Il processo privato nella legislazione dell’imperatore Diocleziano di Federico Pergami.
- Come è stato autorevolmente sostenuto, l’imperatore Diocleziano, a proposito delle riforme che ne hanno caratterizzato l’attività di governo, appare, nello stesso tempo, “restauratore e innovatore”[1] e il suo regno apre, nella storia giuridica di Roma, quello che è stato definito, con espressione divenuta ormai classica per indicarne l’intima complessità, “a relatively well illumined twilight” [2].
Nell’ambito dell’attività riformatrice attuata dal sovrano dalmata, un posto predominante occupa la riorganizzazione del processo privato, la cui minuziosa disciplina attesta come, alla fine del III secolo dopo la nascita di Cristo, possa dirsi pienamente realizzato, tramite l’emanazione di una serie di interventi legislativi dedicati all’amministrazione della giustizia, il “trionfo della cognitio extra ordinem” [3].
- In questo quadro normativo, merita particolare attenzione un importante intervento legislativo, emanato nell’anno 294, con cui l’imperatore intese regolare in maniera organica lo svolgimento del giudizio civile[4]: si tratta di un provvedimento smembrato in quattro frammenti conservati in differenti titoli del Codice Giustinianeo, il cui insieme verosimilmente neppure rappresenta il testo completo del provvedimento e di cui non è possibile ricostruire i nessi e la struttura d’insieme[5], che costituisce una riforma organica della procedura civile. Vi si affrontano, infatti, tematiche centrali nello svolgimento del processo privato, quali la ripartizione delle competenze fra i giudici delegati dall’imperatore all’esercizio dell’attività giurisdizionale (C. 3.3 De pedaneis iudicibus, 2), lo svolgimento della fase istruttoria del processo di primo grado (C. 3.11 De dilationibus, 1), il ruolo dell’executor post sententiam (C. 7.53 De executione rei iudicatae, 8) nonché, nel frammento relativamente più esteso, un’ampia regolamentazione del giudizio di secondo grado (C. 7.62, De appellationibus et consultationibus, 6) [6].
Sotto il proflo formale, i frammenti conservati nel Codice si aprono, dopo l’indicazione dei due Augusti e la sigla dei Cesari (Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC.), con la formula «dicunt», cioè quella tipica e tradizionale degli editti [7]: circostanza particolarmente significativa, se poniamo mente al fatto che quello in esame è uno dei pochi casi in cui ciò avviene nei testi delle raccolte ufficiali e uno dei rarissimi esempi per quanto riguarda le costituzioni dioclezianee, costituite, per la maggior parte, da rescritti; l’unico, anzi, in materia processuale[8].
- Fra le riforme dell’assetto burocratico dell’Impero attuate dall’imperatore Diocleziano, una speciale rilevanza assumerà, per i riflessi che, come subito vedremo, era destinata a produrre sulla ripartizione della attività attribuite ai funzionari imperiali, l’aumento del numero delle province che, riducendone proporzionalmente l’estensione, ne rafforzava la rilevanza, non soltanto nel settore amministrativo, finanziario e militare ma, per quello che qui particolarmente rileva, anche nella ripartizione delle competenze funzionali nell’esercizio dell’attività giurisdizionale.
Una prima e diretta conseguenza di un simile intervento di governo, è riflessa nella costituzione contenuta in C. 3.3.2, con cui Diocleziano, per contrastrare la tendenza a delegare a iudices pedanei l’esercizio dell’attività giurisdizionale, imponeva ai governatori delle province un controllo diretto ed effettivo sull’attività processuale (de his causis, in quibus, quod ipsi non possent cognoscere, atehac pedaneos iudieces dabant), quantomeno sino alla conclusione della fase preliminare del giudizio: il testo in esame, infatti, stabilisce anzitutto che i praesides possano deferire la cognitio a iudices pedanei esclusivamente per il caso in siano impediti nello svolgimento dell’attività giurisdizionale per occupationes publicas vel per causarum multitudinem omnia huiusmodi negotia; inoltre, dispone che i governatori dovessero, in ogni caso, mantenere il ruolo di giudici sino all’emanazione della sentenza nelle cause di libertà e di ingenuità[9]:
- 3.3.2: Impp. Diocletianvs et Maximianvs AA. et CC. dicvnt. Placet nobis praesides de bis causis, in quibus, quod ipsi non possent cognoscere, antehac pedaneos iudices dabant, notionis suae examen adhibere, ita tamen ut, si vel per occupationes publicas vel propter causarum multitudinem omnia huiusmodi negotia non potuerint cognoscere, iudices dandi habeant potestatem (quod non ita accipi convenit, ut etiam in bis causis, in quibus solebant ex officio suo cognoscere, dandi iudices licentia permissa credatur: quod usque adeo in praesidum cognitione retinendum est, ut eorum iudicia non deminuta videantur): dum tamen de ingenuitate, super qua poterant et ante cognoscere, et de libertinitate praesides ipsi diiudicent. D. XV K. Avg. CC. Conss.
Si comprende bene come era questo un modo per contrastare la tendenza, evidentemente affermatasi in modo diffuso nella prassi dei tribunali dell’Impero, di attribuire a giudici delegati l’esercizio dell’attività giurisdizionale[10] e per richiamare i governatori delle province al diretto esercizio della delega imperiale, evitando una duplicazione dei compiti e, nella sostanza, un irragionevole prolungamento dei tempi del processo[11] che costituiva, non soltanto nella disposizione normativa in esame[12], bensì in vari interventi dell’attività normativa imperiale, costituiva una costante preoccupazione del sovrano[13].
- Nell’identica prospettiva di un riordino del processo civile, con la specifica finalità di rafforzarne l’efficienza e di garantirne una rapida conclusione, si colloca anche il frammento conservato nel titolo De dilationibus, 3.11.1, dedicato alla regolamentazione dell’attività istruttoria nel giudizio di primo grado, mediante l’introduzione di termini tassativi alle parti per l’articolazione dei mezzi istruttori, modulando la facoltà della produzione dei documenti o dell’assunzione dei testimoni sulla base di un rigido criterio territoriale:
- 3.11.1 Impp. Diocletianvs et Maximianvs AA. et CC. dicvnt. Quoniam plerumque evenit, ut iudex instrumentorum vel personarum gratia dilationem dare rerum necessitate cogatur, spatium instructionis exhibendae postulatum dari conveniet. Quod hac ratione arbitramur esse moderandum, ut, si ex ea provincia ubi lis agitur vel persona vel instrumenta poscentur, non amplius quam tres menses indulgeantur: si vero ex continentibus provinciis, sex menses custodiri iustitiae est: in trasmarina autem dilatione novero menses computari oportebit. Quod ita constitutum iudicantes sentire debebunt, ut hac ratione non sibi concessum intellegant dandae dilationis arbitrium, sed eandem dilationem, si rerum urguentissima ratio flagitaverit et necessitas desideratae instructionis exegerit, non facile amplius quam semel nec ulla trahendi arte sciant esse tribuendam. Dat. XV K. April. CC. Conss.
Come si vede, l’imperatore ammetteva la possibilità di deduzioni anche successive all’atto introduttivo del giudizio, per evitare il rischio dell’emanazione di una sentenza che, a motivo di un’attività istruttoria non esauriente, potesse costituire oggetto di gravame e incidere negativamente, anche in forza dell’effetto sospensivo dell’appello[14], sulla ragionevole durata del giudizio.
- Intimamente connesso alla disciplina dei tempi di conclusione del processo, è il tema del giudice dell’esecuzione, l’executor sententiae di cui parla il frammento contenuto nel titolo De executione rei iudicatae, C. 7.53.8: si tratta, precisa in modo non equivoco il provvedimento, dell’organo cui è attribuito il potere di esercitare funzioni giurisdizionali post sententiam…audita omni et discussa lite.
- 7.53.8 : Impp. Diocletianvs et Maximianvs AA. et CC. Executorem eum solum esse manifestum sit, qui post sententiam, inter partes audita omni et discussa lite, prolatam iudicatae rei vigorem ad effectum videtur adducere. Sine die et consule.
Il tema del processo esecutivo era stato ampiamente affrontato nella riflessione dei giuristi di età tardoclassica, che avevano delineato con sufficiente chiarezza i ruoli e le funzioni dell’organo incaricato di dare materiale esecuzione ad una pronuncia giudiziaria: particolarmente istruttivo al riguardo è un lungo frammento di Ulpiano (D. 42.1.15), dal contenuto ampio ed articolato: anzitutto, vi si stabilisce che l’attività esecutiva, conseguente all’emanazione di una sententia emessa da iudices dati o da arbitri, doveva essere curata da chi li aveva nominati e in cui si precisa, inoltre, che ai governatori provinciali era affidata la competenza del processo esecutivo anche per le decisioni pronunciate a Roma, si hoc iussi fuerint. Il frammento prosegue delineando una rigida disciplina sulle modalità dell’esecuzione della sentenza, nel caso attuata mediante la pignoris capio ed introducendo, altresì, i criteri per l’individuzione della competenza a decidere su eventuali incidenti procedurali intervenuti nel corso del processo esecutivo, che veniva attribuita ai governatori della provincia, come per il caso, minutamente regolato nella parte conclusiva del frammento, di una controversia sulla proprietà, in cui il al iudex qui rem iudicatam exsequitur sono affidati ampi poteri discrezionali (§ 4) [15].
Del resto, alla figura di un giudice dell’esecuzione, aveva fatto menzione Ulpiano anche in altro frammento giurisprudenziale, con analogo riferimento all’apprensione di un pegno (D. 27.9.3.1: Pignori tamen capi iussu magistratus vel praesidis vel alterius potestatis et distrahi fundus pupillaris potest), come pure esplicita menzione ritroviamo in vari provvedimenti dell’imperatore Caracalla: anzitutto, con riferimento ad un ordine magistratuale in due provvedimenti in cui è esplicito il riferimento all’iussus iure sententiam exsequebatur (C. 8.17[18].2) e all’iussus eius, cui ius iubendi fuit (C. 8.22[23].1), nonché in una una costituzione, significativamente raccolta nello stesso titolo 7.53 del Codice Giustinianeo, in cui è conservato il frammento in esame, nella quale l’attività esecutiva è attribuita al praeses provinciae, qui rem iudicatam exequi debet (C. 7.53.3).
Era questo, infatti, il ruolo attribuito all’exsecutor da Macro che, in un noto passo della sua opera de appellationibus (D.49.1.4), ne parlava come di colui che interpretandi potestatem habuit, velut praeses provinciae aut procurator Caesaris[16].
- Alla disciplina del processo di secondo grado è dedicato la lunga disposizione contenuta nel titolo De appellationibus et consultationibus, che si apre con la definizione dei poteri e dei compiti dei giudici qui de appellatione cognoscent ac iudicabunt (C. 7.62.6 pr.):
Eos, qui de appellationibus cognoscent ac iudicabunt, ita iudicium suum praebere conveniet, ut intellegant, quod, cum appellatio post decisam per sententiam litem interposita fuerit, non ex occasione aliqua remittere negotium ad iudicem suum fas sit, sed omnem causam propria sententia determinare conveniat, cum salubritas legis constitutae ad id spectare videatur, ut post sententiam ab eo qui de appellatione cogniscit recursus fieri non possit ad iudicem, a quo fuerit provocatum. Quapropter remittendi litigatores ad provincias remotam occasionem atque exclusam penitus intellegant, cum super omni causa interpositam provocationem vel iniustam tantum liceat pronuntiare vel iustam.
In particolare, nel frammento in esame si afferma la regola in base alla quale, una volta proposto l’appello dopo la decisione della lite, non è consentito rimettere la controversia al primo giudice e si stabilisce che quello competente per la fase d’appello deve decidere omnem causam con la propria sentenza.
Nel quadro del sistema processuale delineato da Diocleziano, è certamente significativo rilevare come tale principio venga reiteratamente ribadito più volte, quasi con le stesse parole, tanto da domandarsi la ragione di questo ripetuto insistere sul concetto che la causa debba essere decisa interamente dal giudice ad quem e non rimessa al giudice inferiore.
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Le fonti a nostra disposizione non ci forniscono sufficienti indicazioni sullo svolgimento del giudizio di appello nell’epoca antecedente e non consentono, quindi, di stabilire se la prassi anteriore all’editto dioclezianeo fosse tale da rendere necessario l’energico intervento del legislatore per modificarla, anche se non può escludersi che i giudici competenti per l’appello tendessero a seguire una prassi analoga, facendo dell’appello una sorta di giudizio di revisione della sentenza da parte del giudice che l’aveva pronunciata.
L’editto dioclezianeo reagisce con decisione ad una tale tendenza e fissa così, in termini chiari, la natura del giudizio di appello come strumento di riesame della controversia da parte del nuovo giudice, cui era devoluta la decisione in seconda istanza.
Va segnalato come il frammento richiami la salubritas legis constitutae, per sancire come l’effetto devolutivo, che conseguiva alla proposizione del gravame e che comporatava la trasmissione degli atti al giudice superiore, fosse un principio già implicito nella natura stessa del giudizio di impugnazione: in realtà, sebbene tale richiamo presupponga un preciso intervento normativo, una lex constituta appunto di cui parla il frammento in esame, non vi è traccia esplicita di ciò nel regime del giudizio d’appello in epoca anteriore a Diocleziano. Va detto, però, che restituire al giudice inferiore il procedimento per un nuovo esame nel merito avrebbe completamente svuotato di significato la funzione e la natura stessa del secondo grado di giudizio, oltre che complicatone ulteriormente il già complesso iter, con il ripetuto passaggio dei fascioli di causa dalla periferia al centro e viceversa, creando incertezza sulla natura e sul valore della nuova pronuncia del giudice a quo rispetto a quella impugnata e, quindi, sulla sua ulteriore appellabilità[17].
Del resto, che il principio dell’effetto devolutivo consacrato nel frammento in esame (C. 7.62.6 pr.) non costituisse una novità assoluta nel sistema processuale della cognitio extra ordinem può ricavarsi da una serie di riferimenti nelle fonti: dapprima, da un richiamo, seppure piuttosto generico, che si rintraccia in un passo di Modestino (D. 50.16.106), in base al quale la causa d’appello è devoluta ad eum qui appellatus est dimittitur; in seguito, da una serie di interventi imperiali che, pur non menzionandolo esplicitamente l’effetto devolutivo, conseguente alla proposizione del gravame, ad esso mostrano di fare costante riferimento, ribadendo la necessità che gli appelli vengano rimessi al giudice superiore (CTh. 11.30.4 del 315: Officii cura est, ut omnes omnino appellationes, quaecumque fuerint interpositae, sollemniter curet accipere nec in recipiendis libellis aliquod genus iniuriae inferendum cuipiam existimet) [18] sia esso il tribunale imperiale o il sacrum auditorium oppure il giudice indicato come colui cui vice nostra cognitio est (CTh. 11.30.21 del 340) o, più in generale, i funzionari qui vice nostra consuerunti audire (CTh. 11.30.28 del 349).
Un’indicazione più precisa in tal senso si ricava, invece, da una disposizione di Costantino (CTh. 11.30.3), nella quale la cancelleria imperiale stabilisce che i giudici di appello esaminino direttamente le controversie a loro affidate in seconda istanza, nel caso mediante la ferma imposizione al proconsole d’Africa Probiano, cui il provvedimento è indirizzato nell’anno 315, di explicare quam maturissime eadem negotia. E interessante notare come una simile esortazione, quale implicita affermazione dell’effetto devolutivo dell’appello, diverrebbe, per quanto particolarmente rileva ai fini della presente trattazione, di grande pregnanza se nell’invito ad audire gli appelli ut edicto quod super appellationes negotiis finiendis iam generaliter constitutum est, contenuto nella costituzione in esame, potesse identificarsi con il frammento in esame dell’editto dioclezianeo, anche perché consentirebbe di corroborare l’ipotesi che, in relazione alla devoluzione al giudice superiore, la cancelleria imperiale di Costantino avesse ben presente l’insistente enunciazione (ut edicto…constitutum est) del predecessore.
