Effetto devolutivo e ius novorum nel processo romano della cognitio extra ordinem di Federico Pergami
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Nel sistema della Cognitio_extra_ordinem, alla dichiarazione di ammissibilità dell’impugnazione da parte del giudice inferiore[1], conseguiva la devoluzione della causa al giudice ad quem gerarchicamente superiore, il quale ne era investito per un’autonoma decisione rispetto a quella di primo grado[2].
Il principio dell’effetto devolutivo conseguente all’appello era normativamente affermato nell’editto di Diocleziano dell’anno 294, contenuto in C. 7.62.6 pr., nel quale, infatti, è sancita con insistenza la regola secondo cui, una volta proposta l’impugnazione da parte del soccombente, non era possibile rimettere la controversia al giudice a quo e vi si stabilisce che il giudice superiore, una volta investito della controversia, deve decidere omnem causam con la nuova sentenza d’appello:
- 7.62.6 pr.: Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. dicunt. Eos, qui de appellationibus cognoscent ac iudicabunt, ita iudicium suum praebere convenient, ut intellegant, quod, cum appellatio post decisam per sententiam litem interposita fuerit, non ex occasione aliqua remittere negotium ad iudicem suum fas sit, sed omnem causam propria sententia determinare conveniat, cum salubritas legis constititae ad id spectare videatur, ut post sententiam ab eo qui de appellatione cognoscit recursus fieri non possit ad iudicem, a quo fuerit provocatum. Quapropter remittendi litigatores ad provincias remotam occasionem atque exclusam penitus intellegant, cum super omni causa interpositam provocationem vel iniustam tantum liceat pronuntiare vel iustam.
La disposizione normativa, il cui contenuto viene ribadito per ben tre volte, quasi con identiche parole, richiama la salubritas legis constitutae, lasciando intuire che il principio dell’effetto devolutivo dell’appello, in base al quale il giudice superiore non poteva approfittare di una occasio per rimettere la lite al iudex a quo fuerit provocatum, operava, e non solo nella prassi, anche nel sistema processuale di epoca anteriore.
In realtà, il precedente normativo, cui l’editto dei Tetrarchi fa esplicito riferimento e che doveva essere frequentemente disatteso, considerando l’insistenza con cui viene ribadito, non può essere individuato con sicurezza.
Un cenno, sia pure generico, è possibile rintracciare in un passo di Modestino, D. 50.16.106, nel quale è affermato che la controversia, ad eum qui appellatus, est dimittitur[3], mentre più espliciti, nel descrivere lo svolgimento di un nuovo giudizio conseguente all’impugnazione, sono Scevola, il quale parla di cognitio appellationis (D. 4.4.39 pr.) e Papiniano, che definisce quale iudex appellationis il funzionario imperiale di fronte al quale tale nuovo giudizio si svolgeva (D. 2.14.40.1).
Particolarmente interessanti nella legislazione tardoantica, sono i richiami al principio in base al quale l’impugnazione costituiva lo strumento per un riesame della controversia in secondo grado: ne costituisce una significativa testimonianza il tenore della costituzione dell’anno 315, la c. 3 CTh. 11.30, con cui l’imperatore Costantino, invitando, in generale, ad audire gli appelli ut edicto quod super appellationes negotiis finiendis iam generaliter constitutum est[4], esortava il destinatario del provvedimento, il proconsole d’Africa Probiano, cui era rimessa la lite in secondo grado, ad explicare quam maturissime eadem negotia:
CTh. 11.30.3: Imp. Constantinus A. ad Probianum proc(onsulem) Afric(ae). Appellationum causas, quae per vos in auditorio nostro, quibus vicem nostri mandamus examinis, diiudicantur, ita audire debes, ut edicto, quod super appellationum negotiis finiendis iam generaliter constitutum est, pareas atque eadem negotia quam maturissime explices. Dat. viii kal. Sept. Rom.(ae) Constantino A. iii et Licinio iiii conss.
Del resto, a tale principio dovevano ispirarsi gli imperatori dell’età tardoantica, nel ribadire, a più riprese, che gli appelli, seguendo i canali giurisdizionali tipici del sistema processuale coevo, andavano inviati al giudice superiore, fosse esso il funzionario gerarchicamente superiore, ad eum, cuius vice nostra cognitio est (CTh. 11.30.21), ad eos qui consuerunt audire (CTh. 11.30.22), ad eos, qui vice nostra huiusmodi cognitionibus praesident (CTh. 11.30.28) oppure il tribunale imperiale, ad nos vel ad cognitorem sacri auditorii (CTh. 11.30.44).
- Intimamente connesso al tema dell’effetto devolutivo, poiché ne costituisce una diretta applicazione pratica, è il problema relativo alla possibilità o meno, ed entro quali limiti, di introdurre nella seconda fase processuale elementi nuovi e diversi da quelli proposti in prime cure[5].
Il problema non sembra sia stato affrontato in termini generali dai giuristi romani, ai quali è dovuta la necessariamente tarda elaborazione dei principi che erano venuti affermandosi nella prassi del processo d’appello durante il Principato e, a sua volta, la dottrina romanistica non è concorde nel decidere quale fosse, sotto questo profilo, il carattere del giudizio, di impugnazione. La maggioranza degli autori è incline a ritenere che l’appello aprisse l’adito ad un nuovo giudizio, ma non è concorde nel definire in quali limiti questo potesse svolgersi e, a parte le decisioni di casi concreti dalle quali può desumersi che l’appello portasse ad un riesame dell’intera controversia anche, eventualmente, con nuovi profili, il suo punto di riferimento più concreto è, in definitiva, il sintetico accenno di Ulpiano (D. 49.1.3.3) alla possibilità che l’appellante perseguisse il proprio intento di riforma della sentenza che l’avesse visto soccombente, quibuscumque modis:
- 49.1.3.3 (Ulp. 1 de app.): Quid ergo, si causam appellandi certam dixerit, an liceat ei discedere ab hac et aliam causam allegare? an vero quasi forma quadam obstrictus sit? puto tamen, cum semel provocaverit, esse ei facultatem in agendo etiam aliam causam provocationis reddere persequique provocationem suam quibuscumque modis potuerit.
La risposta a simili interrogativi non può essere, comunque, univoca.
Per un’esatta impostazione del problema, è necessario, anzitutto, distinguere i vari aspetti che il ius novorum poteva assumere, al cui proposito si pone la fondamentale differenziazione tra la possibilità di introdurre nella seconda fase del processo nuove domande, nuove eccezioni e nuove allegazioni di fatto, con la conseguente necessità di nuovi mezzi di prova. Ma è, del pari, necessario distinguere i vari momenti del processo storico, che è l’aspetto del problema meno considerato dalla dottrina.
- Un primo dato relativo al problema delle nuove domande in appello è quello che si incontra nell’editto del 294, C. 7.62.6.1, nel quale si affermava che si quid in agendo negotio minus se adlegasse litigator crediderit, ciò che era stato omesso potesse esser fatto valere apud eum qui de appellatione cognoscit, concessione che il legislatore motivava con l’intento di assicurare il pieno conseguimento dell’obbiettivo di giustizia che considerava essenziale come scopo del processo nel quadro della sua politica di governo:
- 7.62.6.1: Si quid autem in agendo negotio minus se adlegasse litigator crediderit, quod in iudicio acto fuerit omissum, apud eum qui de apellatione cognoscit persequatur, cum votum gerentibus nobis aliud nihil in iudiciis quam iustitiam locum habere debere necessaria res forte transmissa non excludenda videatur.
A questa norma è stata data, in genere, un’interpretazione alquanto restrittiva attribuendole, in sostanza, il solo effetto di rendere possibile la deduzione in appello di nuovi mezzi di prova o, al massimo, di eccezioni perentorie non dedotte in primo grado[6].
Io credo, però, che tali conclusioni meritino qualche approfondimento. Le parole del testo edittale, infatti, possono prestarsi ad un’interpretazione meno rigida, poiché il quid minus litigator se adlegasse crediderit potrebbe indicare qualunque elemento, di fatto o di diritto, non dedotto in primo grado. Ed è quantomeno necessario un esame più attento prima di giungere ad escludere che tale fosse stato, in realtà, l’intento del legislatore.
Che l’editto non estendesse alle nuove domande la possibilità di deduzione in appello potrebbe, in verità, desumersi dall’uso del termine adlegare, per indicare il quid minus che il litigator ritenesse di aver dedotto in primo grado e di dovere, perciò, integrare in appello.
L’espressione adlegare è usato, per lo più, nel linguaggio dei giuristi romani per indicare le ragioni, gli argomenti suscettibili di sostenere e fondare una domanda o un’eccezione: così, ad esempio, in Ulpiano le causae transigendi sulla cui esistenza può basarsi il convincimento del pretore (D. 2.15.8.9)[7]; o in Marcello, le argomentazioni a sostegno del dicere inofficiosum testamentum (D. 5.2.3)[8]; o in Papiniano, le giustificazioni addotte contro la domanda di un creditore per fedecommesso (D. 22.3.26)[9]; o, come di frequente, le ragioni di excusatio invocate dal chiamato alla tutela (cfr. ad esempio, D. 23.2.60[10], 26.7.1.1[11], 27.1.31 pr.[12], 27.1.37.1[13]); ed anche riferendosi alla deduzione di dati di fatto ed alla produzione della relativa documentazione. E questo è il significato del termine anche nei numerosi rescritti imperiali che si riferiscono alle allegazioni della parte, compresi non pochi emessi proprio dalla cancelleria dioclezianea.
Se anche nel redigere l’editto del 294, questa si è attenuta a tale significato del termine, se ne dovrebbe dedurre che il minus se adlegasse si riferisse, in effetti, solo alla carenza o insufficienza di deduzioni formulate in primo grado dall’attore a sostegno della domanda o dal convenuto nelle sue difese, fermo restando il loro contenuto[14].
Ma io credo che non si possa neppure escludere che con l’emanazione del testo normativo, che non doveva tener conto del caso concreto sottoposto alla singola decisone imperiale, ma affrontare il problema in generale, il legislatore volesse andar oltre l’ammissione di sole nuove deduzioni e a questo fa pensare il minus, che sembra alludere a qualche cosa di più, alla possibilità, cioè, di integrare in appello anche una domanda carente sotto il profilo quantitativo, per esempio con la richiesta di interessi, omessa in primo grado o con l’aumento dell’entità del petitum, somma di denaro o cosa determinata. Una simile concessione non sarebbe stata in contrasto con la struttura del processo nel regime della cognitio, struttura senza dubbio meno rigida di quella del processo formulare e idonea a consentire alle parti una maggiore libertà nella formulazione delle loro domande e al giudice nel prenderle in considerazione. È vero che questa libertà trovava pur sempre un limite, nel giudizio di primo grado, nell’esigenza di un’ editio actionis, nella quale l’attore doveva precisare quello che proprio Diocleziano definiva in un suo rescritto il genus actionis (Coll. 5.7) e poi nella litis contestatio che, pur non conservando il significato e gli effetti di diritto sostanziale propri del processo formulare, rappresentava tuttavia il momento della conclusiva esposizione delle posizioni dei litiganti[15].
Ciò non impediva, però, che le richieste formulate in primo grado potessero essere modificate o anche integrate in appello. Ne dà un interessante spunto un rescritto di Alessandro Severo, riportato in C. 4.32.13, dal quale si ricava, a contrario, che in caso di di proposizione dell’appello, sarebbe stato possibile rimediare ad una minoris condemnatio, chiedendo gli interessi che non erano stati ricompresi nella domanda di primo grado:
- 4.32.13: Imp. Alexander A. Eustathiae et aliis. In bonae fidei iudiciis, quale est etiam negotiorum gestorum, usurarum rationem haberi certum est. Se si finitum est iudicium sententia, quamvis minoris condemantio facta est non adiectis usuris, nec provocatio secuta est, finita retractanda non sunt: nec eius temporis, quod post rem iudicatam fluxit, usurae ullo iure postulantur nisi ex causa iudicati.
Il sintagma minoris condemnatio di questo rescritto costituisce un suggestivo precedente del minus se litigator adlegasse crediderit dell’editto dioclezianeo, aprendo l’adito ad una interpretazione meno restrittiva di quella usualmente seguita dalla dottrina. E si può aggiungere che una più larga interpretazione è suffragata anche dalla motivazione che, come ho sopra ricordato, l’editto dà dell’ammissibilità in appello di quod in iudicio acto fuerit omissum, motivazione che si esprime affermando, come sommo intento del legislatore, l’attuazione nel processo della giustizia sostanziale, con la conseguente esigenza di non escluderne gli elementi necessari a conseguirla che fossero stati eventualmente trascurati.
Del resto, il problema nascente da un’insufficienza quantitativa nella proposizione della domanda si poneva anche nel processo formulare, naturalmente non sotto il profilo dell’integrabilità della domanda stessa in appello, ma sotto quello della successiva proponibilità del quantum di domanda trascurata. E la possibilità di un nuovo giudizio nel quale proporre la domanda residua non era affatto esclusa, con l’unico limite che esso non poteva essere promosso durante la magistratura dello stesso pretore a pena di vedersi opporre le eccezioni dilatorie litis dividuae e rei residuae[16].
Tale limite era, ovviamente, privo di significato nel processo della cognitio e l’esistenza del rimedio dell’appello, unitamente a ragioni di economia processuale, poteva ragionevolmente indurre ad ammettere che l’integrazione della minus petitio avvenisse nel giudizio di secondo grado.
- A maggior ragione e come è, del resto, diffusamente ammesso, il sistema della cognitio extra ordinem è incline ad ammettere l’invocazione in appello di eccezioni, quantomeno di quelle perentorie, che il convenuto avesse omesso nel giudizio di primo grado.
E’ stato autorevolmente sostenuto che tale regime fosse definitivamente attestato già all’età dei Severi[17], sulla scorta di un rescritto di Gordiano, riportato in C. 2.12(13).13:
Imp. Gordianus A. Viciano militi. Ita demum super lite persequenda, quam tibi mater mandavit, actionem intendere potes, si, cum primo litem contestareris, non est tibi eo nomine opposita praescriptio militiae: quod nec, cum appellatio agitur, tibi obici poterit. Nam si integra res est, ratio perpetui edicti acceptam tibi non permittit alieno nomine actionem intendere. iii id. Ian. Gordiano A. et Aviola conss.
Il tenore del provvedimento non credo autorizzi una simile conclusione: esso, infatti, non contiene se non l’affermazione secondo cui al postulante non potrà essere opposta in appello la praescriptio militiae, senza nulla dire, neppure implicitamente, in relazione alle altre eccezioni dilatorie[18].
La prima attestazione normativa di tale possibilità si ricava nel più tardo rescritto di Diocleziano, raccolto in C. 7.50.2, nel quale, in mancanza di riferimenti al regime anteriore e in considerazione del solenne tono precettivo, potrebbe ravvisarsi la propensione della cancelleria di Diocleziano di affermare il nuovo principio[19]:
- 7.50.2: Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Alexandrae. Peremptorias exceptiones omissas initio, antequam sententia feratur, opponi posse perpetuum edictum manifeste declarat. Quod si aliter actum fuerit, in integrum restitutio permittitur. Nam iudicatum contra maiores annis viginti quinque non oppositae praescriptionis velamento citra remedium appellationis rescindi non potest. vii k. Ian. Nicomediae CC. conss.
Il regime permissivo in tema di ammissibilità in appello di eccezioni perentorie è confermato, per la normativa del IV secolo, da una costituzione di Giuliano, riportata esclusivamente nel Codice Giustinianeo, la c. 12 C. 8.35(36) del 363:
Imp. Iulianus A. ad Iulianum comitem Orientis. Si quis advocatus inter exordia litis praetermissam dilatoriam praescriptionem postea voluerit exercere et ab huisumodi opitulatione submotus nihilo minus perseveret atque praeposterae defensioni institerit, unius librae auri condemnatione multetur. D. vii id. Mart. Antiochiae A. iiii et Sallustio conss.
Il provvedimento prevede l’irrogazione di una sanzione pecuniaria a carico dell’advocatus che, dopo avere omesso la presentazione di una praescriptio dilatoria inter exordia litis, reiteri la richiesta di accoglimento, implicitamente confermando l’ammissibilità in appello delle sole prescrizioni perentorie, che non dovevano obbligatoriamente essere proposte all’inizio del procedimento.
- Quanto al tema dell’ammissibilità di nuove prove, la dottrina, sin dal lavoro di Zanzucchi, ha pacificamente ritenuto che anche tale principio fosse consolidato in età severiana[20].
In verità, l’unico appiglio che è stato fornito a favore di tale interpretazione è il frammento di Ulpiano, D. 49.1.3.3, che ho sopra esaminato, nel quale si afferma che, una volta proposta l’impugnazione, l’appellante possa persequi provocationem suam quibuscumque modis.
Si tratta, però, come ho già accennato, di un dato non incontrovertibile, considerando che dalla lettura del frammento non pare potersi ravvisare il chiaro riconoscimento della possibilità di dedurre nuove prove nel giudizio di secondo grado.
Il problema discusso da Ulpiano, infatti, era relativo alla modificabilità, nel corso del giudizio di appello, dei motivi di impugnazione: una possibilità, quest’ultima, a favore della quale il giurista si esprimeva in modo esplicito, attribuendo alla parte appellante la facoltà di aliam causam provocationis reddere. In tale contesto, l’espressione “persequi provocationem suam quibuscumque modis” non si riferisce alla possibilità di nuove deduzioni, tema non considerato nel frammento in esame, bensì alla facoltà di ricorrere a tutti i mezzi argomentativi che il mutamento dei motivi, nella seconda fase del giudizio, poteva comportare.
E che quello indicato da Ulpiano non fosse un principio definitivamente consolidatosi nel sistema processuale della cognitio extra ordinem, si ricava dalla documentale circostanza che esso viene riferito con un puto tamen, quindi come opinione personale del giurista e lascia intravvedere l’esistenza di opinioni divergenti, verosimilmente eliminate dai Compilatori con l’inserzione del frammento nel Digesto.
Per vero, neppure può essere accolta con sicurezza la tesi attestante l’esistenza di un principio opposto, relativo ad un assoluto divieto di nuove prove, autorevolmente sostenuta dal Lauria[21], in base all’autorità di un passo di Paolo, tratto dal primo libro De iure fisci, D. 34.9.5.12, in cui il giurista affermava che sarebbe incorso nell’indegnità il giudice di prime cure la cui decisione, in tema di falso testamentario, fosse stata riformata in appello:
- 34.9.5.12 (Paul. 1 de iure fisci): Quidam et praesidem indignum putant, qui testamentum falsum pronuntiavit, si appellatione intercedente heres scriptus optinuit.
Nel caso in esame, l’opinione dei quidam, che il giurista riferisce, avrebbe assunto un preciso significato, esclusivamente nell’ipotesi in cui il giudice d’appello avesse riformato la sentenza senza bisogno di nuove prove oppure di nuova attività istruttoria: affermazione che può essere fondata, sebbene il passo non ne parli espressamente, ma non può significare, in generale, che fossero vietate nuove allegazioni nel giudizio di secondo grado.
L’attestazione normativa di un regime permissivo in tale materia è invece esplicitamente testimoniata da un altro frammento dell’editto di Diocleziano dell’anno 294, C. 7.62.6.2:
Si quis autem post interpositam appellationem necessarias sibi putaverit esse poscendas personas, quo apud iudicem qui super appellatione cognoscet veritatem possit ostendere, quam existimabit occultam, hocque iudex fieri prospexerit, sumptus isdem ad faciendi itineris expeditionem praebere debebit, cum id iustitia ipsa persuadeat ab eo haec recognosci, qui evocandi personas sua interesse crediderit.
Il testo normativo attribuisce alle parti la facoltà di richiedere, anche post interpositam appellationem, nuove prove testimoniali, che siano utili per l’accertamento della verità (qui super appellatione cognoscet veritatem possit ostendere), a condizione che, nell’ipotesi di escussione di nuovi testimoni, le spese di viaggio siano poste a carico della parte richiedente[22].
Un mutamento di indirizzo nella disciplina del ius novorum è stato intravisto nella costituzione di Costantino, riportata in CTh. 11.30.11, che avrebbe escluso non solo la possibilità di nuove domande, ma altresì di ogni tipo di eccezione o di deduzione di nuovo materiale probatorio, quantomeno nell’appello detto more consultationis[23]:
Imp. Constantinus A. ad Maximum. Post alia: Nemo in refutationem aliquid congerat, quod adserere intentione neglexerit. Quod quidem saepe fit industria, si, quod quis probari posse desperet, in praesenti disceptatione dissimulet, certus se esse revincendum, si commenticia et ficta suggesserit. Propter quod cogi etiam singulos oportebit ad proferenda in iudicio universa, quae ad substantiam litigii proficere arbitrantur, atque ea ratione urgeri, ut sciant sibi ex auctoritate legis istius non licere refutatoriis tale aliquid ingerere, quod aput iudicem non ausi fuerint publicare. Nam si plena, ut iubemus, adsertio per litigatorem in iudiciis exeratur et integra instructio in consulti ordinem conferatur, stabit ratum ac fidele, quod iudicia nostra rescribserint neque ullus querimoniae locus dabitur nec occasio supplicandi, ut convelli labefactarique iubeamus quae ad relationem eius sanximus, qui neque vera neque universa seggessit. Omnes igitur partium allegationes acta universa scribturarumque exempla omnium dirigantur. Quod cum universos iudices tum precipue sublimitatem tuam, qui cognitionibus nostram vicem repraesentas, servare conveniet. Sane etiam ex eo querimoniae litigantium oriuntur, quod a vobis, qui imaginem principalis disceptationis accipitis, appellationum adminicula respuuntur. Quod inhiberi necesse est. Quid enim acerbius indigniusque est, quam indulta quempiam potestate ita per iactantiam insolescere, ut despiciatur utilitas provocationis, opinionis editio denegetur, refutandi copia respuatur? Quasi vero appellatio ad contumeliam iudicis, non ad privilegium iurgantis inventa sit vel in hoc non aequitas iudicantis, sed litigantis debeat considerari utilitas. Dat. prid. id. Ian. Sirmio Crispo ii et Costantino ii CC. conss.
Tale interpretazione della costituzione costantiniana non sembra, però, rispondente al suo effettivo contenuto, ispirata, com’è, dalla pregiudiziale ipotesi che essa si riferisca al cosiddetto appello more consultationis, uno strumento che proprio nell’epoca constantiniana sarebbe entrato a far parte del sistema processuale romano[24].
In realtà, la costituzione considera sì l’ipotesi della consultatio proposta da un giudice all’imperatore, ma non come forma di appello e si riallaccia, evidentemente, al testo con cui, in apertura del titolo De appellationibus et poenis earum et consultationibus (CTh. 11.30.1)[25], erano state dettate le norme a cui giudici e parti dovevano attenersi si in negotio civili cognitis utrisque actionibus, qualora il giudice avesse deciso di sottoporre, con una relatio, la questione all’imperatore. Là si diceva che il giudice deve comunicare alle parti l’exemplum consultationis e che le parti hanno facoltà di depositare, a loro volta, preces refutatoriae; qui si precisa che le preces refutatoriae non possono invocare e dedurre argomenti diversi da quelli proposti all’inizio della controversia, che viene indicato con il termine intentio, e che, quindi, si deve anche imporre ai singoli soggetti (cogi etiam singulos oportebit, dove l’etiam condiziona il cogi e non i singulos) a proporre in giudizio universa, quae ad substatiam litigii proficere arbitrantur, consapevoli che non potranno, in forza di questa disposizione, introdurre nelle refutatoriae, quod aput iudicem non ausi fuerint pubblicare.
Nulla di queste espressioni si riferisce ad un giudizio di appello e, ancor più chiaramente, lo esclude il seguito della disposizione, dove si sottolinea che, se le prescrizioni dettate nella costituzione saranno osservate, si plena ut iubemus adsertio per litigatorem in iudicii exeratur et integra instructio in consulti ordinem conferatur, la decisione imperiale potrà risultare ferma e conforme alle risultanze di fatto (ratum ac fidele) e si indica tale decisione come quod iudicio nostro rescribserint. È chiaro che qui non si tratta di una sentenza pronunciata dal tribunale imperiale in grado di appello, ma del rescritto con cui l’imperatore risponde alla consultatio del funzionario imperiale, risolvendo il dubbio a lui sottoposto sulla soluzione da adottare al caso concreto.
La costituzione ha indubbiamente un grande significato per la disciplina della consultatio ante sentetiam e, indirettamente, anche come incentivo per le parti a proporre, sin dall’inizio della lite, tutti gli elementi ed argomenti utili, ad evitare il rischio di non poterli più addurre nell’ipotesi in cui il giudice decidesse di sottoporre la controversia alla decisione imperiale. Ma non ha alcuna incidenza sul giudizio di appello e sulla possibilità di dedurre in esso nuove domande, nuove eccezioni e nuovi mezzi di prova.
Analoghe considerazioni valgono per la più tarda costituzione, se tale può dirsi, di Teodosio, Arcadio ed Onorio, conservata in CTh. 11.30.52, che anche l’Orestano considerava la prima norma a disporre il divieto di nova in appello[26]:
Imppp. Valentinianus, Theodosius et Arcadius AAA. have, Rufine k(arissime) n(o)b(is). Nihil sub sacri iudicii esamine de ea parte negotii debet definiri, de qua nihil in exordio aput praesidem aut institutum fuerit ac probatum. Dat. iii kal. Octob. Constan(tin)op(oli) Theod(osio) A. iii et Abundantio conss.
Dal frammento di sole due righe che i compilatori teodosiani hanno estratto da una lettera diretta al prefetto del pretorio d’Oriente, è arduo ricavare l’effettiva portata della costituzione: la scarna proposizione a noi pervenuta, conferma quanto Costantino aveva stabilito, oltre mezzo secolo prima, che cioè non possa essere presa in considerazione sub sacri iudicii examine, quella parte della controversia de qua nihil in exordio apud praesidem aut alium iudicem[27] institutum fuerit ac probatum.
Anche qui, il probabile obbiettivo era la procedura della consultatio ante sententiam, da parte di giudici inferiori e non il processo di appello, per cui non se ne può desumere, neppure per l’età più avanzata, l’intento di vietare, nel giudizio di secondo grado, nuove deduzioni.
- Una nuova ed organica disciplina della materia si avrà nella costituzione di Giustino dell’anno 529 (C. 7.63.4 pr.)[28]: la disposizione, in sostanza, confermava e precisava le linee essenziali ricavabili dalla normativa anteriore, rappresentata essenzialmente dall’editto di Diocleziano[29], che pure viene inserito nel Codice Giustinianeo con una più puntuale limitazione della possibile estensione del ius novorum:
Imp. Iustinus A. Tatiano magistro officiorum. Per hanc divinam sanctionem decernimus, ut licentia quidem pateat in exercendis consultationibus tam appellatori quam adversae parti novis etiam adsertionibus utendi vel exceptionibus, quae non ad novum capitulum pertinent, sed ex illis oriuntur et illis coniunctae sunt, quae apud anteriorem iudicem noscuntur propositae.
La costituzione di Giustino stabilisce che entrambi i litiganti possano addurre nuove deduzioni ed eccezioni, purchè esse non attengano ad un novum capitulum, ma siano la conseguenza, ex illis oriuntur et illis coniunctae sunt, delle domande quae apud anteriorem iudicem noscuntur propositae. Ammette, inoltre, che possano essere tenute in considerazione, apud sacros cognitores, elementi di prova che mancavano nel corso del precedente giudizio[30].
Il regime permissivo in ordine alle nuove allegazioni in appello è confermato da una costituzione di Giustiniano dell’anno 529, la c. 37 C. 7.62, che, al paragrafo 4, ammette la possibilità, ad exemplum consultationis, di introdurre novae adsertiones ad sacrum nostrum palatium, che venivano consentite alle parti sia di fronte al giudice unico, sia dinanzi a giudici collegiali[31]:
Imp. Iustinianus A. Menae pp. Quae vero fuerint ab eo vel eis decreta, nulla provocatione suspendantur. Novas etiam adsertiones a partibus apud eundem vel eosdem iudices addi ad exemplum consultationis ad sacrum nostrum palatium introducendae permittimus. D. viii id. April. Costantinopoli Decio cons.
Si delinea così, nel diritto giustinianeo, un regime del ius novorum in appello improntato su principi che si conservano sostanzialmente nei moderni ordinamenti processuali, come nel nostro codice di procedura civile (art.345), in quello francese (art.464) ed in quello tedesco (528 e ss.).
Patrocinante avanti alle Magistrature Superiori
Professore presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi
[1] Come è noto, l’attribuzione al giudice inferiore di una competenza in ordine alla ammissibilità dell’appello, costituisce una delle caratteristiche fondamentali del giudizio di secondo grado. In argomento, vedi, R. ORESTANO, L’appello civile in diritto romano (Genova 1952 rist. Torino 1966) 409 364 ss.; W. LITEWSKI, Die römische Appellation in Zivilsachen, 4, in RIDA 15 [1968] 145 ss. Più di recente, mi permetto di rinviare al mio L’appello nella legislazione del tardo Impero (Milano 2000) 394 ss.
[2] In generale, sull’effetto devolutivo dell’appello, R. ORESTANO, L’appello civile cit. 409 ss.; W. LITEWSKI, Die römische Appellation in Zivilsachen, 4, cit. 188 ss.
[3] Per R. ORESTANO (L’appello civile cit. 409), nel passo di Modestino, la nozione di effetto devolutivo è “chiarissima”.
[4] Sebbene la dottrina sia orientata a considerare l’inciso come il rinvio ad un editto di Costantino non conservato (J. GOTOFREDO, Codex Theodosianus cum perpetuis commentariis [Lipsia 1736 rist. Hildeshiem-New York 1975] ad CTh. 11.30.3; W. LITEWSKI, Die römische Appellation in Zivilsachen, 1, in RIDA 12 [1965] 353 nt. 28; C. DUPONT, La procédure civile dans les constitutions de Constantin. Traits caractéristiques, in RIDA 21 [1974] 193 nt. 12) oppure come un richiamo all’edictum generale dello stesso imperatore, smembrato in vari framenti nel Codice Teodosiano (CTh. 9.40.1; 11.30.2; 11.36.1) e indirizzato a Catullino nell’anno 313 (A. PIGANIOL, L’Empereur Constantin [Paris 1932] 108; J. GAUDEMET, Constitutions constaniennes relatives à l’appel, in ZSS 98 [1981] 69, ora in Droit et société aux derniers siècles de l’Empire romain [Napoli] 1992 89), ritengo che non possa escludersi che nel richiamo all’edictum, quod super appellationum negotiis finiendis iam generaliter constitutum est, possa ravvisarsi la disposizione dell’anno 294, di cui ho già detto nel testo (C. 7.62.6): per tale via, l’esortazione al proconsole d’Africa, contenuta in CTh. 11.30.3, come implicita affermazione dell’effetto devolutivo dell’appello, acquisterebbe un più rilevante significato, in quanto connessa all’insistente enunciazione che di quel principio l’editto dioclezianeo è sicura testimonianza.
[5] Sul ius novorum nell’esperienza processuale romana, M.T. ZANZUCCHI, Nuove domande, nuove eccezioni e nuove prove in appello (Milano 1916) 35 ss.; G. BONSIGNORI, Critica dell’effetto devolutivo in senso generico e astratto, in Studi in memoria di G. Donatuti I (Milano 1973) 161 ss.; N. SCAPINI, Il ius novorum nell’appello civile romano, in Studi Parmensi 21 (1978) 3 ss.
[6] R. ORESTANO, L’appello civile cit. 409; W. LITEWSKI, Die römische Appellation in Zivilsachen, 4, cit. 228 s.; N. SCAPINI, Il ius novorum cit. 54. Più in generale, sul problema del mutamento della domanda prima dell’emanazione della sentenza, U. ZILLETTI, Studi sul processo civile giustinianeo (Milano 1965) 128 ss.
[7] D. 2.15.8.9: In causa hoc erit requirendum, quae causa sit transigendi: sine causa enim neminem transigentem audiet praetor. Causae fere huiusmodi solent allegari: si alibi domicilium heres, alibi alimentarius habeat: aut si destinet domicilium transferre alter eorum: aut si causa aliqua urgueat praesentis pecuniae: aut si a pluribus ei alimenta relicta sint et minutatim singulos convenire difficile ei sit: aut si qua alia causa fuit, ut plures solent incidere, quae praetori suadeant transactionem admittere.
[8] D. 5.2.3: Inofficiosum testamentum dicere hoc est allegare, quare exheredari vel praeteriri non debuerit: quod plerumque accidit, cum falso parentes instimulati liberos suos vel exheredant vel praetereunt.
[9] D. 22.3.26: Procula magnae quantitatis fideicommissum a fratre sibi debitum post mortem eius in ratione cum heredibus compensare vellet, ex diverso autem allegateur numquam id a fratre quamdiu vixit desideratum, cum variis ex causis saepe rationi fratris pecunias ratio Proculae solvisset: divus Commodus cum super eo negotio cognosceret, non admisit compensationem, quasi tacite fratri fideicommissum fuisset remissum.
[10] D. 23.2.60: Si quis tutor quidem non sit, periculum tamen tutelae ad eum pertineat, an sententia orationis contineatur? Veluti si pupilla ab hostibus capta fuerit aut falsis allegationibus a tutela se excusaverit, ut ex sacris constitutionibus periculum ad eum pertineat? Et dicendum est hos quoque ad senatus consultum pertinere: nam et huiusmodi periculum in numerum trium tutelarum computari comprobatum est.
[11] D.26.7.1.1: Ex quo scit se tutorem datum si cesset tutor, suo pericolo cessat: id enim a divo Marco constitutum est, ut, qui scit se tutorem datum nec excusationem si quam hebet allegat intra tempora praestituta, suo periculo cesset.
[12] D.27.1.31 pr.: Si is, qui tres tutelas administrabat, duobus pupillis diversis decretis datus est qui potuit excusari, et priusquam causas excusationis allegaret, unus ex pupillis, quorum iam tutelam administrabat, decessit, ubi desiit ei competere excusatio, statim tenuit eum prius decretum, quasi in loco tertiae tutelae quarta subroganda: nam ipso iure tutor est et antequam excusetur. Potuit ergo tutela eius, qui nunc quarto loco invenitur, excusari: sed cum non sit excusatus, necessario subeundum est onus illius quoque tutelae. Nec me movet, quod dicat aliquis hoc ne exigi, an administretur tutela: hoc enim eo pertinet, ne sit finita administratio: ceterum si periculum sustineat cessationis, puto ei imputandam eam quoque tutelam.
[13] D.27.1.37.1: Item quero, si adquievisset sententiae, an ob id, quod non gessit tutelam, utilis actio in hunc dari debeat. Respondi, si errore potius (quod se pro iure trium liberorum, quod allegabat, excusatum crederet) quam malitia ab administratione cessasset, utilem actionem non dandam.
[14] In questo senso, vedi W. LITEWSKI, L’appello tardoantico, in Index 30 (2002) 455.
[15] Sul valore dell’editio actionis e della litis contestatio nel sistema della cognitio extra ordinem, si veda il rescritto di Settimio Severo e Caracalla, scisso dai Compilatori in due frammenti, rispettivamente nel titolo De edendo (C. 2.1.3) e De litis contestatione (C. 3.9.1).
Sul tema della litis contestatio nella cognitio, è ancora attuale, seppure non del tutto esauriente, lo studio di S. DI PAOLA, La “litis contestatio” nella “cognitio extra ordinem” dell’età classica, in AUCA 2 (1948) 3 ss. Per ulteriori indicazioni, vedi A. BISCARDI, La “litis contestatio” nel processo amministrativo e in materia fiscale, in Studi in onore di E.T. Liebman I (Milano 1979) 400 ss.; G. PUGLIESE, L’”actio” e la “litis contestatio” nella storia del processo romano, ibid. 426 ss., nonché, in generale, KASER-HACKL, Das römische Zivilprozessrecht (München 19962) 387 s.
[16] In argomento, vedi E. CANTARELLA, Il “minus petere” e le sue conseguenze nel processo formulare, in SDHI 35 (1969) 99 ss.
[17] A. GUARNERI CITATI, Exceptio omissa initio-in integrum restitutio-appellatio (VII.50.2), in Studi in onore di S. Perozzi (Palermo 1924) 256; R. ORESTANO, L’appello civile cit. 425; W. LITEWSKI, Die römische Appellation in Zivilsachen, 4 cit. 227 ss.; N. SCAPINI, Il ius novorum cit. 18 s. e 31 s.; M. LEMOSSE, Á propos du régime des exceptions dans le procès postclassique, in Studi in onore di C. Sanfilippo I (Milano 1982) 243 ss. Dubitativo, al riguardo, M. LAURIA, Sull’ appellatio cit. 8 (ora in Studii e Ricordi cit. 68).
[18] Cfr., in proposito, le osservazioni di W. KOLITSCH, Praescriptio und exceptio ausserhalb des Formularverfahrens, in ZSS 89 (1959) 294 ss., sulla scia di T. KIPP, Ueber dilatorische und peremptorische Exzeptionen, in ZSS 42 (1926) 341 ss. Riferisce il testo al processo formulare C. SANFILIPPO, Contributi esegetici alla storia dell’appellatio, in AUCA 8 (1934) 347 ss.
[19] A. GUARNERI CITATI, Exceptio omissa initio cit. 247 ss.; M. LAURIA, Sull’appellatio, in AG 97 (1927) 8 s. (ora in Studii e Ricordi [Napoli 1983] 69 s.); M. AMELOTTI, La prescrizione delle azioni in diritto romano (Milano 1958) 72 ss.; N. SCAPINI, Il ius novorum cit. 17 ss. Pure in questo senso, anche se con maggiore cautela, LEMOSSE, A propos du régime des exceptions cit. 245, per il quale la costituzione di Diocleziano in esame è stata, senza dubbio, “défigurée par une maladresse des compilateurs”.
[20] M.T. ZANZUCCHI, Nuove domande, nuove eccezioni, nuove prove cit. 357 s.; R. ORESTANO, L’appello civile cit. 423; W. LITEWSKI, Die römische Appellation in Zivilsachen, 4 cit. 228 ss.; N. SCAPINI, Il ius novorum cit. 11 ss.; I. BUTI, La “cognitio extra ordinem” da Augusto a Diocleziano, in ANRW 2/14 (1982) 56; J. L. LINARES PINEDA, Para un estudio de los limites de la apelación romana, in Seminarios Complutenses de Derecho Romano, 3 (Madrid 1992) 107; ID., “Persequique provocationem quibuscumque modis potuerit” (Apelación plena y apelación limitada en el proceso civil romano), in Estudios en homenaje al Prof. F. Hernandez-Tejero II (Madrid 1994) 343 ss.
[21] M. LAURIA, Sull’”appellatio” cit. 8 s. (ora in Studii e Ricordii cit. 68 s.).
[22] In relazione alla natura non innovativa di tale principio, anche in relazione ad un precedente rescritto di Adriano (su cui, vedi D. 22.5.3.4), vedi M. LAURIA, Sull’appellatio cit., 9 (ora in Studii e Ricordi cit., 69).
[23] N. SCAPINI, Il ius novorum cit. 56 s. e, più di recente, W. LITEWSKI, L’appello tardoantico cit. 455. Ancora più netta la posizione di A. PADOA SCHIOPPA, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio I (Milano 1967) 87: “L’impostazione del Codice Teodosiano risulta rigidamente negativa”.
[24] Sulla procedura della consultatio ante sententiam e sui dubbi relativi alla sua effettiva introduzione nel sistema processuale della tarda antichità, mi permetto di rinviare al mio Studi sulla consultatio ante sententiam (Bergamo 2005) 67 ss. (ove indicazioni bibliografiche).
[25] CTh. 11.30.1: Imp. Constantinus A. ad Claudium Plotianum correctorem Lucaniae et Brittior(um). Si in negotio civili cognitis utrisque actionibus pronuntiaveris te ad nostrum scientiam relaturum, consultationis exemplum litigatoribus intra decem dies edi aput acta iubeas, ut, si cui forte relatio tua minus plena vel contraria videatur, is refutatorias preces similiter tibi aput acta offerat intra dies quinque, quam illi exemplum consultationis tuae obtuleris. Iam dicationis tuae est omnia, quae aput te vel aput alios gesta fuerint in eo negotio, consultationi tuae cum refutatoriis litigantis adnectere, ita ut scias et decem dies, intra quos edi consultationem oportet, et quinque, intra quos preces refutatoriae offerendae sunt, continuos debere servari. Nam quinque diebus transactis nec offerentem preces refutatorias litigatorem debebis audire, sed sine his, quoniam intra statutum tempus oblatae non sunt, gesta omnia ad nostrum referre scientiam. Et cetera. Dat. iii kal. Ian. Trev(iris) Constantino A. iii et Licinio III conss.
[26] R. ORESTANO, L’appello civile cit. 425.
[27] Sulla necessità di tale inserzione, per dare significato alla frase, vedi T. MOMMSEN, Theodosiani libri XVI cum constitutionibus Sirmondianis (Berlin 1905 rist. 1970) ad h.l. Contra, J. GOTOFREDO, Codex Theodosianus cit. ad h.l.
[28] M.T. ZANZUCCHI, Nuove domande, nuove eccezioni e nuove prove cit.38, sostiene che sarebbe “a questa costituzione di Giustino che si riportano tutte le leggi e la dottrina posteriori sino all’epoca moderna”.
[29] A. PADOA SCHIOPPA, L’appello cit. 90 s.
[30] G. BASSANELLI SOMMARIVA, La legislazione processuale di Giustino I (9 luglio 518-1 agosto 527), in SDHI 37 (1971) 175 ss.; EAD., L’imperatore unico creatore ed interprete delle leggi nel diritto giustinianeo (Milano 1983) 92 s.; J.L. LINARES PINEDA, Para uno estudio cit., 108 ss.
[31] Sul ruolo della costituzione nel quadro della legislazione giustinianea, U. ZILLETTI, Studi cit., 235 ss.; G. BASSANELLI SOMMARIVA, L’imperatore cit. 95 ss.; W.N. TURPIN, The late Roman Law Codes: formes and procedures for legislation from classical Age to Justinian (Cambridge 1981), 210 ss.; J. CAIMI, Burocrazia e diritto nel “De magistratibus” di Giovanni Lido (Milano 1984) 309 ss.