pretorio, mentre tutte le altre sono rimesse all’esame del praefectus urbi.
- Come giustificare la differente ripartizione di competenza nel settore giurisdizionale, seppure nella stessa materia della repressione dei delitti di maggiore gravità, riflessa nelle due disposizioni di Arcadio ed Onorio, emanate a breve distanza l’una dall’altra ?
La spiegazione di una simile divergenza potrebbe, a tutta prima, essere attribuita ad un differente orientamento normativo nelle due parti dell’Impero e tradursi in un’ulteriroe attestazione a favore di coloro che sostengono l’esistenza di un dualismo legislativo, quale riflesso della formale dualità nella gestione del potere.
In verità, l’esame del contenuto delle costituzioni 57 e 61 C.Th. 11.30 non consente una soluzione tanto drastica e suggerisce, anche per il periodo di correggenza di Arcadio ed Onorio, di utilizzare la massima cautela nel valutare il periodo di governo dei due augusti come un esempio della spartizione dell’Impero.
A ben vedere, infatti, la costituzione 57 C.Th. 11.30, benchè intitolata, come di regola nel materiale normativo raccolto nel Codice Teodosiano, ad entrambi i titolari del potere, si riferisce all’Oriente, come si ricava dall’indicazione al singolare del nome del proconsole (sive proconsule), che è, dunque, l’unico esistente nella pars Orientis, il proconsole d’Asia, nonché degli altri funzionari, comes Orientis, prefetto augustale, tutti orientali (comes Orientis, Augustalis), accomunati nell’emanazione della pronuncia contro cui è proposto gravame.
La costituzione 61 h.t., invece, risulta emessa a Brescia ed è indirizzata al prefetto urbano Flaviano e si colloca, dunque, fra i provvedimenti di provenienza occidentale.
Sotto il profilo del contenuto, però, quest’ultima regola, in generale, la competenza giurisdizionale del tribunale imperiale in materia criminale, cui è attribuito, come s’è visto, il riesame delle sentenze emanate dal vicarius urbi: il provvedimento, infatti, con tono apparentemente precettivo, prevede che gli appelli contro le sentenze del vir spectabilis vicarius venerandae urbis debbano essere rimessi ad nostram clementiam. Al contrario, la c. 57 h.t., regola un’ipotesi particolare, scaturita dall’anomala situazione venutasi a creare a causa dell’illecita attività di monaci e sacerdoti, diretta a sottrarre al supplizio i condannati a morte pro criminum immanitate: la costituzione, infatti, è espressamente motivata da un intento di natura umanitaria, humanitatis consideratione, che è probabilmente quello di accelerare l’esame degli appelli dei condannati, attribuendone l’esame ai prefetti del pretorio, di più facile adito rispetto al tribunale imperiale.
Si trattava, dunque, di una situazione contingente che, se per un verso potrebbe giustificare la conservazione del relativo provvedimento nella raccolta teodosiana, per altro verso motiverebbe una disciplina normativa in apparente contrasto con le altre disposizioni in materia contenute nel Codice.
A me pare, dunque, che il contrasto normativo in tema di ripartizione della competenza giurisdizionale fra le due partes Imperii durante il regno di Arcadio ed Onorio, sia solo apparente e che l’esame dei due provvedimenti normativi, cc. 57 e 61 C.Th. 11.30, non offra elementi sicuri a favore dell’esistenza di un netta separazione nella politica normativa dei due sovrani, quantomeno in un settore particolarmente delicato, come quello della disciplina del processo criminale.
Un’indicazione significativa in tale direzione, del resto, emerge dalle parole di Orosio, che all’inizio del V secolo, a proposito del periodo di correggenza di Arcadio ed Onorio, scriveva che i sovrani commune imperium divisis tantum sedibus tenere coeperunt[12], per indicare una gestione unitaria del potere, anche sotto il profilo legislativo[13].
- Il tema dell’unità o della separazione legislativa nella realtà tardoantica, lungi dal presentarsi in termini generali ed univoci, si pone in termini differenti nei diversi momenti storici dello svolgimento dell’attività normativa e nei singoli settori della disciplina positiva [14], nel quadro di una realtà istituzionale che si adatta alle caratteristiche e alle esigenze conesse al vario articolarsi dell’assetto del potere.
E’ in questa direzione, dunque, che ritengo debbano orientarsi le indagini destinate ad indagare, sotto il profilo legislativo, il problema relativo alla sfera di applicazione delle costituzioni imperiali nel tardo diritto romano: un aspetto che non è sfuggito a Manlio Sargenti, il quale, nella relazione conclusiva al tredicesimo convegno dell’Accademia Romanistica Costantiniana, dedicato al tema del centralismo e delle autonomie, a proposito del problema dei rapporti legislativi fra le due partes Imperii nel periodo di correggenza di Arcadio con Onorio, ammoniva l’interprete che “anche per questo periodo occorrerà procedere con molta cautela all’esame analitico delle costituzioni, prima di giungere, e forse senza poter giungere, a conclusioni di carattere generale”[15].
Patrocinante avanti alle Magistrature Superiori
Professore presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi
[1] Già oltre mezzo secolo fa, GAUDEMET scriveva che “le débat est ouvert depuis longtemps” (Le partage législatif au Bas-Empire d’après un ouvrage récent, in SDHI (1955), 319, mentre, recentemente, anche DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, 346 ss. dà conto del “dibattito suscitato da questa problematica” (ibidem, nt. 95). Ampia ed aggiornata rassegna bibliografica in LEPORE, Un problema ancora aperto: i rapporti legislativi tra Oriente ed Occidente nel tardo Impero romano, in SDHI 66 (2000), 343 ss., che si propone di “tratteggiare un quadro attendibile del concreto esplicarsi dei rapporti politico-normativi tra le due partes Imperii” (ibid., 398).
[2] A favore di tale ipotesi, da ultimo, vedi DE BONFILS, Commune imperium divisis tantum sedibus: i rapporti legislativi tra le partes imperii alla fine del IV secolo, in AAC 13 (2001), 107 ss., ove bibliografia, nonché, dello stesso autore, CTh. 12.1.157-158 e il prefetto Flavio Mallio Teodoro. Appunti per un corso di lezioni, Bari 1994, 29 ss.
[3] Al riguardo, PIETRINI, Sui rapporti legislativi fra Oriente e Occidente, in SDHI 64 (1998), 519 ss., la quale, per sostenere la tesi dell’unità, parla di “principi costituzionali” (ibid. 520), sulla scia dell’HONORE’, The making of the Theodosian Code, in ZSS 103 (1986), 177 e, più di recente, DOVERE, Corpus Theodosiani: segno di identità e offerta di appartenenza, in Vetera Christianorum, 44 (2007), 80 , ma già in Ius principale e catholica lex, Napoli 19992, 121 ss.
[4] Federico Pergami, Rilievi sul valore normativo delle costituzioni imperiali nel tardo Impero romano: Oriente e Occidente nella legislazione di Valentiniano I e Valente, in Il diritto romano canonico quale diritto proprio delle comunità cristiane dell’Oriente Mediterraneo (IX Colloquio Internazionale Romanistica Canonistico), Roma 1994, 137 ss. Vedi, anche, La legislazione di Valentiniano I e Valente, Milano 1993, xxiv ss.
[5] GAUDEMET, Partage législatif cit., 322.
[6] Così, DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico cit., 347.
[7] Mi riferisco alle costituzioni di apertura dei titoli Quorum appellationes non recipiantur e Ad legem Iuliam de vi publica et ptivata del Codice Teodosiano, che costituiscono, unitamente a C.Th. 9.40.1, un importante edictum generale indirizzato a Catullino, emanato nel 313 e destinato a regolare la disiciplina del processo criminale (PIGANIOL, L’empereur Constantin, Paris 1932, 108 ss.; DUPONT, Le droit criminel dans les constitutions de Constantin. Les infractions, Lille 1953, 32 ss. ; GAUDEMET, Constitutions constantiniennes relatives à l’appel, in ZSS 98 [1981], ora in Droit et société aux derniers siècles de l’Empire romain, Napoli [1992], 69 ss.; GIUFFRE’, La repressione criminale nell’esperienza romana. Profili, Napoli 19974, 159 ss.; SANTALUCIA, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 19982, 286 ss.). La prima disposizione (C.Th. 11.36.1), infatti, dopo avere osservato, in generale, che “moratorias dilationes frustratoriasque non tam appellationes quam ludificationes admitti non convenit” e che “sicut bene appellantibus negare auxilium non oportet, ita his, contra nos merito iudicatum est, inaniter provocantibus differri bene gesta non decet”, prevede che non debbanno essere ammessi gli appelli di omicidi, adulteri, praticanti di arti magiche e avvelenatori, quae atrocissima facinora sunt, a condizione che gli imputati siano rei confessi o quando la loro colpevolezza sia stata accertata con una “dilucida et probatissima veritatis quaestio”. Analogo contenuto ha pure il secondo provvedimento, C.Th. 9.10.1, che, in relazione al crimen vis, stablisce che la pena applicabile sia quella capitale, precisando che “nec interposita provocatione sententiamquae in eum fuerit dicta suspendat”.
[8] Per una discussione del problema, vedi BIONDI, Diritto romano cristiano, 3, Milano 1954, 517 ss.
[9] C. 1.4.6: Impp. Arcadius et Honorius AA Rufino pp. Addictos supplicio et pro criminum immanitate damnatos nulli clericorum vel monachorum, eorum etiam quos synoditas vocant, per vim atque usurpationem vindicare liceat ac tenere, sed reos ad locum poenae sub prosecutione pergentes nullus teneat aut defendat. Sed sciat se cognitor triginta librarum auri multa, primates officii capitali esse sententia feriendos, nisi usurpatio ista aut protinus vindicetur aut, si tanta clericorum aut monachorum audacia est, ut bellum potius quam iudicium futurum esse existimetur, ad clementiam nostram commissa referantur, ut nostro arbitrio mox severior ultio procedat. Ad episcoporum sane culpam ut cetera redundabit, si quid forte in ea parte regionis, in qua ipsi populos Christianae religionis doctrinae insinuatione moderantur, ex his, quae fieri hac lege prohibemus a monachis perpetratum esse cognoverint nec vindicaverint. Quibus in causa criminali humanitatis consideratione, si tempora suffragantur, interponendae provocations copiam non negamus. D. vi k. Aug. Mnizo Honorio A. iiii et Eutychiano conss.
[10] C.Th. 9.40.16: Impp. Arcadius et Honorius AA. Eutychiano p(raefecto) p(raetori)o. Post alia: Addictos supplicio et pro criminum immanitate damnatos nulli clericorum vel monachorum, eorum etiam, quos synoditas vocant, per vim adque usurpationem vindicare liceat ac tenere. Quibus in causa criminali humanitatis consideratione, si tempora suffragantur, interponendae provocationis copiam non negamus, ut ibi diligentius examinetur, ubi contra hominis salutem vel errore vel gratia cognitoris obpressa putatur esse iustitia: ea condicione, ut, sive pro consule, comes Orientis, praefectus Augustalis, vicarii fuerint cognitores, non tam ad clementiam nostram quam ad amplissimas potestates sciant esse referendum. Eorum enim de his plenum volumus esse iudicium, qui, si ita res est et crimen exegerit, rectius possint punire damnatos. Reos etiam tempore provocationis emenso ad locum poenae sub prosecutione pergentes nullus aut teneat aut defendat, sed sciat se cognitor XXX librarum auri multa, primates officii capitali esse sententia feriendos, nisi usurpatio ista aut protinus vindicetur aut, si tanta clericorum ac monachorum audacia est, ut bellum potius quam iudicium futurum esse existimetur, ad clementiam nostram cmmissa referantur, ut nostro mox severior ultio procedat arbitrio. Ad episcoporum sane culpam ut cetera redundabit, si quid forte in ea parte regionis, in qua ipsi populo Christianae religionis doctrinae insinuatione moderantur, ex his quae fieri hac lege prohibemus a monachis perpetratum esse cognoverint nec vindicaverint. Ex quorum numero rectius, si quos forte sibi deesse arbitrantur, clericos ordinabunt. Et cetera. Dat. vi Kal. Aug. Mnizo Honorio iiii et Eutychiano conss.
[11] Per qualche riflessione sulla natura, accusatoria o inquisitoria, del processo criminale tardoantico, mi permetto di rinviare al mio Accusatio-inquisitio: ancora a proposito della struttura del processo criminale in età tardoantica, in AAC 16 (2007), 595 ss.
[12] Or., Hist. adv. Pag., 7, 36, 1.
[13] Vedi, però, DE BONFILS, Commune imperium divisis tantum sedibus cit., 119 ss., per il quale, nel racconto dello storico, “non vi è un riferimento tecnicoad una unità legislativa che non entra in alcun modo nel racconto orosiano”.
[14] Il problema relativo alla unità o alla separazione legislativa nel corso del quarto secolo, è, infatti, aggravato dalla circostanza che, proprio in materia processuale, le oscillazioni e le divergenze in relazione alle sentenze emanate dal vicarius urbi sono particolarmente evidenti: ne costituiscono documentale conferma la c. 9 C.Th. 11.30 dell’anno 319, in cui Costantino, anticipando la legislazione di Arcadio ed Onorio che emerge dalla costituzione 61 h.t. in esame, attribuiva al tribunale imperiale (in nostram scientiam) la competenza a decidere sulle sentenze emesse da tale funzionario, come pure farà Giuliano, stabilendo, con la costituzione 29 h.t., che il riesame delle decisioni dei vicari fosse destinata ad nostrum comitatum. Ma, pochi anni più tardi, la medesima ipotesi era stata diversamente regolata da Valentiniano e Valente che, con due provvedimenti, C.Th. 1.6.2 e 3, nei quali è stabilito, in termini generali, che la competenza a decidere gli appelli contro le sentenze dei vicari, era affidata al praefectus urbi. E la rilevanza, sotto il profilo legislativo, di tale disciplina, ai fini del presente contributo, emerge in tutta evidenza solo considerando che le costituzioni dei Valentiniani, risultando emanate nel giugno dell’anno 364, quindi prima della definitiva separazione dei due fratelli, dispiegavano la loro efficacia per tutto l’Impero.
[15] SARGENTI, Centralismo o autonomie nella tarda antichità ? Posizioni attuali e prospettive future, in AAC 13 , 809.