Del resto, nel meccanismo del giudizio di impugnazione, il giudice a quo aveva già una propria funzione di accertamento dei presupposti dell’appello, che gli riservava il compito di decidere sulla sua ricevibilità o ammissibilità (appellationem recipere vel non) sarebbe stato incongruo, perciò, rimettergli ancora il processo per una decisione sul merito che egli aveva già espresso con la pronuncia della sentenza impugnata[19] .
- I paragrafi 1 e 2 dell’editto in esame sono dedicati alla disciplina dei nova in appello, cioè alla possibilità di introdurre nuove deduzioni e nuovi elementi di prova nel giudizio di seconda istanza: anzitutto, l’editto consente alle parti di integrare in sede di appello le allegazioni che fossero state omesse nel giudizio di primo grado, con la deliberata finalità di ottenere la iustitia che costituisce, afferma l’imperatore, la finalità del processo e il votum del suo governo[20]:
- 7.62.6 § 1: Si quid autem in agendo negotio minus se adlegasse litigator crediderit, quod in iudicio acto fuerit omissum, apud eum qui de appellatione cognoscit persequatur, cum votum gerentibus nobis aliud nihil in iudiciis quam iustitiam locum habere debere necessaria res forte transmissa non excludenda videatur.
Inoltre, nel paragrafo 2, viene ammessa la possibilità delle parti di richiedere, anche post interpositam appellationem, nuove prove testimoniali che siano utili per l’accertamento della verità, con l’unica condizione che, se questi nuovi mezzi di prova saranno ammessi, sia la parte richiedente a sopportare le spese di viaggio dei testimoni:
- 7.62.6 § 2: Si quis autem post interpositam appellationem necessarias sibi putaverit esse poscendas personas, quo apud iudicem qui super appellatione cognoscet veritatem possit ostendere, quam existimavit occultam, hocque iudex fieri prospexerit, sumptus isdem ad faciendi itineris expeditionem praebere debebit, cum id iustitia ipsa persuadeat ab eo haec recognosci, qui evocandi personas sua interesse crediderit.
La disciplina del processo consente di intravvedere una possibilità di articolazione dello stesso giudizio d’appello, con deduzioni anche successive all’atto introduttivo e decisioni interlocutorie del giudice sulla loro ammissibilità [21].
In verità, le fonti a nostra disposizione non consentono di affermare con sicurezza se tale regime sia stato introdotto dall’editto dioclezianeo in esame oppure, al contrario, costituisca la fromale attestazione normativa di princìpi che già vigevano nella prassi dei tribunali in epoca anteriore. Come è noto, sul punto, anche la dottrina è divisa: se da alcuni si è sostenuto, anche grazie al tenore letterale di un brevissimo frammento di Paolo (D. 34.9.5.1), che conterebbe un’ipotesi di riforma della sentenza senza l’utilizzo di nuove prove, che l’ampiezza delle motivazioni dell’editto farebbe pensare che le norme in essa sancite costituissero una assoluta novità nel processo civile[22], altri autori, specialmente sulla base di un passo di Ulpiano (D. 49.1.3.3) [23], contenente una generica affermazione della possibilità di utilizzo di qualsiasi messo istruttorio che fosse utile al riconoscimento del proprio diritto (“persequi provocationem quibuscumque modis”), hanno sostenuto che, per lo meno all’epoca dei Severi, nessuna preclusione esistesse alla deduzione di nuovi argomenti difensivi e di nuove prove anche nella seconda fase del giudizio[24].
A ben vedere, però, nessuno dei due frammenti offre un appiglio veramente sicuro a favore dell’una piuttosto che dell’altra ipotesi: nè il passo di Paolo, che non sancisce esplicitamente il divieto di allegazione di nuove prove nel secondo grado di giudizio, poichè la riforma della sentenza di primo grado, oggetto della fattispecie riferita dal giurista, poteva essere la conseguenza di una diversa valutazione dei profili giuridici, senza necessariamente comportare l’esame di nuovo materiale probatorio non offerto in atti nel primo grado di giudizio; né quello di Ulpiano, che affrontava con un’opinione personale (“puto tamen”), il diverso problema della modificabilità dei motivi di impugnazione in corso di giudizio e che con l’espressione “quibuscumque modis”, che ne costituisce il fulcro, ben poteva fare riferimento, più che ai nova, a tutti i mezzi argomentativi che il mutamento dei motivi di gravame poteva comportare.
In questo quadro, manca un sicuro e preciso orientamento del pensiero giuridico e della prassi nell’età pre-dioclezianea e la decisione sull’ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello era verosimilmente lasciata alla discrezionalità del giudice e alla peculiarità del caso concreto.
Per quanto interessa qui rilevare, l’editto di Diocleziano costituisce la prima chiara ed esplicita attestazione normativa dell’ammissibilità di nova anche in grado d’appello[25].
- Le disposizioni del paragrafo 3 introducono una serie di regole procedurali nello svolgimento del processo d’appello che troverà i suoi ulteriori sviluppi nella legislazione successiva, ma che l’editto dioclezianeo rifersice alle sole condanne capitali:
- 7.62.6 § 3: Super his vero, qui in capitalibus causis constituti appellaverint (quos tamen et ipsos vel qui pro his provocabunt non nisi audita omni causa atque discussa post sententiam dictam appellare conveniet), id observandum esse sancimus, ut inopia idonei fideiussoris retentis in custodia reis opiniones suas iudices exemplo appellatoribus edito ac refutatorios eorum ad scrinia quorum interest transmittant, quibus gestarum rerum fides manifesta relatione pandatur, ut meritis eorum consideratis pro fortuna singulorum sententia proferatur.
Il frammento in esame, anzitutto, stabilisce che, nei giudizi criminali, il giudice debba formulare, relativamente all’appello, un’apposita opinio, della quale deve inviare copia all’appellante, il quale, a sua volta, può replicare con i libelli refutatorii: successivamente, tutti gli atti del processo dovevavno essere trasmessi, a cura dello stesso giudice, ad scrinia eorum quorum interest[26].
La cancelleria di Diocleziano, inoltre, ammette pacificamente, addirittura in forma parentetica l’appellabilità delle sentenze in materia capitale (…appellare conveniet…), seppure limitando l’applicabilità della disposizione alle pronunce non definitive, non nisi audita omni causa atque discussa post sententiam dictam.
La norma è stata soprattutto considerata dalla dottrina sotto questo specifico profilo ed è stata considerata la formale attestazione legislativa di una evoluzione delineatasi in età anteriore [27]: a ben vedere, di tale processo si hanno, nelle fonti a noi note, solo tracce frammentarie e contraddittorie che non consentono di individuare un indirizzo preciso ed univoco, né, tantomeno, normativamente fissato, anche in considerazione della natura eminentemente casistica delle decisioni giurisprudenziali in materia. Per di più, nessuno dei passi o degli interventi imperiali, che si occupano dell’appellabilità delle sentenze non definitive, riguarda direttamente il processo penale : il passo di Modestino, richiamato dalla dottrina al riguardo, relativo ad una vicenda molto complessa (D. 48.2.18) [28], descrive lo svolgimento di un giudizio criminale di falso testamentario, ma il provvedimento interlocutorio della cui eventuale impugnabilità gli interpreti discutono, a prescindere dalla considerazione se essa sia in effetti desumibile dal testo in questione, non è, comunque, un atto del processo criminale, che in realtà non è mai stato instaurato, bensì del procedimento civile de irrito testamento:
- 48.2.18: Cum Titia testamentum Gaii fratris sui falsum arguere minaretur et sollemnia accusationis non implevit intra tempus a praeside praefinitum, praeses provinciae iterum pronuntiavit non posse illam amplius de falso testamento dicere: adversus quas sententias Titia non provocavit, sed dixit se post finitum tempus de irrito testamento dicere. Quaero, an Titia, quae non appellavit adversus sententiam praesidis, possit ad falsi accusationem postea reverti. Respondit nihil aperte proponi, propter quod adversus sententiae auctoritatem de falso agens audienda sit.
Al contrario, il principio dell’inappellabilità delle pronunce interlocutorie nei processi criminali separatamente dalle sentenze definitive, si ricava, invece, a mio giudizio, dalla forma con cui tale principio è enunciato nell’editto di Diocleziano in discorso, non come oggetto della statuizione normativa – che riguarda le sole formalità procedurali che il giudice deve osservare in seguito alla proposizione dell’appello – ma come un obiter dictum, formulato incidentalmente, addirittura in forma parentetica, a conferma che, nel sistema del processo di età dioclezianea, doveva trattarsi di un principio in certo modo pacifico, almeno per quanto atteneva ai giudizi capitali, ai quali solo la norma espressamente si riferisce [29].
Né paiono rilevanti, in senso contrario, due rescritti dello stesso Diocleziano: non il primo (C. 7.45.7), che dichiara semplicemente privo di effetto estintivo di una verborum obligatio il patto concluso dalle parti su sollecitazione del praeses provinciae, motivando tale principio con il rilievo che non omnis vox iudicis ha l’autorità di cosa giudicata, mentre nessun richiamo o riferimento, neppure implicito, è fatto all’appellabilità di un intervento del governatore che, nella specie, è privo di contenuto decisorio, nè dall’affermazione secondo cui non sempre la vox iudicis ha l’autorità di giudicato, può ricavarsi il principio della sua inappellabilità:
- 7.45.7: Ex stipulatione parta actione pacisci proximis personis suadendo praeses provinciae verborum obligationem, quam certoiure tolli tantum licet, extinguere non potest, nec vox omnis iudicis iudicati continet auctoritatem, cum potestatem sententiae certis finibus concludi saepe sit constitutum. Quapropter si nihil causa cognita secundum iuris rationem pronuntiatum est, vox pacisci suadentis praesidis actionem tuam perimere, si quam habuisti, minime potuit.
Analogamente, nessun riferimento al problema dell’appello nelle cause criminali si rinviene nel secondo rescritto (C. 7.45.9), emanato nell’anno 294, che pure nega l’autorità di giudicato ad interventi arbitrali del giudice resi successivamente all’emanazione della sentenza: post sententiam, quae finibus certis concluditur, ab eo qui pronuntiaverat vel eius successore de quaestione, quae iam decisa est, statuta rei iudicatae non obtinent auctoritatem: nam nec de possessione pronuntiata proprietati ullum praeiudicium adferunt nec interlocutiones ullam causam plerumque perimunt.
- Nel quadro della “ragionevole durata” dei tempi processuali, che l’imperatore Diocleziano mirava a garantire per la conclusione del giudizio, si colloca anche il paragrafo 4 dell’editto che, infatti, punisce gli appelli temerari, stabilendo la condanna ad una mediocris poena, la cui entità veniva discrezionalmente determinata dal giudice superiore e che il iudex ad quem infliggeva quale constatazione del fatto che il gravame era stato proposto temere ac passim[30]:
Ne temere autem ac passim provocandi omnibus facultas praeberetur, arbitramur eum, qui malam litem fuerit persecutus, mediocriter poenam a competenti iudice sustinere.
I termini usati nella costituzione per indicare una simile fattispecie appaiono sinonimici: temere, infatti, si riferisce ad un atto compiuto avventatamente, alla cieca, senza ponderazione[31], mentre passim richiama qualcosa che è compiuto confusamente, senza ordine, in mancanza di una chiarezza nei motivi d’appello[32]: entrambi i casi, peraltro, connotano l’evidente infondatezza, sotto vari profili, del gravame e connotano ipotesi in cui era possibile esprimere una prognosi negativa sull’esito dell’impugnazione.
- Il paragrafo 5 dell’editto affronta un altro aspetto un aspetto fondamentale del giudizio di secondo di grado, cioè i termini per proporre il gravame: esso, infatti, stabilisce che l’impugnazione deve essere proposta eodem die vel altero se l’appellante agisca in nome proprio oppure entro il terzo giorno si negotium tuetur alienum:
- 7.62.6 § 5: Sin autem in iudicio propriam causam quis fuerit persecutus atque superatus voluerit provocare, eodem die vel altero libellos appellatorios offerre debebit. Is vero, qui negotium tuetur alienum, supra dicta condicione etiam tertio die provocabit.
Tale disciplina non costituiva una novità nel sistema del processo civile, come si può ricavare dall’esame della precedente riflessione giurisprudenziale che, soprattutto di età severiana[33], in un celebra passo tratto dal de appellationibus di Marciano, li aveva fissati in maniera precisa[34]:
- 49.1.5.4: Si quis ipso die inter acta voce appellavit, hoc ei sufficit: sin autem hoc non fecerit, ad libellos appellatorios dandos biduum vel triduum computandum est.
Al contrario, va notata la mancanza di una distinzione fra appello orale ed appello scritto: l’editto, infatti, prospetta la possibilità di appellare eodem die vel altero, se l’appellante agisce in nome proprio e parla, per entrambe le ipotesi, della necessità di libellos appellatorios offerre, ignorando, quindi, che ipso die si poteva appellare anche oralmente: per una parte della dottrina, doveva trattarsi di una consapevole abolizione da parte di Diocleziano [35], come in effetti sembra ricavarsi dalla successiva legislazione costantiniana che, con una costituzione del 317, espressamente ne riaffermava la possibilità:
CTh. 11.30.7: Imp. Constantinvs A. ad Bassvm p(raefectvm) v(rbi). Litigatoribus copia est etiam non conscribtis libellis ilico appellare voce, cum res poposcerit iudicata.
- L’ultima parte dell’editto affronta la disciplina delle litterae dimissoriae o apostoli, che il giudice inferiore doveva indirizzare al giudice ad quem, per investirlo dell’impugnazione[36]:
- 7.62.6 § 6: Apostolos post interpositam provocationem etiam non petente appellatore sine aliqua dilatione iudicem dare oportet, cautione videlicet de exercenda provocatione in posterum minime praebenda.
Fino all’emanazione dell’editto, tale attività era affidata all’appellante, come si ricava da un passo di Marciano:
- 49.6.2: Sufficit autem petisse intra tempus dimissorias instanter et saepius, ut et si non accipiat, id ipsum contestetur: nam intantiam petentis dimissorias constitutiones desiderant. Aequum est igitur, si per eum steterit, qui debebat dare litteras, quo minus det, ne hoc accipeinti noceat.
Il giurista riferisce come sia sufficiente che la richiesta sia stata proposta intra tempus instanter et saepius (sufficit autem petisse intra tempus dimissorias instanter et saepius) e che l’eventuale mancato rilascio sia formalmente contestato dall’appellante (ut et si non accipiat, id ipsum contestetur). L’onere della richiesta delle litterae, prosegue il giurista, era stato imposto da costituzioni imperiali (nam instantiam petentis dimissorias constitutiones desiderant) e il loro rilascio era compito del giudice: l’omissione dell’attività dell’ufficio, peraltro, non poteva nuocere alla parte, purché questa avesse formulato la domanda intra tempus ed eventualmente reiterata instanter et saepius, nonché contestato il loro mancato rilascio: aequum est igitur, si per eum steterit, qui debebat dare litteras, quo minus det, ne hoc accipienti (rectius: appellanti) noceat.
Mentre Marciano non indica quale fosse il tempus entro cui le litterae andavano richieste, un’indicazione si ricava da un frammento del Paolo visigotico (5.34.1), nel quale si legge che postulatio et acceptio intra quintum diem ex officio facienda est:
- 5.34.1: Ab eo, a quo appellatum est, ad eum, qui de appellatione cogniturus est, litterae dimissoriae diriguntur, quae vulgo apostoli appellantur: quorum postulatio et acceptio intra quintum diem ex officio facienda est. 2. Qui intra tempora praestituta dimissorias non postulaverit vel acceperit vel reddiderit, praescriptione ab agendo submovetur et poenam appellationis inferre cogetur
La formulazione del passo è tutt’altro che perspicua, poiché con un unico termine si indicano due attività, la prima delle quali è attribuita alla parte, la seconda dipende dalla diligenza dell’ufficio ed il passo non precisa le conseguenze dell’inattività del giudice, qualora l’appellante abbia deligentemente adempiuto nel termine stabilito al proprio compito.
Ancora meno chiaro è il secondo paragrafo (PS. 5.34.2), per il quale: Qui intra tempora praestituta dimissorias non postulaverit vel acceperit vel reddiderit, praescriptione ab agendo submovetur et poenam appellationis inferre cogetur.
Se i tempora praestituta sono ancora i cinque giorni prima indicati, non si vede come sarebbe stato possibile all’appellante non solo postulare ed accipere le litterae, ovviando, non si sa come, all’eventuale inerzia dell’ufficio, ma addirittura reddidere le stesse al tribunale superiore.
Se, pur nella imprecisa formulazione del compilatore visigotico, emerge come tale attività fosse ancora affidata all’appellante, va detto subito come Dioclezianeo intende innovare radicalmente la disciplina di tali formalità, introducendo un regime interamente officioso: al giudice è affidato il compito di rilasciare gli apostoli post interpositam provocationem, anche per il caso di mancata richiesta da parte dell’appellante, etiam non petente appellatore, ma non si accenna alla fase di successiva trasmissione al giudice superiore.
Un rescritto degli stessi imperatori Diocleziano e Massimiano (C. VII.62.5) [37] stabilisce che tale compito rimasse affidato alla parte:
Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Valerio. Praeses provinciae, ad quem appellasti, si non vitio neglegentiae vestrae tempus, quod ad reddendos apostolos praescriptum est, exemptum esse animadverterit, sed ex fatalis casus necessitate, diem functo eo qui eos perferebat, id accidisse cognoverit, iuxta perpetui iuris formam desiderio vestro medebitur.
La cancelleria imperiale, dunque, risolveva affermativamente il dubbio sottopostole dal postulante circa l’accoglibilità di un appello nel caso in cui la mancata consegna al giudice ad quem degli apostoli fosse dipesa non vitio neglegentiae dell’appellante, ma ex fatalis casus necessitate, nella specie la morte della persona incaricata della trasmissione[38].
- L’editto di Diocleziano si chiude, come s’è visto, con l’abolizione delle cautiones processuali (C. 7.62.6 § 6: …cautione videlicet de exercenda provocatione in posterum minime praebenda), sul cui uso in epoca anteriore siamo poco informati[39], poichè la loro abolizione ed il diverso sistema di sanzioni a carico dell’appellante temerario, già adombrato, come si è visto sopra, nello stesso editto dioclezianeo e che si svilupperà ulteriormente nella legislazione più tarda, ne hanno fatto scomparire quasi ogni traccia dalla Compilazione giustinianea.
In verità, un breve cenno è fatto da Papiniano in tema di petitio fideicommissi, in cui il giurista richiama in proposito un rescritto di Marco Aurelio (D. 36.3.5.1): nella fattispecie sottoposta all’esame del giurista, è disposto che eum a quo res fideicommissae petebantur, cum appellasset, cavere vel, si caveat adversarius, ad adversarium transferri possessionem debere. In verità, più che di una specifica cautio de excercenda provocatione, si trattava di applicare anche nel giudizio di appello la cautio fideicommissi. Il passo continua, infatti, rilevando: Recte placuit principi post provocationem quoque fideicommissi cautionem interponi: quod enim ante sententiam, si petitionis dies moraretur, fieri debuit, amitti post victoriam dilata petitione non oportuit.
L’argomento è ampiamente trattato nelle Sententiae di Paolo (5.33.1-8), in cui si precisa che le cauzioni costituivano la garanzia del pagamento della poena appellationis e se ne illustra il regime, indicando in cinque giorni, decorrenti dal rilascio delle litterae dimissoriae, il termine entro cui queste dovevano essere prestate:
Ne liberum quis et solutum haberet arbitrium retractandae et revocandae sententiae, et poena et tempora appellatoribus praestituta sunt. Quod nisi iuste appellaverint, tempora ad cavendum in poeta appellationis quinque dierum praestituta sunt. Igitur morans in eo loco, ubi appellavit, cavere debet, ut ex die acceptarum litterarum continui quinque dies computentur: si vero longius, salva dinumeratione interim quinque dies cum eo ipso quo litteras acceperit computantur. 2. Ne quis in captionem verborum in cavendo incidat, expeditissimum est poenam ipsam vel quid aliud pro ea deponere: necesse enim non habet sponsorem quis vel fideiussorem dare aut praesens esse: et si contra eum fuerit pronuntiatum, perdit quod deposuit. 3. Quotiens in poena appellationis cavetur, tam unus quam plures fideiussores, si idonei sint, dari possunt: sufficit enim etiam per unum idoneum indemnitati poenae consoli. 4. Si plures appellant, una cautio sufficit, et si unus caveat omnibus vincit. 5. Cum a pluribus sententiis provocatur, singulae cautiones exigendae sunt et de singulis poenis spondendum est. 6. Modus poenae, in qua quis cavere debet, specialiter in cautione exprimendus est, ut sit, in qua stipulatio committatur: aliter enim recte cavisse non videtur. 7. Adsertor si provocet, in eius modi tertiam cavere debet, quanti causa aestimata est. 8. In omnibus pecuniariis causis magis est, ut in tertiam partem eius pecuniae caveatur.
Il passo prevede, altresì, che, in luogo della cauzione, possa essere effettuato – ne quis in captionem verborum in cavendo incidat – il deposito della somma a titolo di penale e si specifica, inoltre, che possono essere dati uno o più fideiussori, nonché si stabilisce che se più siano gli appellanti sia sufficiente un’unica cautio, mentre se si appella da più statuizioni, singulae cautiones exigendae sunt e altri particolari [40].
Il brano delle Sententiae pone all’interprete seri e complessi problemi interpretativi: anzitutto, se si dovesse considerare il passo paolino desunto da un’opera genuina del giurista severiano [41], ci troveremmo di fronte ad una disposizione che non risulta avere sicuri riscontri in fonti dell’epoca e che non si vede da quale statuizione normativa deriverebbe. Ma anche per il caso di attribuzione del frammento al più tardo redattore delle Sententiae, il problema resta ed in certo senso si aggrava: infatti, poiché l’epoca della redazione dell’opera si colloca generalmente proprio in età dioclezianea, non si comprende il contrasto fra il passo in esame, che prevede l’imposizione delle cautiones e ne regola minuziosamente la disciplina, con il paragrafo in esame dell’editto dei Tetrarchi, che tali cauzioni espressamente aboliva (C. 7.62.6 § 6). Che se poi si volesse pensare che il passo delle Sententiae non provenga dalla prima redazione, ma debba attribuirsi ad uno strato successivo di elaborazione dell’opera, il problema resta comunque, perché in nessuna parte della legislazione successiva si incontra una disposizione relativa all’imposizione di una cautio de exsercenda provocatione e poiché, in ogni caso, non si comprenderebbe la ragione per cui il suo redattore non abbia provveduto ad adattarne il contenuto al tenore dell’editto dei Tetrarchi.
Le soluzioni proposte dalla dottrina al riguardo non paiono soddisfacenti a risolvere il problema[42] e, alla luce delle fonti a nostra disposizione, possiamo solo affermare che Diocleziano nel quadro della riforma del processo, abolendo l’imposizione di cautiones da parte del giudice a quo, veniva così a facilitare la proposizione del gravame nel sistema della cognitio extra ordinem [43].
- L’esame della legislazione dioclezianea in tema di processo privato ha consentito di apprezzare la portata innovativa delle riforme imperiali, che si collocano nel più complesso quadro riformatore che l’imperatore dalmata era chiamato a realizzare, con l’obiettivo dichiarato di rafforzare una struttura imperiale, squassata da pressioni esterne e forze disgregatrici interne[44]: anche per tale motivo, certo sorprende che di tali interventi normativi non si faccia più esplicito riferimento nella legislazione successiva, non solo in quella, particolarmente ricca, riportata nel Codice Teodosiano, ma neppure nelle più tarde costituzioni conservate dagli stessi compilatori giustinianei, neppure nel codice in cui era conservato l’editto di Diocleziano sul processo[45].
Ai nostri fini, rileva sottolineare come tali provvedimenti testimonino, anche nel settore dell’amministrazione della giustizia, la rilevanza e insieme la complessità degli interventi normativi di Diocleziano e confermano, seppure con le innegabili opacità e con le contraddizioni che pure sono emerse, come il giudizio di Aurelio Vittore sulla grandezza dell’imperatore dalmata –“…Valerius Diocletianus…magnus vir…”[46]– possa essere pienamente condiviso[47].
[1] L. De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, 125.
[2] A.H.M. Jones, The Later Roman Empire 284-602, A social economic and administrative survey, I, Oxford 1964, 37.
[3] Sono le parole di Lucio De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico, cit. (nt. 1), 298, ove, nel capitolo dedicato al processo privato, ampia discussione e riferimenti bibliografici.
Per l’esame delle riforme attuate dall’imperatore Diocleziano, su cui resta fondamentale il lavoro di W. Seston, Dioclétien et la Tétrarchie. I. Guerres et réformes (284-300), Paris 1946, 17 ss. e il già citato lavoro del Jones, The Later Roman Empire cit. (nt. 2), 61 ss., oltre al saggio di M. Sargenti, Le strutture amministrative dell’Impero da Diocleziano a Costantino, in AAC 2 (1976) 199 ss., si veda, più di recente, l’importante monografia di S. Corcoran, The Empire and the Tetrarchs. Imperial pronuncements and government AD 284-324, Oxford 2000, 19 ss.
[4] Al riguardo, si leggano F. De Marini Avonzo, La giustizia nelle province agli inizi del Basso Impero, II, L’organizzazione giudiziaria di Costantino, in Studi Urbinati, 33 (1965-1966) 198, secondo cui, infatti, Diocleziano emanò nel 294 un editto «con carattere di legge generale sul processo», nonché G. Scherillo, Lezioni sul processo. Introduzione alla cognitio extra ordinem, Milano 1960, 254 ss. Un cenno in A. Cenderelli, Ricerche sul Codex Hermogenianus, Milano 1965, 34, nt. 38.
[5] Sull’editto in generale, si vedano le indagini di Scherillo, Lezioni sul processo cit. (nt. 4) 252 ss.; F. Fernández Barreiro, Un edicto general de Diocleciano sobre procedimiento, in Estudios D’Ors, I, Pamplona 1987, 417 ss., nonché i cenni in M. Amelotti, Per l’interpretazione della legislazione privatistica di Diocleziano, Milano 1960, 15 nt. 21; A. Cenderelli, Ricerche cit. (nt. 4) 34, 38 e 73 s.; M. Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, München 1966, 340 nt. 10; F. De Marini Avonzo, La giustizia nelle province cit. (nt. 4) 198.
[6] Per un esame dei tre frammenti, Scherillo, Lezioni sul processo cit. (nt. 4) 254. Si occupano, in particolare, del passo contenuto in C. 3.3.2, De Marini Avonzo, La giustizia nelle province cit. (nt. 4) 199 s.; M. Sargenti, Aspetti e problemi dell’opera legislativa dell’Imperatore Giuliano, in AAC 3 (1979) 336, nt. 85 (ora in Studi sul diritto del Tardo Impero, Padova 1986, 222, nt. 85).
[7] Il termine edictum indica una dichiarazione o una proclamazione della volontà magistratuale o imperiale, un aliquid sollemniter et cum auctoritate pronuntiare, come si esprime il Thesaurus Linguae Latinae, con riguardo alla forma originariamente verbale di tale dichiarazione. Sul punto, cfr. T. Kipp, Edictum, in PWRE, 5/2 (1905, rist. 1958), 1940 ss. Fra gli esempi più noti, si segnalano gli editti di Augusto ai Cirenensi (FIRA, I, p. 403 ss.), l’editto di Claudio de civitate Anaunorum (FIRA, I, p. 41 ss.), l’editto di Vespasiano de privilegiis medicorum et magistrorum (FIRA, I, p. 420 ss.), l’edictum Domitiani de privilegiis veteranorum (FIRA, I, p. 424 ss.), la constitutio Antoniniana de civitate (FIRA, I, 445 ss.), l’editto dello stesso Caracalla de decurionibus coercendis (FIRA, I, p. 449 ss. e, fra i testi conservati nei Codici, oltre a quello dei Tetrarchi in esame, CTh. 1.22.4 di Graziano, Valentiniano e Teodosio (Impp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. pars actorum habitorum in consistorio Gratiani A. Gratianus A. dixit); CTh. IV.20.3 (Apud acta Imp. Theodosius A. dixit); CTh. VII.20.2 in cui è riportato un vero e proprio dialogo fra Costantino e i suoi veterani; CTh. XI.39.5 di Giuliano (Pars actorum habitorum aput Imperatorem Iulianum Augustum Mamertino et Nevitta Conss. X Kal. April. Constantinopoli in consistorio adstante Iovio viro clarissimo quaestore, Anatolio magistro officiorum, Felice comite sacrarum largitionum. Et cetera. Imp. Iulianus dixit); CTh. XI.39.8 di Graziano, Valentiniano e Teodosio (Pars actorum habitorum in consistorio aput Imperatores Gratianum, Valentinianum et Theodosium Cons. Syagri et Eucheri die III Kal. Iul. Constantinopoli. In consistorio Imp. Theodosius A. dixit).
[8] L’unico altro esempio è quello parzialmente conservato in C. 4.4.17 in tema di impedimenti matrimoniali. Cfr., in proposito, Amelotti, Per l’interpretazione della legislazione privatistica di Diocleziano cit. (nt. 5) 15 ss.
[9] In argomento, ampio commento in Sargenti, Aspetti e problemi dell’opera legislativa dell’Imperatore Giuliano cit. (nt. 6) 336 nt. 85 (ora in Studi sul diritto del Tardo Impero cit. [nt. 6] 222, nt. 85, con giudizio poco lusinghiero sul tenore del frammento: “La costituzione non è, per la verità, un capolavoro di chiarezza”), nonché, più di recente, S. Liva, Ricerche sul iudex pedaneus. Organizzazione giudiziaria e processo, in SDHI 73 (2007), 166 ss. e S. Barbati, Studi sugli “iudices” nel diritto romano tardo antico, Milano 2012, 634 s. (secondo la cui opinione sarebbero del tutto venute meno, per tale via, le funzioni giurisdizionali dei mangistrati municipali, almeno sino all’introduzione del defensor civitatis: la questione, che non può essere affrontata in questa sede merita, in verità, ulteriori approfondimenti. Basti, qui, per la data di introduzione del defensor civitatis –a cui, secondo Barbati- sarebbe stata assegnata una “modestissima sfera di cognizione processuale” (ibid., 635), vedi Federico Pergami, Sulla istituzione del defensor civitatis, in Studi di diritto romano tardoantico, Torino 2011, 105 ss.
[10] Sul mantenimento, da parte di iudices pedanei, di funzioni di natura giurisdizionale, si veda C. 3.3.4 [anno 303], con la quale si disciplinano le conseguenze di impedimenti a svolgere le proprie funzioni (Placuit, quotiens pedanei iudices dati post litem contestatam vel ad aliud iudicium necessario dirigantur vel publicae utilitatis ratione in alias provincias proficiscantur vel diem obierint atque his rationibus negotiis coeptis finis non possit adhiberi, alium in locum eorum iudicem tribui qui negotium examinet, ne eiusmodi casibus intervenientibus impedimentum aliquod in persequendis litibus adferatur).
Nello stesso senso, vedi anche la coeva c. 3 h.t., la quale stabilisce che i giudici delegati debbano svolgere direttamente le funzioni giurisdizionali loro affidate, anziché rimettere la causa al iudicium praesidale (provvedimento che Mommnen Codex Iustinianus, ad h.l., propone di postergare all’anno 300, in forza dell’integrazione della subscriptio: “D. viii k. April. Antiochiae CC. [CC III] conss.), nonchè la più tarda c. 5 h.t. dell’imperatore Giuliano (conservata anche in CTh. 1.16.8 e in due manoscritti: CIL., III.459 e 14198).
[11] Sui tempi di svolgimento del processo nella cognitio extra ordinem, mi permetto di rinviare al mio lavoro dal titolo Sulla “ragionevole durata” del processo nella legislazione tardoimperiale, in Studi di diritto romano tardoantico, Torino 2011, 363 ss.
[12] Vedi C. 3.11.1, che detta i limiti previsti per il completamento dell’attività istruttoria.
[13] Si legga C. 3.2.2, in cui si conferma che i giudici delegati debbono decidere personalmente la causa, senza rimettere la controversia a giudici delegati.
[14] Al riguardo, W. Litewski, Suspensiveffekt binner der Frist zur Appellationseinlung, in ZSS 113 (1997), 377 ss.
[15] Ancora, W. Litewski, Pignus in causa iudicati captum, in SDHI 40 (1974), 225 ss.
[16] Approfondita indagine del frammento, nel quadro di una recente monografia, ad opera di V.M. Minale, L’appello nell’ultima età dei Severi. Appunti per uno studio sul “de appellationibus” di Emilio Macro, in corso di stampa, che ho potuto consultare grazie alla cortesia dell’Autore.
[17] Cfr., in proposito, R. Orestano, L’appello civile in diritto romano, Torino 19662, 64 ss.
[18] Sul contenuto della costituzione, S. Liva, “Appellationem reciper vel non. Il “filtro” in appello”, in Teoria e Storia del Diritto Privato, 9 (2016) 3 ss.
[19] L’esame di un frammento di Ulpiano (D. 49.1.13.1) e di un passo delle Sentenze di Paolo (5.35.2) consentono di ricavare come, i poteri del giudice a quo fossero di notevole ampiezza, poiché non si esaurivano in un’indagine sull’esistenza dei presupposti dell’impugnazione, ma si estendevano, seppure solo in una certa misura, anche ad un’indagine sul suo fondamento.
Recentemente, in senso contrario, S. Liva, “Appellationem reciper vel non cit.,1 ss., il quale – valorizzando i passi di Cervidio Scevola (D. 4.4.39 e 49.1.24) e di Modestino (D. 22.1.41), nonché un’epistula indirizzata dall’imperatore Tito ai decurioni della città di Manigua- intravede una “lucida architettura” processuale finalizzata a circoscrivere alle sole ipotesi di appelli affetti da vizi di improcedibilità (sulla “categoria” della improcedibilità, distinte fra cause di “irricevibilità” e cause di “inammissibilità”, vedi Orestano, L’appello civile in diritto romano cit., 368 s.) la discrezionalità dello iudex a quo in ordine al recipere appellationem vel non.. Per la legislazione del tardo Impero, rinvio a qualche riflessione in Federico Pergami, L’appello nella legislazione del tardo Impero, Milano 2000, 391 ss, in part. 397 ss.
[20] Sulla possibilità di introdurre nova nel giudizio di secondo grado in età dioclezianea, vedi A.Guarneri Citati, «Exceptio omissa initio – in integrum restitutio – appellatio», in Studi Perozzi, Palermo 1923, 256; W. Litewski, Die römische Appellation in Zivilsachen, 4, in RIDA, 15 (1968) 224 ss.; A. Padoa Schioppa, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, 1, Milano 1967, 89 nt. 48 e p. 104 nt. 125; G. Bassanelli Sommariva, La legislazione processuale di Giustino I, in SDH, 37 (1971) 176, nt. 78; N. Scapini, Il ius novorum nell’appello civile romano, in Studi Parmensi 21 (1978) 54 s.
[21] Sulla fase del giudizio che si svolgeva avanti al giudice ad quem, vd. R. Orestano, L’appello civile cit. (nt. 17) 409 ss., il quale riteneva di potere ricostruire, in relazione all’età dei Severi, le linee essenziali di tale procedimento: dall’iscrizione della causa nel ruolo del giudice superiore, alla fissazione dell’udienza, al compimento degli atti istruttori, all’eventuale convocazione delle parti, all’udienza di discussione via via sino alla decisione. Cfr., in proposito, anche Litewski, Die römische Appellation, 4 cit. (nt. 19) 187 ss.
[22] E’ l’opinione sostenuta, in passato, da M. Lauria, Sull’«appellatio», in AG 97 (1927), 7 (ora in Studii e Ricordi, Napoli, 1983, 69): l’autore dichiarava espressamente di essere riuscito a trovare un solo passo relativo all’ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello, cioè il testo di Paolo, l. 1 De iure fisci, riportato in D. 34.9.5.12 (Quidam et praesidem indignum putant, qui testamentum falsum pronuntiavit, si appellatione intercedente heres scriptus optinuit), secondo cui sarebbe incorso nell’indegnità il giudice di primo grado, nella fattispecie un praeses provinciae, che aveva dichiarato la falsità di un testamento, se la sua sentenza fosse stata riformata in grado di appello. A parere del Lauria l’opinione dei quidam, che Paolo riferiva, sarebbe stata concepibile solo in quanto la sentenza del primo giudice fosse stata annullata senza bisogno di nuove prove.
[23] D. 49.1.3.3: Ulpianus libro primo de appellationibus. Quid ergo, si causam appellandi certam dixerit, an liceat ei discedere ab hac et aliam causam allegare? an vero quasi forma quadam obstrictus sit? puto tamen, cum semel provocaverit, esse ei facultatem in agendo etiam aliam causam provocationis reddere persequique provocationem suam quibuscumque modis potuerit.
[24] Orestano, L’appello civile cit. (nt. 17) 423; W. Litewski, Die römische Appellation in Zivilisachen, 2 in RIDA 13 (1966) 318 s.; N. Scapini, Il ius novorum cit. (nt. 19) 56 ss.
[25] Per la legislazione successiva, Federico Pergami, Effetto devolutivo e ius novorum nel processo romano della cognitio extra ordinem, in Studi di diritto romano tardoantico, Milano 2011, 377 ss.
[26] Anche tale frammento ha attratto l’attenzione degli studiosi, che hanno voluto vedervi l’applicazione di una speciale forma di appello che si svolgeva avanti al tribunale imperiale sulla base degli atti, denominato appello more consultationis, v. M.A. Bethmann-Hollweg, Der römische Civilprozess, III, Bonn, 1866 (rist. 1959), 90, nt. 11; 294; 332 s.; T. Kipp, «Consultatio», in PWRE 4/1 (1900, rist. 1958) 1143; C.Bertolini, Appunti didattici di diritto romano. Serie seconda. Il processo civile, III Torino, 1915, p. 202; L. Wenger, Institutionen des römischen Zivilprozessrecht, München, 1925 (trad. it. 1938), 297; G. Scherillo, voce Consultatio, in NNDI 4 (1959) 358; Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, cit. (nt. 5), 509 s.; W. Litewski, Die römische Appellation, 4, cit. (nt. 19) 254 ss.; Id., Consultatio ante sententiam, in ZSS 99 (1969) 228 s.; G. De Bonfils, Prassi giudiziaria e legislazione nel IV secolo. Symm, rel. 33, in BIDR 78 (1975) 170 s.; G. Bassanelli Sommariva, La legislazione processuale di Giustino I (9 luglio 518-1 agosto 527), in SDHI 37 (1971) 168 ss.; Ead., L’imperatore unico creatore ed interprete delle leggi e l’autonomia del giudice nel diritto giustinianeo, Milano 1983, 90 ss. In proposito, si vedano le mie riflessioni critiche: Federico Pergami, Appellatio more consultationis, in Studi di diritto romano tardoantico, Torino 2011, 259 ss.
[27] In questo senso, U. Vincenti, «Ante sententiam appellari potest». Contributo allo studio dell’appellabilità delle sentenze interlocutorie nel processo romano, Padova 1986, 8 ss., in part. p. 31, e la letteratura citata.
[28] Resta fondamentale, al riguardo, il lavoro di M. Wlassak, Anklage und Streitbefestigung im Kriminalrecht der Römer, in SAWW, 84 (1917) 211 ss., nonché, più di recente, quello di G.G.Archi, Civiliter vel criminaliter agere, in Scritti Ferrini, Milano, 1946, ora in Scritti di diritto romano, 3, Milano 1981, 1600.
[29] Nel senso di un’estensione del principio anche al giudizio civile, Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit. (nt.26) 29 s.
[30] Sul punto, Litewski, Die römische Appellation, 4, cit. (nt. 19) 294. Recente ed importante messa a punto in S. Liva, “Poena iniustae appellationis e appelli temerari” Contributo allo studio dell’appello in diritto romano, in SDHI 81 (2015), 209 ss.; Id., “Appellationem reciper vel non cit.,14 ss.
[31] Sul significato delle espressioni, E. Forcellini, Lexicon Totius Latinitatis, Patavii 1890, 4, s.v. temere: «Temere est sine ratione, sine consilio, casu, inconsulte, imprudentes; stulte»; A. Berger, Encyclopedic Dictionary of Roman Law, Philadelphia, 1953, s.v. temeritas: «Rashness, lack of caution, of reflection in starting a lawsuit or accusing a person of a crime»; A. Ernout- A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris, 1960, s.v. temere: «“a l’aveuglette”, par suite “inconsidérément, au hasard, a la légère, sans réflection”».
[32] Ancora Forcellini, Lexicon cit. (nt. 30) s.v. passim: «sparsim, sine ordine, omnibus locis, undique»; Berger, Encyclopedic Dictionary cit. (nt. 30), s.v. passim: «Simply, without any further examination of the case under decision. The term is used in the juristic language as ant. to causa cognita, i.e., after a scrupulous examination»; Ernout-Meillet, Dictionnaire étymologique, s.v. pando,-is: «en se répandant çà et là; en désordre».
[33] Vd., in particolare, sui sospetti di interpolazione della seconda parte del passo, R. Reggi, I libri de appellationibus di Marciano, in Studi Parmensi 15 (1974) 46.
[34] Cfr., in proposito, Orestano, L’appello civile cit. (nt. 17), 237 ss.; M. Bianchini, Le formalità costitutive del rapporto processuale nel sistema accusatorio, Milano 1964, 127; Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, cit. (nt. 5), 403; Litewski, Die römische Appellation, 4, cit. (nt. 19), 145 ss., in part. 151.
[35] A favore della abolizione dell’appello orale dopo l’età severiana, si era pronunciato l’Orestano, L’appello civile cit. (nt. 17), 230 nt. 1.
[36] In dottrina, importante approfondimento del tema in F. Arcaria, Litterae dimissoriae sive apostoli”. Contrbutyo allo studio del rpocedimento d’appello in diritto romano, in Legal Roots The international Journal of Roman Law, Legal History and Comprative law; 1, (2012), 128 ss.
[37] Il rescritto è conservato nel Codice di Giustiniano senza data, ma la sua inserzione immeditamente prima dell’editto del 294 consente di considerarlo ad esso pressochè coevo.
[38] Di litterae dimissoriae parla Marciano in un passo del de appellationibus (D. 49.6.1): Post appellationem interpositam litterae dandae sunt ab eo, a quo appellatum est, ad eum, qui de appellatione cogniturus est, sive principem sive quem alium, quas litteras dimissorias sive apostolos appellant. Sul contenuto delle litterae prosegue Marciano: Sensus autem litterarum talis est: appellasse puta Lucium Titium a sententia illius, quae inter illos dicta est.
[39] Cfr. Orestano, L’appello civile cit. (nt. 17), 376 ss., il quale scriveva che l’editto dioclezianeo «lascia intravedere un regime anteriore nel quale fosse facoltà del giudice a quo esigere prima della consegna delle litterae una cauzione dall’appellante». Vedi anche lo studio di J. H. Oliver, Marcus Aurelius: aspects of civil and cultural policy in the East, in Hesperia, Suppl. XIII (1970), su cui A.H.M. Jones, A new letter of Marcus Aurelius to the Athenians, in ZPE 8 (1971) 161 ss. e Giglio, L’epistula di Marco Aurelio agli Ateniesi, in AAC 4 (1981) 547 ss.
[40] Cfr., per un ampia disamina del passo, M. Brutti, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, 2, Milano 1973, 753 ss.
[41] In ordine alla facoltà del giudice a quo di imporre cauzioni all’appellante in età severiana, si ha traccia nel verbale di udienza conservato in P.Oxy. 1408, su cui vedi E. Cantarella, La fideiussione reciproca, Milano 1965, 67 s.
[42] Orestano, L’appello civile, cit. (nt. 17), 376 ss., supponeva una permanenza nella prassi postclassica del regime più antico o con l’attribuire la frase finale della costituzione dioclezianea ad un’interpolazione giustinianea, mentre S. Giglio, L’epistola di Corbulone ai Coi, in Raccolta di Scritti in memoria di Angelo Lener, Napoli 1989, 536 ss., in part. 540 nt. 82) riteneva che il differente regime delle cauzioni nell’editto dei Tetrarchi e nelle Sentenze di Paolo costituisca un importante elemento per pensare che la redazione di quest’opera risalga ad un periodo anteriore all’emanazione di C.I. VII.62.6 e, presumibilmente, anche al regno di Diocleziano».
[43] Secondo il Litewski (Die römische Appellation, 4, cit. [nt. 19] 222), l’imperatore avrebbe così avuto la possibilità di effettuare un maggiore controllo sull’operato dei giudici inferiori: «Der Bruch mit dieser Institution ist wohl damit aufgeklärt, dass die Kaiser zur Zeit des Dominats eine möglichst genaue Kontrolle der Tätigkeit der ihnen (auch mittelbar) unterstellten Richter anstrebten. Deshalb beseitigten sie die cautio, die in der Praxis die Anfechtung von Urteilen auf dem Wege der Appellation beschränkte»: in questo senso cfr., anche, Brutti, La problematica del dolo processuale cit. (nt. 38), 756 ss.
[44] Sargenti, Le strutture amministrative dell’Impero da Diocleziono a Costantino cit. (nt. 3), 239 ss.
[45] Un implicito richiamo può intravedersi in una costituzione di Costantino dell’anno 315 (CTh. XI.30.3), in cui si esorta il destinatario, il proconsole d’Africa Probiano, ad attenersi, nell’esame degli appelli, all’edictum, quod super appellationum negotiis finiendis iam generaliter constitutum est. Opinioni diverse esprimono la C. Dupont, La procédure civile dans les constitutions de Constantin, Traits caractéristique, in RIDA 21 (1974) 193, nt. 12, secondo cui la costituzione alluderebbe ad un editto di età anteriore non conservato, nonché il J. Gaudemet, Constitutions constantiniennes relatives à l’appel, in ZSS 98 (1981) 58 (ora in Droit et société aux derniers siécles de l’Empire romain, Napoli 1992, 78), per il quale il richiamo farebbe riferimento a quello che viene considerato l’edictum generale del 313 indirizzato a Catullino e riportato nel Codice Teodosiano diviso in vari frammenti (CTh. 9.40.1; 11.30.2; 11.36.1). Ma questo collegamento non sembra appropriato, poiché l’editto di Costantino del 313 non contiene, in realtà, alcuna disposizione sullo svolgimento del giudizio di appello, né sul comportamento del giudice investito del suo esame, nessuna disposizione, cioè, che si potesse dire negotiis finiendis constituta.
[46] Aurel. Vict., de Caes. 39.1.
[47] Il giudizio sull’impero di Diocleziano da parte degli storici contemporanei è oggetto di indagine approfondita da parte di De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici cit. (nt. 1), 122 ss.
Patrocinante avanti alle Magistrature Superiori
Professore presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi