Centralismo e decentramento nel sistema processuale della tarda antichità di Federico Pergami.
La ricerca della tarda antichità affidata alla responsabilità del Prof. Federico Pergami si è svolta in una duplice direzione: analisi delle fonti e pubblicazioni dei risultati ottenuti.
Sotto il primo profilo, va detto che è opinione consolidata in dottrina che, nel sistema processuale della cognitio extra ordinem, l’imperatore costituisse la suprema e definitiva istanza giurisdizionale.
Si tratta, però, di un’affermazione solo parzialmente fondata e l’intero argomento è stato criticamente riconsiderato nel corso della ricerca, che muove la muove la propria indagine da una serie di riflessioni, che costituiscono la premessa fondamentale dello studio ed il cui sviluppo, nella loro apparente contraddittorietà, rappresenta il filo conduttore dell’intera indagine: da un lato, la tradizionale concezione della figura dell’imperatore, inteso, nello schema assolutistico tardoimperiale, come sintesi e personificazione del potere, che aveva condotto a delinerare una visione dell’istituto dell’appellatio quale strumento giuridicamente vincolante per invocare l’intervento riparatore del principe contro gli errori dei funzionari imperiali; dall’altro lato, la necessità di limitare il ricorso al tribunale imperiale, per non sovraccaricarlo dell’onere di risolvere le più svariate controversie, anche di scarsa importanza, provenienti da ogni parte dell’Impero.
Tale progressiva limitazione della competenza imperiale, intimamente connessa al progressivo consolidamento delle attribuzioni giudiziarie extra ordinem dei funzionari, specialmente il praefectus urbi e il prefetto del pretorio, è attestata con sicurezza dalla legislazione imperiale.
Le fonti tarde, infatti, stabiliscono che il ricorso al tribunale imperiale era escluso contro le decisioni dei giudici di grado inferiore, quali i governatori delle province italiane comprese nella diocesi suburbicaria, i praefecti vigilum ed annonae: ne è prova una costituzione di Costantino, la c. 13 C.Th. 11.30, la quale, prendendo in considerazione le decisioni di iudices inferioris gradus, prescrive che gli appelli contro le loro decisioni vengano rimesse al tribunale del praefctus urbi e non a quello del tribunale imperiale. Analogamente, almeno a partire dall’anno 340, la competenza imperiale è esclusa per le decisioni di giudici inferiori in materia fiscale, per le quali l’impugnazione deve essere indirizzata ad eum cuius vice nostra cognitio est (C.Th. 11.30.21), ad eos qui vice nostra huiusmodi cognitionibus praesident (C.Th. 11.30.28). Così pure Valentiniano e Valente, in un provvedimento dell’anno 364, attribuiscono la competenza a decidere le impugnazioni contro le sentenze del vicarius urbi al prefetto del pretorio, al cui tribunale dovevano parimenti essere rimesse, piuttosto che al tribunale imperiale, le impugnazioni contro le sentenze in materia criminale emesse dal proconsole, dal comes Orientis, dal vicario e dal prefetto d’Egitto, in base ad una disposizione di Arcadio ed Onorio, la c. 57 C.Th. 11.30. Solo in via alternativa, infine, la competenza del tribunale imperiale emerge da un provvedimento di Graziano Valentiniano e Teodosio, la c. 44 C.Th. 11.30, che, a proposito di una sentenza resa dal prefetto del pretorio Simmaco, prevede che la causa venga rimessa al ad nos vel ad cognitorem sacri auditorii.
In questo quadro normativo, che testimonia una progressiva limitazione della competenza giurisdizionale dell’imperatore, la ricerca sofferma la propria attenzione sulla prassi, che pure le fonti testimoniano con chiarezza, di rivolgersi ugualmente al principe, anche al di fuori delle regole procedurali e della ripartizione della competenza, rigidamente fissata nel sistema della cognitio.
L’intervento diretto dell’imperatore poteva attuarsi in due ipotesi distinte: la consultatio ante sententiam, procedura avviata su sollecitazione del funzionario imperiale investito della controversia, nel corso di un processo pendente, per il caso di dubbio interpretativo o di contrasto normativo oppure la supplicatio, l’invocazione che il privato, ritenendosi ingiustamente pregiudicato da una pronuncia non più soggetta a gravame, rivolgeva direttamente al principe.
La prima parte della ricerca è dedicata allo studio della consultatio ante sententiam, la cui rilevanza nel panomara processuale è confermata dalla menzione dell’istituo nel titolo della rubrica 11.30 del Codice Teodosiano e nella corrispondente 7.62 del Codice Giustinianeo, De appellationibus et poenis earum et consultationibus. Sono molti, e molto significativi, gli interventi imperiali in materia, anche per stigmatizzare l’uso indebito che della procedura di consultatio viene fatta dai giudici inferiori, con lo scopo di ostacolare la possibilità di impugnare le sentenze: né è prova la costituzione 13 C.Th. 11.30 dell’anno 329, con cui Costantino censura il comportamento di quei giudici inferiori che, mal tollerando il fatto che il soccombente abbia proposto appello contro le loro sentenze (a sententiis suis interponi provocationis auxilium aegre ferentes), trasmettono al tribunale imperiale relationes non necessariae et insolentes, al fine di sottrarre al giudice naturale la competenza per la decisione dell’impugnazione.
Un aspetto di particolare rilevanza per la ricostruzione dell’istituto, che la ricerca affronta con attenzione, è relativo alla natura del provvedimento che l’imperatore emana (rescriptum), dopo avere risolto il dubbio sottoposto al suo esame: si tratta di un semplice parere o di una vera e propria sentenza ? La dottrina, sin dalla più risalente ed autorevole, inclina a favore della seconda ipotesi, il cui accoglimento arominizzerebbe con la disciplina dell’istituto in età tarda.
Mediante l’esame di fonti giuridiche (le costituzioni 6, 8, 9 e 11 C.Th. 11.30) e di fonti letterarie, specialmente le Relationes di Simmaco, la ricerca si propone di riesaminare criticamente tale impostazione e offre un quadro complessivo del problema, destinato a riaprire il dibattito in subiecta materia. Mette conto di evidenziare qui il particolare interesse di due riflessioni, fra loro reciprocamente interdipendenti, che corroborano la necessità di rivedere la consolidata opinione dottrinale: per un verso, il dato letterale, in base al quale è possibile ricavare che le fonti non parlano di sententia, ma di semplice rescriptum; per altro verso, la mancanza di una espressa disposizione introduttiva di una nuova ipotesi di competenza del tribunale imperiale, che, dunque, dovrebbe far pensare ad una affermazione implicita, nelle pieghe di provvedimenti destinati a regolari altre fattispecie. Ma vi è di più: aderendo all’ipotesi di una competenza imperiale a concludere con una sentenza la procedura di consultatio, non troverebbe giustificazione né il contrasto con il sempre più netto indirizzo di politica legislativa, vòlto ad un sgravio del lavoro dell’imperatore, per non distrarlo dagli urgenti impegni di governo, né, a più forte ragione, la concreta possibilità che il tribunale imperiale si dovesse direttamente occupare, anche in primo grado, delle liti di scarsa importanza.
La seconda parte del lavoro è dedicata al tema della supplicatio, la cui applicazione è attestata sin dall’epoca del Principato, anche al di fuori dello specifico settore processuale.
Dopo un’indagine sulle fonti giuridiche e letterarie anteriori, la ricerca si occupra dell’asseto definitivo dell’istituto, avvenuto alla fine del terzo secolo d.C., quando la supplicatio è intesa, nel sistema della cognitio, come invocazione del privato per ottenere un provvedimento straordinario di clemenza.
Le fonti giuridiche attestano una precisa configurazione dell’istituto in relazione al divieto di appello contro le sentenze del prefetto del pretorio: in C.I. 1.19.5, Valentiniano e Valente, nel 365, prevedono che colui che abbia interposto una supplicatio all’imperatore contro una sentenza del praefectus praetorio e risulti soccombente, non possa proporre reclamo super eadem causa: nullam licentiam habebit iterum supplicandi.
La legislazione successiva testimonia una disciplina più restrittiva dell’istituto, il cui esperimento era stato vietato, in generale, come emerge, seppure indirettamente, dal contenuto della Novella 13 di Teodosio: dal tenore del provvedimento, infatti, risulta certo che, prima dell’anno 439, data di emanazione della Novella in esame, doveva essere stata emanata una disposizione che aveva vietato la possibilità di supplicare contro le decisioni dei prefetti del pretorio. Teodosio ripristina la licentia supplicandi, aprendo la strada alla successiva legislazione permissiva di Giustino (C.I.7.62.35) e di Giustiniano, il quale, soprattutto nella legislazione novellare, mostra come l’istituto della supplicatio aveva progressivamente subito una contaminazione con l’appellatio, soprattutto in relazione ai poteri del giudice a quo in ordine alla ammissibilità dell’istanza proposta dal privato. Dalla Nov. 82, infatti, sappiamo che spettava allo stesso prefetto del pretorio il compito di un esame preliminare sull’ammissibilità del reclamo, che vanificava la genuina finalità dell’istituto, destinato gradualmente a scolorirsi rispetto all’epoca della sua introduzione nel sistema processuale romano: prova ne sia anche l’oscillazione terminologica, che lascia intravedere, con sempre maggiore frequenza, l’introduzione, accanto al tradizionale termine supplicare, quello più generico e probabilmente meno tecnico, di retractare.
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Sotto il profilo dei risultati, il lavoro di ricerca è stato trasfuso nella monografia:
Federico Pergami, Amministrazione della giustizia e interventi imperiali nel sistema processuale della tarda antichità, Bergamo 2007.
Patrocinante avanti alle Magistrature Superiori
Professore presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi