Federico Pergami
Introduzione al processo civile nell’esperienza romana della tarda antichità
- La storia dell’ordinamento giuridico tra la fine del terzo e gli inizi del quarto secolo, è influenzata, anche a proposito delle vicende del processo civile, dall’accentuazione del principio secondo cui la sola fonte del diritto consisteva nella legge imperiale, cioè nella volontà del principe.
Un principio destinato a consolidarsi definitivamente in età dioclezianea, poiché l’imperatore dalmata, ancora più dei suoi predecessori, accentrò su di sé, oltre che la funzione legislativa, anche i compiti giurisdizionali[1].
Federico Pergami ci riporta a Diocleziano
Diocleziano, infatti, per molti aspetti “restauratore della romanità”[2] si prefiggeva il compito di riunificare l’ordinamento giuridico, anche contrastando le forze centrifughe degli usi locali che erano sopravvissuti specialmente della pars Orientis dell’Impero[3]. Emerge, infatti, dalla copiosissima produzione normativa un indirizzo nettamente conservativo che si traduce, seppure nella forma del rescritto imperiale, nel materiale raccolto specialmente nel Codice di Giustiniano[4] e che sottolinea un indirizzo legislativo decisamente orientato alla formale applicazione del diritto romano, specialmente nelle province dell’Impero, attraverso una spinta unitaria ed uniformante che, proprio per il tramite della tipologia di intervento normativo prescelto consentiva, per un verso, un contatto diretto tra l’imperatore e i suoi sudditi; per altro verso, e per quanto qui specialmente rileva, una funzione di “uniformazione e controllo dell’operato degli organi giurisdizionali”[5].
Un diretto riflesso di tale accentramento del potere nella mani del sovrano si rinviene nella ridotta attività della giurisprudenza, a cui il nuovo assetto costituzionale aveva sottratto la tradizionale funzione interpretativa, ormai svuotato del suo originario significato: le opere dei due unici giuristi di cui vi è traccia nel Digesto, attivi tra il regno di Diocleziano e l’elevazione alla porpora imperiale di Costantino, Ermogeniano e Aurelio Arcadio Carisio, pur di rilevante interesse giuridico, sono quantitativamente ridotte e limitate – ratione materiae– ad alcuni profili, specialmente processuali.
In ogni caso, la funzione della giurisprudenza, originariamente orientata in senso elitario, si propone di coordinare la diffusione del patrimonio di conoscenze giuridiche che erano state acquisite nel corso dell’età classica: è in questa prospettiva che, durante il regno di Diocleziano, nascono i Codice Gregoriano ed Ermogeniano, quale strumento per la libera accessibilità alla conoscenza dei principi regolatori dell’ordinamento, come pure la composizione delle cd. Sentenze di Paolo, che si prefiggevano il compito di predisporre nuove ed aggiornate edizioni dei risultati acquisiti dalla riflessione giurisprudenziale, specialmente di età severiana. Del resto, tali opere assolvevano, fra l’altro, alla funzione di costituire indispensabili strumenti pratici, utilizzati dagli operatori nel concreto svolgimento della vicenda processuale.
- A proposito del sistema processuale dell’amministrazione della giustizia nella cognitio extra ordinem, scriveva il Jones, si poteva dubitare, in epoca tardoantica, dell’”eccellenza del diritto romano” per una serie di ragioni, sostanzialmente riconducibili –oltre che alla oscurità ed arretratezza del diritto, reso enigmatico da tecnicismi arcaici- alla eccessiva durata dei processi, in gran parte a causa dell’ampiezza concessa al diritto di appello e dall’elevato costo delle spese di giustizia, specialmente nei tribunali più elevato in grado, nonché dagli onorari degli avvocati e dai lunghi viaggi imposti, dalla periferia al centro per il caso di riesame delle decisioni da parte di un giudice di grado superiore, imposti alle parti e ai testimoni[6].
Il giudizio severo dello storico merita una diretta verifica sulle fonti.
In linea generale, se nell’ordo iudiciorum privatorum “nessun cittadino può venir sottoposto a una sentenza del giudice, se egli stesso non si sia accordato col suo avversario in un libero contratto sulla scelta del giudice”[7], nella cognitio extra ordinem “il iudicium privato anteriore rientra sotto il dominio del diritto pubblico…adesso si sviluppa il concetto di procedimento civile che è familiare a noi, che sta sotto la categoria del diritto pubblico ed è destinato a comporre le controversie di diritto privato e a far trionfare obiettivamente la giustizia”[8].
Non sono, dunque, più le parti a scegliere il giudice che dovrà emanare la sentenza a cui le parti decidono volontariamente e preventivamente di sottoporsi, bensì lo Stato “determina per principio davanti a chi e sotto quali presupposti un suddito può ottenere il suo diritto asserito con un altro suddito[9].
Emergono, così, con limpida chiarezza le nuove caratteristiche del sistema: la natura pubblica del processo, affidato all’imperatore o a un suo delegato, la conseguente unitarietà del processo, non più bipartito fra fase in iure e fase apud iudicem, che inizia con la citazione scritta e il conseguente obbligo di comparizione del convenuto, nonché –si tratta probabilmente della maggiore novità del nuovo processo- la possibilità di un riesame della sentenza da parte di un giudice superiore, quale riflesso della formazione di un articolato e complesso assetto burocratico di funzionari imperiali, a ciò delegati dal sovrano.
- Lo svolgimento del processo cognitorio prendeva impulso con la consegna, da parte dell’attore, di un’istanza scritta contenente le proprie pretese (postulatio simplex), la litis denuntiatio, che veniva trasmessa, con la collaborazione dei funzionari imperiali, al giudice competente per un esame preliminare sulla sua ammissibilità: di una simile procedura, vi è traccia in un importante costituzione di Costantino, contenuta nel Codice Teodosiano, 2,4,2:
Denuntiari vel apud provinciarum rectores vel apud eos, quibus actorum conficiendorum ius est, decernimus, ne privata testatio mortuorum aut in diveris terris absentium aut eorum qui nusquam gentium sint, scripta nominibus falsa fidem rebus non gestis adfigat”.
Nel sistema giustinianeo, le formalità introduttive del processo civile, si sostanziano, invece, in una citazione scritta (libellus conventionis) che l’attore trasmette al giudice competente, affinchè questi provveda a trasmetterne copia alla parte avversa.
In entrambi i casi, l’attore assume su di sé la responsabilità per l’incardinamento del giudizio, obbligandosi –apud acta– mediante garanzia o giuramento, di compiere la litis contestatio entro due mesi, di persistere in giudizio sino alla sentenza e, in caso di soccombenza, di sostenere le spese di lite.
Il giudice, esaminato sommariamente in contenuto delle pretese attoree, può decidere per l’inammissibilità, specialmente per il caso di vizi procedurali, ovvero può disporre per la notifica dell’istanza al convenuto, unitamente alla data di prima comparizione davanti al Tribunale: incombente che se in epoca postclassica era affidato all’iniziativa di parte dello stesso attore, con Giustiniano si trasforma in compito dell’ufficio, che avveniva per il tramite di un funzionario imperiale, l’exsecutor, che aveva, tra l’altro, l’effetto di interrompere i termini prescrizionali:
C.I. 7.40.3.3: Sancimus…qui obnoxium suum in iudicium clamaverit et libellum conventionis ei transmiserit…videri ius suum omne eum in iudicium deduxisse et esse interrupta curricula…
A questo punto, il convenuto, a cui il libello è stato consegnato dall’exsecutor, dovrà prendere posizione sull’istanza dell’attore mediante libellus contradictionis, nel quale egli avrà preso posizione sull’istanza dell’attore, dando contemporaneamente garanzia di comparire all’udienza e di resistere in giudizio sino alla sentenza, mediante cauzione (cautio iudicio sisti) o giuramento (fidejussio iudicio sistendi causa), da fornirsi, sempre per il tramite dell’exsecutor, al giudice, che farà recapitare all’attore le controdeduzioni del convenuto e l’ordine di comparizione.
Tra la notificazione dell’istanza dell’attore e il primo termine di comparizione doveva intercorrere un termine non inferiore a 10 giorni, elevato, nel più recente diritto delle Novelle a 20 (Nov. 53).
Dall’obbligo di comparizione davanti al giudice delle parti, scaturisce la procedura contumaciale, quale ulteriore rilevante novità della procedura extra ordinem: il mancato rispetto dell’ordine di presentarsi all’udienza viene considerato atteggiamento arrogante e dispregiativo nei confronti dell’autorità[10], che è sanzionato in maniera molto efficace, rendendo possibile un procedimento che conduca alla sentenza, peraltro inappellabile[11], anche senza la presenza del convenuto:
- 5.1.73.3: Sciendum est ex peremptorio absentem condemnatum si appellet non esse audiendum, si modo per contumaciam defuit: si minus audietur.
C.I. 3.1.3.4 Cum autem eremodicium ventilatur sive pro actore sive pro reo, examinatio sine ullo obstaculo celebretur. Cum enim terribiles in medio proponuntur scripturae, litigatoris absentia dei praesentia repletur, nec pertimescat iudex appellations obstaculum, cum ei, qui contumaciter abesse noscitur, nulla est provocationis licentia, quod et in veteribus legibus esse statutum manifestissimi iuris est.
Ciò che, ovviamente, non significava che il giudice dovesse necessariamente decidere a favore dell’attor, dovendosi basare sull’esito dell’istruttoria che, peraltro, per il caso dell’assenza dell’avversario offrirà alla parte comparsa, almeno in linea di fatto, opportunità più favorevoli per l’accoglimento della propria domanda:
C.I. 7.43.1 IMp. Titus Aelius Antoninus Publicio. Non semper compelleris, ut adversus absentem pronuntie, propter subscriptionis patris mei, qua significavit etiam contra absentes sententiam dari solere: Id enim eo pertinet, ut absentem damnare possis, non ut omnimodo necesse habeas.
- Dopo la comparizione delle parti in giudizio, il giudice effettua, sin da subito, una verifica sui presupposti della lite, anche a seguito delle eccezioni reciprocamente sollevate dai contendenti, con riguardo, per esempio –così ci informano le fonti- alla incompetenza del tribunale adìto, alla litispendenza con altra giudizio fra le stesse parti per la medesima res litigiosa ovvero alla incapacità a stare in giudizio.
Due i possibili scenari: accoglimento dell’eccezione e conclusione del processo o apertura del dibattimento.
Alla rinnovata struttura processuale, va detto subito e in via preliminare, è congeniale esclusivamente l’obbligo di comparire, ma non quello di difendersi, secondo il principio, cristallizzato da Ulpiano nei libri ad edictum, per cui invitus nemo rem cogitur defendere (D. 50.17.156).
E’ in questa prospettiva, ancora preparatoria dello svolgimento ordinaria della vicenda processuale che si collocano due possibili esiti processuali, alternativi al dibattimento, la confessione e il giuramento.
La confessio, per quanto siamo venuti dicendo sull’unitarietà del processo, che si svolgeva per intero di fronte al funzionario delegato dall’imperatore, non è più distinta –come nell’ordo– fra confessio in iure e confessio in iudicio, bensì fra la confessione che ammette la pretesa giuridica, mediante il riconoscimento del fondamento giuridico dell’avversa pretesa ovvero una confessione in fatto, con cui una parte riconosce l’avveramento di un fatto materiale: in entrambi i casi, la sentenza del giudice dovrà fondarsi su tale elemento di prova e condurre alla condanna del responsabile: confessus pro iudicato est, quodammodo sua sententia damnatur, insegna Paolo in D. 42.2.1)[12].
Analogamente, assume valore di mezzo di prova il giuramento che può essere di vario tipo (D. 12.2 De iureiurando sive volutario sive necessario sive iudiciale): è volontario (iusiurandum volontarium), che nel sistema cognitorio deve essere inteso come giuramento stragiudiziale, quando è prestato fuori dal proceso (D. 12.2.17 pr.: Iusiurandum, quod ex conventione extra iudicium defertur, referri non potest) oppure obbligatorio, a sua volta distinto a seconda che, in qualsiasi momento del processo anteriore all’emanazione della sentenza, esso sia deferito da una parte nei confronti dell’altra (iusiurandum necessarium) oppure sia richiesto su iniziativa del giudice (iusiurandum iudiciale).
- Diocleziano precisa che le eccezioni, in forza delle quali il convenuto, pur ammettendo i presupposti su cui si fonda la pretesa dell’attore, oppone circostanze che ne impediscono, anche parzialmente, l’efficacia, possono essere perentorie potevano essere fatte valere, in qualsiasi momento, sino all’emanazione della sentenza (C.I. 8.35.8):
Preascriptionem peremptoriam, quam ante contestari sufficit, vel omissam, priusquam sententia feratur, obicere quandoque licet.
Al contrario, quelle dilatorie potevano essere sollevate sino all’inizio del dibattimento, come si legge in una nota costituzione di Giuliano, conservata nel Codice Giustinianeo: Imp. Iulianus A. ad Iulianum comitem Orientis. Si quis advocatus inter exordia litis pretermissam dilatoriam praescriptionem postea voluerit exercere et ab huiusmodi opitulatione submotus nihilo minus perseveret atque praeposterae defensioni institerit, unius librae auri condemnatione multetur.
- Nel caso di apertura del dibattimento e della relativa istruttoria, si conserva ancora il nome di litis contestatio al momento di inizio del procedimento, che consisteva in una narratio dell’attore, cui seguiva la contradictio del convenuto: Res in iudicium deducta non videtur, si tantum postulatio simplex celebrata sit vel actionis species ante iudicium reo cognita. Inter litem enim contestatam et editam actionem permultum interest. Lis enim tunc videtur contestata, cum iudex per narrationem negotii causam audire coeperit (C.I. 3.9.1) [13].
L’espressione, però, non più riferibile alle finalità assunte nel sistema privatistico, assolve essenzialmente alla funzione di determinare il momento iniziale del procedimento, nella prospettiva di individuazione di una conclusione in termini ragionevoli: Censemus itaque omnes lites…non ultra triennii metas post litem contestatam esse protrahendas (C.I. 3.1.13.1).
- Ruolo centrale nel raggiungimento del convincimento del giudice hanno le prove che vengono assunte nel corso del dibattimento, che vengono distinte fra prove testimoniali e documentali: se in primo momento dello svolgimento della cognitio ad esse verrà attribuito –almeno sotto il profilo formale- analogo valore, come si ricava da una costituzione dell’imperatore Costantino (C.I. 4.21.15: In exercendis litibus eandem vim obtinent tam fides instrumentorum quan depositiones testium), anche a motivo dell’influenza orientale, maggiore fides sarà attribuita al documento scritto rispetto alla prova orale, spesso distinta in base al ceto sociale del testimone:
C.I. 4.20.1: Contra scriptum testimonium non scriptum non profertur.
Vi è traccia, inoltre, dell’introduzione, nel sistema processuale cognitorio, dell’introduzione di un regime delle presunzioni, consistente nell’imporre al giudice di dedurre dall’accertamento di un fatto noto l’esistenza di un altro fatto non accertato, sino a prova contraria (praesumptiones iuris tantum) oppure senza possibilità di prova contraria (praesumptiones iuris et de iure).
- La vicenda processuale, interamente verbalizzata in atti conservati in appositi archivi, si chiude con l’emanazione della sentenza che può essere interlocutoria, se ha pronunciato su questioni preliminari o definitive, se ha deciso l’intera controversia. In entrambi i casi, la decisione deve essere redatta per iscritto e letta alle parti:
C.I. 7. 44.2: Hac lege perpetua credimus ordinandum, ut iudices, quos cognoscendi et pronuntiandi necessitas teneret, non subitas, sed deliberatione habita post negotium sententias ponderatas sibi ante formarent et emendatas statim in libellum secuta fidelitate conferrent scriptasque ex libello partibus legerent, sed ne sit eis posthac copia corrigendi vel mutandi[14].
E’ bene osservare come la natura pecuniaria, che aveva caratterizzato l’oggetto della condanna nel sistema dell’ordo, è superata dalla possibilità di una condanna in forma specifica (condemnatio in ipsam rem), da preferire alla condanna al pagamento di una somma di denaro: Talem itaque altercationem resecantes miramur, quare iudex, qui praepositus est in praedicta causa, non omnimodo condemnationem in servum, sed in aestimationem eius fecerat, cum ipsius vitium etiam huiusmodi altercationi praebuit occasionem[15].
- Il regime delle sentenze, interlocutorie o definitiva, sotto il profilo dell’eventuale loro riesame, offre l’occasione per introdurre il tema della maggiore novità del sistema cognitorio, cioè la possibilità di ipotizzare un riesame della sentenza sfavorevole.
Nel quadro complessivo della legislazione tardo antica dedicata al fenomeno processuale spicca, per la ricchezza del materiale normativo, quello relativo alla disciplina dell’appello[16].
In un lavoro pubblicato nel 1960 e dedicato allo studio della forma degli atti giuridici dell’imperatore [17], Aldo Dell’Oro, esaminando i testi di età dioclezianea contenuti nella Collatio legum mosaicarum et romanarum e resi in forma di «exempla litterarum», equiparava questi provvedimenti a «quelle costituzioni di natura generale dello stesso Diocleziano in cui, all’indicazione dei principi statuenti, vien fatta seguire, invece del destinatario, l’espressione dicunt e quindi subito il testo». Fra queste, Dell’Oro segnalava, seppure incidentalmente, tre costituzioni contenute nel Codice Giustinianeo, riportate in III.3.2, III.11.1 e VII.62.6, che egli considerava autonomi interventi normativi, privi fra loro di qualsiasi collegamento [18].
- Un’indagine che sto conducendo sullo svolgimento del giudizio d’appello nella legislazione tardoantica, mi ha offerto l’opportunità di riesaminare tali provvedimenti, riconducibili all’attività normativa di Diocleziano [19] ed emanati nell’anno 294[20], per porre in luce come essi, in realtà, rappresentino, se considerati nel loro complesso e insieme a C.I. VII.53.8, un editto di carattere generale contenente il primo assetto normativo del processo, forse un regolamento organico di questo [21].
- A questo proposito, è importante sottolineare che i frammenti conservati nel Codice si aprono, dopo l’indicazione dei due Augusti e la sigla dei Cesari ( Diocletianus et Maximianus AA. et CC.), con la formula «dicunt», quella tipica e tradizionale degli editti[22]: circostanza particolarmente significativa, ponendo mente al fatto che questo è uno dei rari casi in cui ciò avviene nei testi dei Codici e uno dei rarissimi esempi, per quanto riguarda le costituzioni dioclezianee, costituite, per la maggior parte, da rescritti; l’unico, anzi, in materia processuale e di diritto pubblico in genere [23].
- La parte specificamente dedicata al giudizio di secondo grado, contenuta in C.I. VII.62.6, si inserisce, dunque, in un contesto più ampio, di cui esistono altri tre frammenti nei titoli: III.3 De pedaneis iudicibus, 2[24]; 11 De dilationibus, 1 [25] e VII.53 De executione rei iudicatae, 8 [26]. Ciò che ne rimane nel Codice, oltre alla parte dedicata all’appello, riguarda la facoltà dei governatori provinciali di affidare la decisione dei processi a iudices pedanei, i limiti dei rinvii da concedere per esigenze istruttorie ed il ruolo dell’executor post sententiam [27]. Ma probabilmente neppure questo è il testo completo dell’editto, di cui i quattro brani in esame non consentono di ricostruire i nessi e la struttura d’insieme [28].
- Nel provvedimento che regolava la disciplina del processo d’appello possono distinguersi diversi piani normativi, corrispondenti al principio e ai successivi paragrafi del testo.
- 1. La prima e più importante statuizione è quella contenuta nel principio, che definisce i poteri ed i compiti dei giudici qui de appellatione cognoscent ac iudicabunt (C.I. VII.62.6 pr.):
Eos, qui de appellationibus cognoscent ac iudicabunt, ita iudicium suum praebere conveniet, ut intellegant, quod, cum appellatio post decisam per sententiam litem interposita fuerit, non ex occasione aliqua remittere negotium ad iudicem suum fas sit, sed omnem causam propria sententia determinare conveniat, cum salubritas legis constitutae ad id spectare videatur, ut post sententiam ab eo qui de appellatione cogniscit recursus fieri non possit ad iudicem, a quo fuerit provocatum. Quapropter remittendi litigatores ad provincias remotam occasionem atque exclusam penitus intellegant, cum super omni causa interpositam provocationem vel iniustam tantum liceat pronuntiare vel iustam.
- Vi si afferma la regola in base alla quale, una volta proposto l’appello dopo la decisione della lite, non è consentito per qualsiasi ragione, rimettere la controversia al primo giudice e si stabilisce che quello competente per la fase d’appello deve decidere omnem causam con la propria sentenza.
- È significativo che l’affermazione venga ribadita ben tre volte, quasi con le stesse parole:
… cum appellatio … interposita fuerit, non ex occasione aliqua remittere negotium ad iudicem suum, fas sit … post sententiam ab eo qui de appellatione cognoscit recursus fieri non possit ad iudicem, a quo fuerit provocatum remittendi litigatores ad provincias remotam occasionem atque exclusam penitus intellegant.
- Vien fatto di chiedersi il perché di questo ripetuto insistere sul concetto che la causa debba essere decisa interamente dal giudice di secondo grado e non rinviata al giudice a quo.
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- Purtroppo, le fonti non forniscono sufficienti indicazioni sullo svolgimento del giudizio di appello nell’epoca antecedente e non consentono, quindi, di stabilire se la prassi anteriore all’editto dioclezianeo fosse tale da rendere necessario l’energico intervento del legislatore per modificarla. Non è improbabile, però, che i giudici competenti per l’appello tendessero a seguire una prassi analoga, facendo dell’appello una sorta di giudizio di revisione della sentenza da parte del giudice che l’aveva pronunciata.
- Certo si è che l’editto dioclezianeo reagisce con decisione ad una tale tendenza e fissa così, in termini chiari, la natura del giudizio di appello come strumento di riesame della controversia da parte del nuovo giudice, cui era devoluta la decisione in seconda istanza. Esso invoca la salubritas legis constitutae, volendo significare, cioè, sembrerebbe comprendere, che l’effetto devolutivo dell’appello al giudice ad quem fosse un principio già implicito nella natura stessa del giudizio di impugnazione. In realtà, il suddetto richiamo sembra presupporre una precisa disposizione normativa, una lex constituta appunto, di cui, però, non vi è traccia esplicita nel regime del giudizio d’appello in epoca anteriore a Diocleziano.
- In ogni caso, è certo che restituire al giudice a quo il procedimento per un nuovo esame nel merito avrebbe snaturato completamente la funzione stessa dell’impugnazione, oltre che complicatone ulteriormente il già complesso iter, con il reiterato passaggio degli atti dalla periferia al centro e viceversa, creando incertezza sulla natura della nuova pronuncia del giudice a quo e, quindi, sulla sua successiva appellabilità.
- Non va dimenticato, infatti, che nel meccanismo del giudizio di impugnazione, il giudice a quo aveva già una propria funzione di accertamento dei presupposti dell’appello, che gli riservava il compito di decidere sulla sua ricevibilità o ammissibilità (appellationem recipere vel non)[29] e sarebbe stato incongruo, perciò, rimettergli ancora il processo per una decisione sul merito che egli aveva già espresso con la pronuncia della sentenza impugnata.
- Nei successivi paragrafi 1 e 2 si trova affermato l’altro importante principio della possibilità di introdurre nuove deduzioni e nuovi elementi di prova nel giudizio di seconda istanza.
- Il paragrafo 1 consente, in particolare, ai litiganti di integrare in sede di appello le allegazioni che fossero state omesse nel giudizio di primo grado, perché nel processo possa pienamente attuarsi la iustitia che costituisce, afferma l’imperatore, il votum del suo governo[30]:
Si quid autem in agendo negotio minus se adlegasse litigator crediderit, quod in iudicio acto fuerit omissum, apud eum qui de appellatione cognoscit persequatur, cum votum gerentibus nobis aliud nihil in iudiciis quam iustitiam locum habere debere necessaria res forte transmissa non excludenda videatur.
- Nel paragrafo 2, poi, viene considerata la facoltà delle parti di richiedere, anche post interpositam appellationem, nuove prove testimoniali che siano utili per l’accertamento della verità, con l’unica condizione che, se questi nuovi mezzi di prova saranno ammessi, sia la parte richiedente a sopportare le spese di viaggio dei testimoni:
Si quis autem post interpositam appellationem necessarias sibi putaverit esse poscendas personas, quo apud iudicem qui super appellatione cognoscet veritatem possit ostendere, quam existimavit occultam, hocque iudex fieri prospexerit, sumptus isdem ad faciendi itineris expeditionem praebere debebit, cum id iustitia ipsa persuadeat ab eo haec recognosci, qui evocandi personas sua interesse crediderit.
- Il tenore dei due paragrafi lascia, così, intravvedere una possibilità di articolazione dello stesso giudizio d’appello, con deduzioni anche successive all’atto introduttivo e decisioni interlocutorie del giudice sulla loro ammissibilità[31].
- Se questa costituisca un’innovazione introdotta dall’editto dioclezianeo o la consacrazione normativa di principi che già vigevano nella prassi, è fortemente controverso.
- Da un lato, il Lauria ha osservato che il tenore della costituzione dell’anno 294 farebbe arguire che le norme in essa sancite costituissero delle novità «altrimenti esse non avrebbero avuto bisogno di così lunghe giustificazioni» [32]. L’autore dichiarava espressamente di essere riuscito a trovare un solo passo relativo all’ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello: sarebbe il testo di Paolo, l. 1 De iure fisci, riportato in D. 34.9.5.12[33], secondo cui sarebbe incorso nell’indegnità il giudice di primo grado, nella fattispecie un praeses provinciae, che aveva dichiarato la falsità di un testamento, se la sua sentenza fosse stata riformata in grado di appello. A parere del Lauria l’opinione dei quidam, che Paolo riferiva, sarebbe stata concepibile solo in quanto la sentenza del primo giudice fosse stata annullata senza bisogno di nuove prove. Il che può essere esatto, benché il passo non lo dica esplicitamente, ma non significa che in generale le nuove prove non potessero essere ammesse: la riforma di una sentenza di primo grado, infatti, non deriva necessariamente dall’utilizzo di nuovo materiale probatorio, ma può essere anche la conseguenza di una diversa valutazione delle risultanze istruttorie della prima fase o di una diversa interpretazione ed applicazione dei principi giuridici attinenti alla materia.
- Viceversa, sulla base di un passo di Ulpiano (D. 49.1.3.3)[34], nonché di altre considerazioni sulla libertà di valutazione delle prove da parte del giudice e sulla sua sempre più attiva partecipazione allo svolgimento del processo per la ricerca della verità, si è sostenuto che, per lo meno già all’epoca dei Severi, nessuna preclusione esistesse alla deduzione di nuovi argomenti difensivi e di nuove prove. In questa direzione cominciò a muoversi l’Orestano il quale riteneva che «l’appellante, non essendo tenuto a dichiarare nell’atto di appello i motivi dell’impugnazione, non rimanesse affatto legato a quelli che vi avesse eventualmente enunciati. Egli certo poteva avere interesse ad esporli, per ottenere più facilmente che la sua appellatio venisse recepta, tuttavia poteva in corso di giudizio mutarli e svolgere qualunque attività processuale che fosse utile al riconoscimento del suo diritto (persequi provocationem suam quibuscumque modis potuerit)» [35]. A tale opinione hanno aderito, più recentemente, il Litewski [36] e lo Scapini; secondo quest’ultimo, in particolare, il passo ulpianeo consentirebbe ai litiganti l’esercizio di «ogni più ampia attività defensionale, come nuove deduzioni o produzioni e opposizione di nuove eccezioni» [37].
- Anche il passo di Ulpiano non consente, però, una conclusione così netta. Il problema che il giurista affrontava era, in verità, tutt’altro, cioè quello della modificabilità dei motivi di impugnazione in corso di giudizio, che è la tesi a cui Ulpiano aderisce, riconoscendo all’appellante la facoltà di aliam causam provocationis reddere e di perseguire il fine dell’appello quibuscumque modis. È questa l’espressione che ha fatto ritenere che il giurista intendesse ammettere anche la possibilità di introdurre in appello nuovi e diversi mezzi di prova. Ma si deve convenire che essa non si presta ad una così univoca interpretazione: con il quibuscumque modis si potevano intendere tutti i mezzi argomentativi che il mutamento dei motivi di appello poteva comportare e non necessariamente la deduzione di nuove prove. L’appiglio è, insomma, troppo debole per consentire di attribuire ad Ulpiano un’affermazione così precisa.
- Va notato, inoltre, che la soluzione prospettata da Ulpiano è presentata come una sua opinione personale, con un puto tamen che lascia supporre l’esistenza di una opinione contraria che, evidentemente, i compilatori giustinianei hanno eliminato.
- L’opinione di Ulpiano, perciò, anche a voler ammettere il significato ad essa attribuito dall’Orestano e dagli altri studiosi, non rappresentava l’espressione di un principio pacifico e, tanto meno, normativamente accettato. Sarà solo nella Compilazione giustinianea che, eliminata ogni opinione contraria, essa assumerà tale significato. Si deve concludere, pertanto, che mancava un sicuro e preciso orientamento del pensiero giuridico e della prassi nell’età pre-dioclezianea. Probabilmente la decisione sull’ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello era lasciata alla discrezionalità del giudice ed alla singolarità del ca L’editto dei Tetrarchi è, perciò, la prima chiara ed esplicita attestazione normativa di tali principi.
- 3. Il successivo paragrafo 3 è dedicato ad un particolare aspetto del processo d’appello ed introduce una normativa che non sembra avere precedenti nella disciplina anteriore:
Super his vero, qui in capitalibus causis constituti appellaverint (quos tamen et ipsos vel qui pro his provocabunt non nisi audita omni causa atque discussa post sententiam dictam appellare conveniet), id observandum esse sancimus, ut inopia idonei fideiussoris retentis in custodia reis opiniones suas iudices exemplo appellatoribus edito ac refutatorios eorum ad scrinia quorum interest transmittant, quibus gestarum rerum fides manifesta relatione pandatur, ut meritis eorum consideratis pro fortuna singulorum sententia proferatur.
- Esso stabilisce, infatti, che nelle cause capitali il giudice, relativamente all’appello, debba formulare un’apposita opinio, della quale deve comunicare copia all’appellante; questi, a sua volta, può replicare all’opinio del giudice con i libelli refutatorii, dopodiché tutti gli atti del processo dovranno essere trasmessi, a cura dello stesso giudice, ad scrinia eorum quorum interest.
- Comincia a delinearsi, così, una specifica ed articolata disciplina del procedimento di appello, che troverà i suoi ulteriori sviluppi nella legislazione successiva, ma che nell’editto dioclezianeo sembra limitata ai processi capitali.
- Per il Litewski questa disposizione dell’editto sarebbe «der früheste Fall der Anwendung zu einem Appellationsverfahren der Normen, die consultatio ante sententiam betrafen» e darebbe luogo ad un procedimento che si sarebbe svolto avanti al tribunale imperiale in assenza della parti, sulla base dell’opinio del giudice a quo e delle conseguenti preces refutatoriae dell’appellante[38].
- Ma tutto questo non ha alcuna base nel testo considerato, poiché da esso non solo non si può ricavare che il procedimento si svolgesse avanti al tribunale imperiale sulla base degli atti, ed anzi l’espressione generica ad scrinia eorum quorum interest si riferisce chiaramente a qualsiasi giudice competente per l’appello, ma anche perché esso presupporrebbe l’avvenuta introduzione di un appello more consultationis già alla fine del III secolo[39].
- Incidentalmente, addirittura in forma parentetica, questa parte del provvedimento, consente, poi, di gettare lo sguardo su un altro importante aspetto del procedimento d’appello. Essa, infatti, dà per pacifica l’appellabilità delle sentenze in materia capitale, ma precisa anche che l’appello può essere proposto non nisi audita omni causa atque discussa post sententiam dictam: col che sembra escludere l’appellabilità delle pronunce non definitive.
- È sotto questo profilo che la norma è stata soprattutto considerata, quasi come il punto di arrivo di un processo svoltosi nell’età precedente[40]. In realtà, di tale processo si hanno, nelle fonti a noi note, solo tracce frammentarie e contraddittorie che non consentono di individuare un indirizzo preciso ed univoco, né, tantomeno, normativamente fissato, anche in considerazione della natura eminentemente casistica delle decisioni giurisprudenziali in materia. Per di più, nessuno dei passi o degli interventi imperiali, che si occupano dell’appellabilità delle sentenze non definitive, riguarda direttamente il processo penale [41]. Il passo di Modestino, solitamente richiamato al riguardo (D. 48.2.18) [42], prende, è vero, in esame una fattispecie complessa, nell’ambito della quale si configura anche l’ipotesi di un giudizio criminale di falso testamentario, ma il provvedimento interlocutorio della cui eventuale impugnabilità gli interpreti discutono, a prescindere dalla considerazione se essa sia in effetti desumibile dal testo in questione (il che non sembra), non è, comunque, un atto del processo criminale, che in realtà non è mai stato instaurato, bensì del procedimento civile de irrito testamento.
- Che le pronunce interlocutorie in processi capitali non fossero assoggettabili ad impugnazione separatamente dalla sentenza definitiva, si ricava, però, a mio avviso, dalla forma in cui il principio è enunciato nell’editto, non come oggetto della statuizione normativa – che riguarda le sole formalità procedurali che il giudice deve osservare in seguito alla proposizione dell’appello – ma come un obiter dictum, formulato addirittura in forma parentetica: il che dimostra che si trattava di un principio in certo modo pacifico, almeno per quanto atteneva ai giudizi capitali, ai quali solo la norma espressamente si riferisce[43].
- 4. Il paragrafo 4 dell’editto prende in esame il problema della temerarietà degli appelli e, partendo dal principio che non deve essere ammesso appellare temere ac passim, stabilisce che chi abbia coltivato una mala lis debba essere condannato ad una mediocris poena:
Ne temere autem ac passim provocandi omnibus facultas praeberetur, arbitramur eum, qui malam litem fuerit persecutus, mediocriter poenam a competenti iudice sustinere.
- Nell’economia dell’editto sembra evidente che questa sanzione venga applicata dal giudice dell’appello, come conseguenza della constatazione che questo è stato proposto temere ac passim e che la posizione dell’appellante è chiaramente infondata [44].
- Sul significato dei due termini usati nella costituzione, si può osservare che la linea di demarcazione fra i due concetti appare molto tenue. Temere si riferisce, infatti, ad un atto compiuto alla cieca, sconsideratamente, avventatamente[45]; passim, invece, a qualcosa che è compiuto senza ordine, confusamente [46]. Il primo termine indica, quindi, propriamente la temerarietà, il secondo la mancanza di chiarezza dei motivi; ma entrambi, in definitiva, stanno a significare l’evidente infondatezza, sotto i vari profili, dell’appello stesso.
- La costituzione non stabilisce in che cosa debba consistere la pena, la cui determinazione era evidentemente lasciata alla discrezionalità del giudice.
- 5. Il paragrafo 5 dell’editto si occupa dei termini per la dichiarazione della volontà di appellare, stabilendo che l’impugnazione deve essere proposta eodem die vel altero se l’appellante agisca in nome proprio oppure entro il terzo giorno si negotium tuetur alienum:
Sin autem in iudicio propriam causam quis fuerit persecutus atque superatus voluerit provocare, eodem die vel altero libellos appellatorios offerre debebit. Is vero, qui negotium tuetur alienum, supra dicta condicione etiam tertio die provocabit.
- Questi termini non rappresentano una novità, come risulta da tutta la precedente elaborazione giurisprudenziale che, perlomeno in età Severiana[47], li aveva ormai fissati in maniera precisa [48]. Se una novità c’è, e non certo positiva, è nella mancanza di uno specifico richiamo alla distinzione fra appello orale ed appello scritto. L’editto, infatti, prospetta la possibilità di appellare eodem die vel altero, se l’appellante agisca in nome proprio e parla, per entrambe le ipotesi, della necessità di libellos appellatorios offerre. Sembra ignorare, quindi, che eodem die si poteva appellare anche oralmente.
- Si tratta di una voluta omissione della possibilità di appello orale?
- Questa sembrava essere l’opinione dell’Orestano, il quale scriveva che la disposizione dell’editto testimonierebbe la decadenza dell’appello orale dopo l’età dei Severi[49].
- E che comunque potesse nascere il dubbio circa la possibilità del ricorso all’appello orale potrebbe ricavarsi anche da una successiva costituzione di Costantino, che, espressamente, ne riaffermava la possibilità (c. 7 C.Th. XI.30)[50].
- 6. Il paragrafo 6, che chiude il frammento dell’editto relativo all’appello, contiene due importanti novità:
Apostolos post interpositam provocationem etiam non petente appellatore sine aliqua dilatione iudicem dare oportet, cautione videlicet de exercenda provocatione in posterum minime praebenda.
- La prima riguarda la formalità delle litterae dimissoriae o apostoli, che il giudice a quo doveva indirizzare al giudice ad quem per investirlo dell’impugnazione[51].
- Dai pur scarsi elementi conservati nelle fonti giustinianee risulta che la richiesta delle litterae era, fino a Diocleziano, onere dell’appellante e doveva essere effettuata entro un termine stabilito. Lo attesta implicitamente Marciano (D. 49.6.1), quando precisa che basta che la richiesta sia stata proposta intra tempus instanter et saepius e che l’eventuale mancato rilascio sia formalmente contestato dall’appellante ed aggiunge: nam instantiam petentis dimissorias constitutiones Aequum est igitur, si per eum steterit, qui debebat dare litteras, quo minus det, ne hoc accipienti (rectius: appellanti) noceat. L’onere della richiesta delle litterae era stato imposto, dunque, da costituzioni imperiali. Il loro rilascio era compito del giudice e l’omissione dell’attività dell’ufficio non poteva nuocere alla parte, purché questa avesse formulato la domanda intra tempus ed eventualmente reiterata instanter et saepius, nonché contestato il mancato rilascio. Queste cautele dovevano essere state precisate, probabilmente, dall’interpretazione giurisprudenziale e dalla prassi.
- Marciano non indica quale fosse il tempus entro cui le litterae andavano richieste. Lo indica uno dei frammenti del Paolo visigotico (V.34.1)[52], nel quale si legge che postulatio et acceptio intra quintum diem ex officio facienda est.
- La formulazione del passo è, come si vede, molto approssimativa: un unico termine è indicato per due attività, la prima delle quali è propria della parte, la seconda dipende dalla diligenza dell’ufficio ed il passo non precisa, come ben faceva Marciano, che se la parte ha adempiuto nel termine stabilito al proprio onere, non può nuocerle l’eventuale inattività dell’ufficio. Ancora più improprio è il seguito del testo; nel quale si afferma addirittura che: «Qui intra tempora praestituta dimissorias non postulaverit vel acceperit vel reddiderit, praescriptione ab agendo submovetur et poenam appellationis inferre cogetur». Se i tempora praestituta sono ancora i cinque giorni prima indicati, non si vede come sarebbe stato possibile all’appellante non solo postulare ed accipere le litterae, ovviando, non si sa come, all’eventuale inerzia dell’ufficio, ma addirittura reddidere le stesse al giudice ad quem.
- A prescindere da queste aporie, che vanno senza dubbio addebitate al poco accurato redattore delle Sententiae, il passo testimonia, comunque, anch’esso un regime che attribuiva all’appellante l’onere della richiesta delle litterae e gli assegnava un termine, probabilmente quello di cinque giorni, che nell’imprecisa formulazione del compilatore è divenuto un termine cumulativo per la postulatio, l’acceptio e la redditio del documento.
- L’editto dioclezianeo innova radicalmente su questo regime, stabilendo che il giudice debba emettere gli apostoli post interpositam provocationem etiam non petente appellatore sine aliqua dilatione. Il rilascio delle litterae dimissoriae diviene, dunque, interamente compito dell’ufficio e non è sottoposto più ad un termine dilatorio.
- L’editto non parla della successiva trasmissione degli atti al giudice superiore. Che questo rimanesse compito della parte, si evince da un rescritto degli stessi imperatori Diocleziano e Massimiano (C.I. VII.62.5)[53], riportato nel Codice purtroppo senza data, ma che, essendo inserito immediatamente prima dell’editto del 294, si deve ritenere a questo pressoché contemporaneo. Con esso la cancelleria imperiale risolveva affermativamente il dubbio sottopostole dal postulante circa l’accoglibilità di un appello nel caso in cui la mancata consegna al giudice ad quem degli apostoli fosse dipesa non vitio neglegentiae dell’appellante, ma ex fatalis casus necessitate, nella specie la morte della persona incaricata della trasmissione.
- La seconda novità di questa parte dell’editto consiste nell’abolizione delle cautiones.
- Sull’uso di queste cautiones nel diritto vigente in precedenza siamo assai poco informati[54]: la loro abolizione ed il diverso sistema di sanzioni a carico dell’appellante temerario, già adombrato, come si è visto sopra, nello stesso editto dioclezianeo e che si svilupperà ulteriormente nella legislazione più tarda, ne hanno fatto scomparire quasi ogni traccia dalla Compilazione giustinianea. Ne è rimasto cenno solo in un passo di Papiniano in tema di petitio fideicommissi, che richiama in proposito un rescritto di Marco Aurelio (D. 36.3.5.1). Questi aveva disposto che eum a quo res fideicommissae petebantur, cum appellasset, cavere vel, si caveat adversarius, ad adversarium transferri possessionem debere. Ma più che di una specifica cautio de excercenda provocatione, si trattava, qui, di applicare anche nel giudizio di appello la cautio fideicommissi. Il passo continua, infatti, rilevando: Recte placuit principi post provocationem quoque fideicommissi cautionem interponi: quod enim ante sententiam, si petitionis dies moraretur, fieri debuit, amitti post victoriam dilata petitione non oportuit.
- Un’ampia illustrazione dell’argomento si trova, invece, nelle Sententiae di Paolo (V.33.1-8)[55], nelle quali si precisa che le cauzioni costituivano la garanzia del pagamento della poena appellationis e se ne illustra il regime, indicando in cinque giorni, decorrenti dal rilascio delle litterae dimissoriae, il termine entro cui queste dovevano essere prestate. Ma si prevede, altresì, che, in luogo della cauzione, possa essere effettuato – ne quis in captionem verborum in cavendo incidat – il deposito della somma a titolo di penale. Si specifica, inoltre, che possono essere dati uno o più fideiussori, che se più siano gli appellanti sia sufficiente un’unica cautio, mentre se si appella da più statuizioni, singulae cautiones exigendae sunt e altri particolari [56].
- Il brano delle Sententiae pone all’interprete seri problemi. Infatti, se si dovesse considerare il passo paolino desunto da un’opera genuina del giurista severiano[57], ci troveremmo di fronte ad una disposizione che non risulta avere sicuri riscontri in fonti dell’epoca e che non si vede da quale statuizione normativa deriverebbe. Ma anche se il passo va attribuito al più tardo redattore delle Sententiae, il problema resta ed in certo senso si aggrava. Poiché l’epoca della redazione dell’opera si colloca generalmente proprio in età dioclezianea, come spiegare l’evidente contrasto del passo, che prevede l’imposizione delle cautiones e ne regola minuziosamente la disciplina, con il paragrafo in esame dell’editto dei Tetrarchi, che tali cauzioni espressamente abolisce? Che se poi si volesse pensare che il passo delle Sententiae non provenga dalla prima redazione, ma debba attribuirsi ad uno strato successivo di elaborazione dell’opera, il problema resta comunque, perché in nessuna parte della legislazione successiva si incontra una disposizione relativa all’imposizione di una cautio de exsercenda provocatione e poiché, in ogni caso, non si comprenderebbe la ragione per cui il suo redattore non abbia provveduto ad adattarne il contenuto al tenore dell’editto dei Tetrarchi.
- L’Orestano, sottolineando tale contrasto, ipotizzava di risolvere il problema o col supporre una permanenza nella prassi postclassica del regime più antico o con l’attribuire la frase finale della costituzione dioclezianea ad un’interpolazione giustinianea[58]. Al contrario, Giglio ritiene che il differente regime delle cauzioni nell’editto dei Tetrarchi e nelle Sentenze di Paolo costituisca «un importante elemento per pensare che la redazione di quest’opera risalga ad un periodo anteriore all’emanazione di C.I. VII.62.6 e, presumibilmente, anche al regno di Diocleziano» [59].
- Entrambe queste ipotesi, però, lasciano ampio margine a dubbi, prive come sono di qualunque riscontro testuale, e il problema rimane, in realtà, senza una soluzione sicura. Comunque sia di ciò, non vi è dubbio che Diocleziano, abolendo l’imposizione di cautiones da parte del giudice a quo, veniva così a facilitare la proposizione dell’appello[60].Dei titoli che il Codice Teodosiano dedica all’argomento [61], due risultano particolarmente ampi: l’11, 30, De appellationibus et poenis earum et consultationibus, costituito da sessantotto provvedimenti che regolano l’assetto positivo dell’appellatio e l’11, 36 Quorum appellationes non recipiantur, le cui trentatré costituzioni disciplinano le ipotesi di inammissibilità del gravame.
- Ma un esame analitico di questi due titoli, e specialmente del primo, mostra che alla dovizia quantitativa non corrisponde un’organica e completa disciplina dell’istituto.
- Il titolo 11, 30 del Teodosiano raggruppa provvedimenti eterogenei, unendo, come indica la sua stessa rubrica, la materia dell’appello con la procedura della consultatio[62] ed anche con misure relative ad impugnazioni che si possono considerare, nella sostanza, di natura amministrativa, contro le nomine ad uffici o cariche pubbliche. Le costituzioni riguardanti propriamente l’appello sono poi dedicate soprattutto a reprimere un fenomeno che doveva essere molto diffuso, a giudicare dall’attenzione dedicatagli dal legislatore: il fenomeno, cioè, della renitenza dei giudici inferiori ad ammettere gli appelli ed a fare seguire loro il debito corso. Manca, in definitiva, una vera ed organica disciplina del procedimento e, in particolare, l’indicazione dei termini per proporre l’impugnazione. Infatti, il titolo si apre con una costituzione di Costantino [63] che fissa termini molto precisi per la comunicazione alle parti di atti del processo e per l’eventuale presentazione di scritti refutatorii; ma si tratta della procedura di consultatio, non di appello. Di termini per la presentazione di un’impugnazione si occupa un’altra costituzione di Costantino (la c. 10 t.): ma anche questa non riguarda l’appello, bensì la provocatio contro un provvedimento di nomina a cariche municipali o nomine pubbliche in genere [64]. Ed anche in quelle costituzioni in cui si accenna a termini processuali, essi sono riferiti ai tempi richiesti per la trasmissione degli atti al giudice superiore, quali, ad esempio, le cc. 29 e 30 di Giuliano [65].
- In conclusione, la disciplina dell’appello, in quasi tutti gli aspetti più rilevanti resta affidata, per tutta l’età postclassica, ad un editto dell’anno 294[66], che viene conservato nel Codice Giustinianeo, smembrato in vari frammenti [67], che ancora nel sistema della Compilazione è quello che regola sostanzialmente la materia [68]. È esso che indica i termini entro i quali l’appellante doveva offerre i libelli appellationis, fissati nello stesso giorno dell’emanazione della sentenza o in quello successivo qualora l’appellante fosse parte in giudizio proprio nomine; o, nel caso in cui patrocinasse alieno nomine un affare altrui, entro il terzo giorno dalla decisione [69]. E questi termini così rigorosi resteranno in vigore fino al 536, quando, con la Novella 23, Giustiniano, lamentando la acerbitas delle anteriores leges ed il rischio che i termini, rispettivamente di due o tre giorni, potessero nuocere, a motivo della loro brevità, agli interessi degli appellanti [70], stabilisce che il gravame possa essere interposto intra decem dierum spatium a recitatione sententiae [71].
- Ma oltre, e ben più, che per la determinazione dei termini per il gravame, l’editto dioclezianeo è di fondamentale importanza per altri aspetti della disciplina dell’istituto.
- Vi si trova sancito il principio dell’effetto devolutivo dell’appello, per cui eos, qui de appellationibus cognoscent ac iudicabunt, non debbono né possono rimettere la causa al primo giudice, sed omnem causam propria sententia determinare conveniat[72]. Vi si trova affermata l’ammissibilità del ius novorum, dell’introduzione di allegazioni omesse nel giudizio di primo grado, perché possa pienamente attuarsi nel processo la iustitia che costituisce, afferma l’imperatore, il votum del suo governo [73]. Viene altresì considerata la facoltà delle parti di richiedere, anche post interpositam appellationem, nuove prove testimoniali che fossero state omesse in primo grado, con l’unica condizione che sia la parte richiedente a sopportare le spese di viaggio dei testimoni [74]. Sebbene in modo generico, senza determinarne l’ammontare, viene pure sancita l’irrogazione di una mediocris poena per coloro che abbiano proposto temerariamente l’appello, ne temere autem ac passim provocandi omnibus facultas praeberetur [75].
- Per tutti questi aspetti la costituzione dioclezianea resta, dunque, la base della legislazione in tema di appello[76].
I successivi interventi imperiali conservati nelle raccolte ufficiali, oltre che regolare la procedura della consultatio (e di essi qui ci occupiamo solo nei limiti in cui i due istituti interferiscono tra loro), concernono, come già detto, soprattutto due aspetti del processo d’appello: la renitenza dei giudici minori, a carico dei quali venivano previste severe sanzioni [77], e la disciplina delle ipotesi di inappellabilità [78].
- Su questo duplice piano comincia a muoversi già Costantino con una costituzione del 314 (C.Th. 11, 30, 2) che denuncia una situazione veramente paradossale: l’appellante, una volta presentati i libelli appellatorii in civili negotio, veniva addirittura sottoposto ad ogni sorta di soprusi, aut carceris cruciatus aut cuiuslibet iniuriae genus seu tormenta vel etiam contumelias. Ed è contro questi eccessi che l’imperatore interviene, dichiarandone l’illiceità ed affermando che gli appelli vanno ricevuti, con l’avvertenza che non si tratti di appelli a praeiudicio aut etiam ante causam examinatam et determinatam sed universo negotio peremptoria praescribtione finito[79]. Vengono così fissati due criteri fondamentali, che rimarranno alla base della legislazione successiva: la piena liceità dell’appello, ma l’esclusione di esso contro i praeiudicia e le sentenze non definitive.
- Il testo del provvedimento riportato nel Codice Teodosiano e riprodotto, con lievi aggiunte sulle quali non è il caso di soffermarsi, anche nel Codice Giustinianeo[80], è indirizzato a Catullino [81], all’epoca governatore della Bizacena, ed è stato ricevuto ad Adrumeto. Ciò non significa, peraltro, che le norme in esso contenute, che andavano al di là della parte a noi tramandata [82], come è provato dal post alia e dall’et cetera che aprono e chiudono il testo, si riferiscano solo alla provincia africana. Trattandosi di principi generali, è presumibile che essi fossero enunciati per tutti i territori dell’Impero, quelli all’epoca governati da Costantino, e che i compilatori del Teodosiano abbiano utilizzato un testo rinvenuto negli archivi africani, che non indicava la data ed il luogo di pubblicazione, ma solo quello in cui era stato acceptum [83]. Non si può escludere, tuttavia, che il fenomeno della renitenza dei giudici ad accettare gli appelli contro le proprie sentenze fosse particolarmente accentuato in Africa e che gli eccessi denunciati nel provvedimento del 314 si fossero verificati proprio in quella provincia. Un indizio in questo senso è offerto dalla successiva costituzione 15 t. dello stesso Costantino [84], indirizzata al concilium provinciae Africae e di cui i compilatori teodosiani hanno pure utilizzato un esemplare pubblicato a Cartagine il 29 luglio 329. Anche in questo provvedimento si ribadisce che non recte iudices iniuriam sibi fieri existimant, si litigator a principali causa provocaverit e si prescrive ne appellatores vel in carcerem redigant vel a militibus faciant custodiri, mostrando che la situazione non era molto migliorata rispetto a quella di quindici anni prima.
- Né doveva essersi molto modificata in seguito, se nel 343 Costanzo e Costante dovevano ancora intervenire ammonendo i governatori provinciali, naturali giudici di primo grado, ut … iuxta morem ordinemque legum accipiant libellos … nec appellantes iniuriarum adflictatione deterritos a suffragio necessariae defensionis expellant. A questo punto, la reazione normativa si faceva più rigorosa: non bastando più gli ammonimenti, gli imperatori stabilivano una multa di dieci libbre d’oro per il giudice qui suscipere neglexerit e di quindici libbre per il suo officium[85]. Neppure questa misura dovette dimostrarsi sufficiente, visto che di nuovo nel 355 Costanzo, rimasto ormai solo alla testa dell’Impero dopo l’uccisione del fratello, ripetendo che iudices ordinarii provocationes aestimant respuendas, elevava la multa a trenta libbre d’oro sia per il giudice sia per il suo officium [86].
- Dieci anni più tardi, Valentiniano e Valente dovevano ritornare sul tema[87]. Il Codice Teodosiano conserva due loro costituzioni in materia: la c. 32 e la
33 h.t., la prima delle quali, indirizzata all’ordo civitatis Karthaginis, sarebbe stata emanata a Milano il 4 febbraio 364 [88]; la seconda, indirizzata al vicarius Africae Draconzio il 12 settembre 364, ad Aquileia [89]. - Come ho avuto modo di mettere in luce nella ricostruzione dell’attività normativa dei due imperatori[90], la data attribuita alla prima costituzione è sicuramente errata, dato che nel febbraio 364 né Valentiniano né Valente erano ancora al potere e nessuno di essi poteva trovarsi a Milano. La costituzione va riportata, pertanto, al febbraio 365, quando Valentiniano aveva raggiunto effettivamente Milano, ed è, quindi, successiva a quella del 12 settembre 364, emanata da Valentiniano ad Aquileia, dove si trovava durante il viaggio dall’Oriente all’Italia, e dai compilatori teodosiani erroneamente posposta all’altra [91].
- Conviene soffermarsi brevemente sulle due costituzioni per chiarirne la portata ed i rapporti.
- Preliminarmente deve essere evidenziata la destinazione dei due testi, indirizzati entrambi – come i precedenti interventi di Costantino – al territorio africano, a conferma che il fenomeno della renitenza dei giudici minori nell’accogliere o nell’inoltrare il gravame avverso una loro sentenza doveva essere, in quei territori, particolarmente accentuato. Prova ne sia la capillare diffusione dei provvedimenti imperiali, come risulta dalla località in cui la c. 33 sarebbe stata accepta: Tacapis, l’odierna Gabes, città periferica situata nella zona meridionale della diocesi.
- Ma il contenuto del provvedimento induce a qualche ulteriore riflessione: la c. 33, infatti, prevede che il giudice a quo, che adversus auctoritatem legis appellationes neglexerit, fosse punito con una multa di venti libbre d’oro, mentre al suo ufficio dovesse essere irrogata la più grave sanzione di trenta libbre (come già fissata nella precedente c. 25 t. di Costanzo), da destinare non più alla cassa del rationalis ma all’ufficio del vicarius Africae[92].
- Tale disposizione, che ribadisce uno dei principi fondamentali del processo d’appello nel Basso Impero, consente, da un lato, di escludere che la costituzione avesse esclusivamente tale destinazione particolare e di ipotizzare, dall’altro, che essa, verosimilmente emanata in più esemplari, fosse stata diramata in tutta la provincia d’Africa.
- Valore e contenuto diverso assume, invece, la c. 32, riportata in forma di missiva all’ordo civitatis Karhaginis.
- Essa è priva di un autonomo valore normativo e, sebbene inviti genericamente i giudici di primo grado ad accogliere i reclami contro le proprie sentenze (Iudicibus … appellationis suscipiendae necessitas inposita), tratta, in sostanza, delle regole procedurali e dei termini entro i quali i giudici minori, ricevuto l’appello da parte del soccombente, erano tenuti a predisporre ed a consegnare, ad mansuetudinis nostrae scrinia e nel termine di trenta giorni[93], tutto quanto riguardasse gli estremi della controversia (merita negotii), pena la sottoposizione ad una sanzione pecuniaria – qui non specificata nel suo ammontare – da irrogare nei confronti sia del giudice che dell’ufficio (iudice et officio, si statuta fuerint aliqua parte mutilata, multae subiacente).
- Sebbene il testo intenda esporre l’esistenza di un indirizzo normativo, richiamando espressamente gli statuta in materia, non si rinvengono nel codice precedenti interventi di Valentiniano e Valente, mentre qualche notizia in merito può rintracciarsi nelle cc. 1[94] e 8 [95] di Costantino e nelle cc. 29 [96] e 30 [97] di Giuliano, che fissano – rispettivamente – in 10 o 20 giorni ed in 30 giorni i termini per la consegna del materiale processuale al tribunale superiore.
- Di tali formalità si occupa anche un’altra costituzione, la 35 t., destinata al prefetto del pretorio d’Oriente Modesto[98].
- A tacere dell’importanza del provvedimento, che dimostra, una volta ancora, la ricezione in Oriente di un indirizzo normativo elaborato nella cancelleria occidentale, esso, utilizzando una terminologia analoga a quella della c. 24 CI. 7, 62, specifica in modo analitico il contenuto del materiale (gesta) da trasmettere alla delibazione del giudice superiore, che deve comprendere tutti i documenti e gli atti processuali (instrumenta et acta) già sottoposti all’indagine del giudice minore, comprese le risultanze dell’attività istruttoria esperita, quali le dichiarazioni dei testimoni e le confessioni delle parti (testimonia vel confessiones partium)[99]. Poiché il provvedimento si riferisce espressamente alla consultatio, si ha la prova testuale che, per molti aspetti, il complesso delle regole di trasmissione degli atti dal giudice minore a quello superiore, sia esso il naturale giudice ad quem o direttamente l’imperatore, abbia comune efficacia sia per l’appellatio che per la consultatio, rimedi spesso trattati unitariamente nelle costituzioni imperiali [100].
- La circostanza, del resto, sembra armonizzare sia con gli intendimenti dei compilatori che, sensibili al principio del doppio grado di giurisdizione, hanno raccolto sotto un unico titolo la disciplina dell’appellatio e quella della consultatio, sia con criteri di logica e di economia processuale che consigliavano, in entrambe le ipotesi ed al fine di garantire un’equa e corretta delibazione, di porre il giudice ad quem nella condizione di conoscere puntualmente gli estremi della controversia già istruita in primo grado ed ora sottoposta al suo esame.
- Anche gli imperatori successivi a Valentiniano e Valente furono costretti ad affrontare il grave problema della renitenza dei giudici minori ad accogliere gli appelli contro le proprie sentenze.
- Già nel 380, Graziano, in un breve frammento[101] indirizzato al prefetto del pretorio Siagrio [102], ribadiva l’ammissibilità dell’appello contro ogni sentenza di condanna, diversamente dalla corrispondente versione giustinianea (CI. 7, 62, 25), che circoscriveva la fattispecie a quelle che irrogavano una multa [103].
- Analogo contenuto riveste la successiva c. 51 t. di Teodosio, Arcadio ed Onorio del 393[104]: essa è indirizzata ad Apodemio, prefetto del pretorio dell’Illirico, e risulta emanata a Costantinopoli. Anche in questa ipotesi, i dati ricavabili dalla lettura della inscriptio, che reca un destinatario occidentale, e della subscriptio, che indica nella capitale d’Oriente la località di emanazione della costituzione, sono incompatibili.
- Due appaiono le possibili soluzioni: Costantinopoli deve intendersi quale località di pubblicazione, ipotizzandosi un errore nella subscriptio tra l’indicazione della sigla di emanazione () e quella di pubblicazione (pp.); oppure deve ritenersi esatta la provenienza del testo, emesso in Oriente, che – per l’importanza del suo contenuto – deve essere stato diramato a tutti i prefetti del pretorio, compreso quello dell’Illirico, la cui versione i compilatori avrebbero casualmente conservato nel Codice.
- È questa l’ipotesi più probabile, data la ben nota prevalenza nel governo di Teodosio sui suoi due figli.
- Il testo, che conferma i rapporti tra le due partes Imperii a livello normativo, sancisce, fra l’altro, un inasprimento delle sanzioni, ora fissate in trenta libbre d’oro per il giudice e in cinquanta libbre d’oro per l’ufficio che avessero rifiutato l’accoglimento e l’inoltro di un atto di appello.
- La gravità della situazione e l’inosservanza delle precedenti misure indussero anche Arcadio ed Onorio ad intervenire sul tema: la c. 60 t.[105], indirizzata al proconsole d’Africa Pompeiano, ribadisce, infatti, i principi e l’autorità delle precedenti disposizioni (statuta veterum) sia in ordine alla generale ammissibilità di un gravame ab iniusta sententia, sia in ordine all’irrogazione di una pena – per il giudice e per l’ufficio – in caso di loro violazione.
- L’altro settore rispetto al quale i legislatori postclassici si mostrarono particolarmente sensibili – sia per alleggerire il lavoro dei magistrati superiori, sia per evitare le eccessive lungaggini del procedimento causate dalla proposizione di appelli a scopo dilatorio[106] – fu, come si è detto, quello della disciplina minuziosa delle varie ipotesi di inappellabilità delle sentenze di primo grado.
- L’editto dioclezianeo sancisce solo incidentalmente il principio del divieto di appello a proposito delle sentenze non definitive (post sententiam dictam appellare conveniet), trattando dei giudizi capitali (in capitalibus causis), in ordine ai quali, interposto gravame, la custodia del reo era mantenuta solo per inopia idonei fideiussoris[107]. La mancanza di una compiuta disciplina di tale importante settore del processo nella costituzione di Diocleziano del 294 contrasta con il ricco materiale normativo contenuto nel Codice Teodosiano, che all’argomento dedica infatti un apposito titolo, l’11, 36, Quorum appellationes non recipiantur. Già nella costituzione di apertura, Costantino ribadisce il principio, già affermato nella c. 1 C.Th. 11, 36, dell’inappellabilità a praeiudicio e ab articulis [108].
- L’inosservanza di tali divieti comportava l’irrogazione, a carico dell’appellante, di una sanzione nella misura di trenta folli, fissata nelle successive costituzioni 2 e 3 dello stesso Costantino.
- La misura della pena non dovette rivelarsi idonea a scoraggiare la interposizione di appelli vietati se Costanzo, in una costituzione del 341[109], sentì l’esigenza di elevarla, almeno nell’ipotesi di appello a praeiudicio, a trenta libbre d’argento.
- Minuziosa e dettagliata risulta, in questo settore, la produzione normativa di Valentiniano e Valente[110], rivolta, da un lato, ad ampliare i casi di inappellabilità delle sentenze e, dall’altro, ad un ulteriore inasprimento delle sanzioni. Fra i vari interventi legislativi, particolarmente significativa risulta la c. 16 C.Th. 11, 36, che sancisce, oltre al divieto dell’appello a praeiudicio, l’inammissibilità di quello ab exsecutione [111].
- Tale divieto, più volte sancito nella legislazione tardo antica, aveva quale presupposto logico e cronologico l’avvenuto passaggio in giudicato di una sentenza di primo grado ed era rivolto ad evitare che si eludessero gli effetti di una decisione che, non impugnata nei termini di legge, aveva acquistato il carattere della definitività[112].
- La costituzione 16 in esame, emanata in exordio imperii, prevedeva pure l’elevazione della pena pecuniaria nella misura di cinquanta libbre d’argento, da destinare alle casse del fisco, che veniva irrogata non solo all’appellante, ma, per la prima volta in tale ipotesi, anche nei confronti dell’ufficio, qualora non avesse rifiutato l’inoltro di un appello inammissibile (quod non renuntiarit). E anche il giudice che avesse permesso di coltivare una lite radicata in forza di un’impugnazione non consentita incorreva in una responsabilità personale, assimilata ai casi di litem suam facere.
- Al pari della precedente ipotesi di sanzioni irrogate nei confronti di giudici renitenti ad accogliere l’appello, anche per il divieto di impugnazione a praeiudicio o ab exsecutione, Valentiniano e Valente intesero comunicare tale rigido indirizzo normativo all’ordo civitatis Karthaginis[113]. Il testo, sebbene collocato dai compilatori prima della già esaminata c. 16, deve, in realtà, ascriversi ad un momento cronologicamente successivo e, in particolare, al febbraio 365 [114]: prova ne sia l’uso del verbo al passato (decrevimus) con cui gli imperatori, nel diramare il testo al territorio africano, presuppongono come già avvenuta l’emanazione del provvedimento di carattere generale.
- La comunicazione conferma l’esistenza di una normativa che, sancita la generale ammissibilità dell’appello, vieta l’impugnazione contro le sentenze a praeiudicio e ab exsecutione, pena la sottoposizione dell’appellante ad una multa di cinquanta libbre d’argento.
- Contenuto precettivo autonomo sembra assumere, invece, la c. 18 t.[115]: l’anno consolare indicato nella subscriptio è quello del primo consolato di Valentiniano e Valente, il 365, ma la costituzione non può essere stata emanata a Milano nel dicembre di quell’anno, poiché Valentiniano si trovava, già dall’autunno, a Parigi e Simmaco, destinatario del provvedimento, non era più praefectus urbi.
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- Rinviando a quanto scritto nella ricostruzione dell’attività normativa dei due imperatori per la risoluzione dei problemi palingenetici[116], interessa qui sottolineare come il complesso provvedimento sia il primo, fra quelli a noi noti, che stabilisce espressamente il divieto generale di impugnazione delle sentenze non definitive (Nullum audiri provocantem ante definitivam sententiam volumus)[117].
- Una vicenda particolare offre nuovamente ai sovrani l’occasione di occuparsi del divieto di appello con l’emanazione di c. 20 C.Th. 11, 36, di difficile interpretazione ed oggetto di disputa dottrinale in ordine al suo contenuto[118]:
Imppp. Val(entini)anvs, Valens et Gratianvs AAA. ad Clavdivm P(raefectvm) V(rbi). Quoniam Chronopius ex antistite idem fuit in tuo, qui fuerat in septuaginta episcoporum ante, iudicio et eam sententiam provocatione suspendit, a qua non oportuit provocare, argentariam multam, quam huiusmodi facto sanctio generalis inponit, cogatur expendere. Hoc autem non fisco nostro volumus accedere, sed his qui indigent fideliter erogari. Quod in hac causa et in ceteris ecclesiasticis fiat. Dat. VIII Id. Ivl. Val(entini)ano N.P. et Victore V. C. Conss.
- Essa, che configura, tra l’altro, un interessante esempio dei rapporti intercorrenti fra la giurisdizione civile e quella ecclesiastica, risulta indirizzata al praefectus urbi Poiché questi, però, rivestì la carica solo nell’anno 374, il destinatario deve verosimilmente identificarsi in quel Petronius Claudius che fu proconsole d’Africa dal 368 al 370[119].
- Per quanto interessa la presente nota, la comunicazione prevede l’irrogazione di una multa argentaria[120] quale sanctio generalis per il clericus che avesse interposto appello contro una sentenza a qua non oportuit provocare. Tale circostanza ha indotto la dottrina a considerare l’ipotesi in esame quale esempio del divieto di impugnare i singoli atti esecutivi (ab exsecutione) [121].
- Invero, la lettura del testo non sembra autorizzare tale conclusione. L’inappellabilità parrebbe derivare, piuttosto, dall’intrinseco valore di una sentenza emessa dal proconsul Africae Petronio Claudio che, in tale veste, poteva avere giudicato il caso del vescovo Cronopio vice sacra, e, quindi, con pronuncia inappellabile (a qua non oportuit provocare)[122].
- È interessante notare che i compilatori giustinianei[123], nel recepire il provvedimento originario, ne hanno completamente modificato la portata, eliminando ogni riferimento al caso particolare [124] e facendone un divieto di appello ante definitivam sententiam [125].
- Reiterati, successivi interventi ribadirono tali divieti, anche a motivo della loro inosservanza, confermando le sanzioni che, in tale identica misura, dapprima Valente (c. 25 del 378)[126] e poi Graziano (c. 30 del 385) [127] intesero irrogare a carico di coloro che avessero interposto gravame a praeiudicio o ab exsecutione.
- Anche per un’altra categoria di sentenze e, in particolare, per le decisioni che coinvolgevano la utilitas publica[128] o il publicum commodum [129] i legislatori postclassici sancirono la regola dell’inappellabilità. Nella normativa tardo-antica, infatti, non era ammessa la proposizione di un gravame da parte di coloro che fossero stati condannati ad una prestazione, in denaro o in natura, a favore dello Stato e ciò, evidentemente, anche a motivo dell’intrinseco valore di tali decisioni, che contribuivano a soddisfare il fabbisogno finanziario dell’Impero.
- Si spiegano così le numerose costituzioni, raccolte nei Codici, rivolte alla disciplina minuziosa di tali fattispecie: Costanzo, per primo, con la c. 6 del titolo 11, 36[130] vietò la proposizione dell’appello nelle cause fiscali (in fiscalibus), perché in contrasto con la utilitas fisci o in quelle che avessero coinvolto quel settore importante dell’amministrazione finanziaria conosciuto come la res privata principis (in rei privatae causis)[131].
- Analogo contenuto è ribadito nelle successive cc. 8[132] e 9[133]: l’una è dedicata esclusivamente all’inappellabilità dei debiti a favore del fisco; l’altra è rivolta a vietare l’interposizione di un gravame da parte dei debitores rei privatae nostrae.
- Evidentemente tali divieti non riuscirono a raggiungere lo scopo che Costanzo si era prefissato, poiché l’imperatore fu costretto ad imporre, con la c. 10 t.[134], una sanzione di cinquanta libbre d’argento nei confronti del giudice che avesse accolto una provocatio frustratoria contra commodum fisci ed in seguito, con la c. 13 h.t.[135], dovette irrogare, anche a carico dell’ufficio che avesse consentito l’inoltro di un appello contro un debito fiscale, la più grave sanzione di trenta libbre d’oro.
- Un minuzioso riesame dell’intero settore sarà effettuato, qualche anno più tardi, da Valentiniano e Valente[136], imperatori sensibili ai problemi finanziari dell’Impero, che sarebbero divenuti particolarmente pressanti dopo la sconfitta di Giuliano[137].
- Fin dalla fase di comune governo, infatti, i due Augusti, con la c. 18 t.[138], ribadirono solennemente il divieto di appello (omnia prava repugnantium … intentio) contro le sentenze di condanna nelle cause fiscali (in fiscalibus), cui equipararono – almeno sotto il profilo procedurale – quelle aventi ad oggetto i debiti manifesti (in debitis manifestis).
- Sebbene l’esatta individuazione di tale seconda categoria di sentenze non appaia agevole e la dottrina – sin dal Gotofredo – non abbia affrontato, ex professo, il problema[139], una certa luce può venire dalla lettura della stessa costituzione, in quanto la categoria dei debiti manifesti è posta accanto, oltre che ai debiti fiscali, ai crimini confessati[140], per i quali è pure prevista l’inappellabilità. Non può escludersi che l’effetto della confessione abbia efficacia analoga anche nei giudizi civili in cui l’ammissione del convenuto, rendendo certo il debito, sarebbe d’ostacolo al gravame contro la sentenza che lo riconosce proprio su quella base [141]. Risponde, infatti, ad un identico principio logico, oltre che ad un criterio di economia processuale, evitare – nelle ipotesi di riconoscimento da parte del convenuto o dell’imputato del proprio inadempimento – che la controversia, pacifica per lo stesso condannato, sia sottoposta al riesame di un giudice di seconda istanza [142].
- In un successivo intervento, la c. 19 t., Valentiniano amplierà le ipotesi per le quali era prevista l’inappellabilità delle sentenze:
Imppp. Val(entini)anvs, Valens et Gr(ati)anvs AAA. ad Olybrivm P(raefectvm) V(rbi). Abstinendum prorsus appellatione sancimus, quotiens fiscalis calculi satisfactio postulatur aut tributariae functionis sollemne munus exposcitur aut publici vel etiam privati, dummodo evidentis atque convicti, redhibitio debiti flagitatur, ut necessario in contumacem vigor iudiciarius excitetur. P(ro)p(osita) Rom(ae) XV kal. Sept. Val(entini)ano et Valente II AA. Conss.
- La costituzione, indirizzata al praefectus urbi Olibrio e proposita a Roma il 18 agosto 368, conferma, innanzitutto, il divieto di impugnazione delle decisioni che abbiano per oggetto debiti di natura fiscale o tributaria[143], cui vengono equiparati i debiti publici e privati, a condizione che questi ultimi siano evidentes atque convicti[144].
- Sulla nozione di debiti pubblici e privati, in quanto distinti da quelli di natura fiscale, manca pure una chiara ed uniforme indicazione. Il Gotofredo ritiene che i debiti privati siano quelli verso la res privata principis, ma non chiarisce quali sarebbero i debiti pubblici, che, identificandosi con i munera publica, andrebbero a confluire, a quanto sembra di comprendere dal suo commento, nella più generale categoria dei debiti verso lo Stato[145].
- Tra i moderni, un cenno al problema si trova nella monografia del Padoa Schioppa, il quale ritiene più verosimile che i debiti privati siano quelli contratti fra privati e che siano i debiti pubblici ad indicare quelli verso la res privata[146].
- Né l’una né l’altra interpretazione sembra convincente. Non la prima, perché la res privata principis è, in realtà, una delle branche dell’amministrazione finanziaria dell’Impero, spesso equiparata all’aerarium o al fisco, ed è quindi più probabile che le somme dovute a questa rientrino nell’ambito dei fiscales calculi e dei munera tributaria. Neppure la seconda, perché il termine publicus indica piuttosto, nel linguaggio di quest’epoca, i beni di competenza delle città: riterrei, pertanto, più corretto ipotizzare che per debiti pubblici debbano intendersi quelli contratti verso le amministrazioni cittadine[147].
- In conclusione, da questa costituzione emerge che è vietato l’appello contro le sentenze relative a debiti verso il fisco o verso le città, nonché a debiti fra privati, purché questi ultimi siano evidentes atque convicti.
- Qualche anno più tardi, però, lo stesso Valentiniano sembra avere attenuato il rigore di tali divieti[148], estendendo il requisito della certezza, come presupposto per l’inammissibilità dell’appello, anche ai debiti fiscali. Tale sembra essere, infatti, il senso di un breve frammento riportato in C.Th. 11, 36, 21[149], secondo cui «a discussoribus observari iubemus, ut manifesti debitores provocationis suffragio minime subleventur».
- In esso si prevede, dunque, che i discussores[150], organi della giurisdizione tributaria, qui debitores fiscales excutiunt[151], dichiarino inammissibile l’appello, ma solo nell’ipotesi in cui i debitori fossero «manifesti» [152], cioè nel caso in cui i debiti, oggetto della pronuncia, come detto a proposito della c. 18 t., siano stati incontestabilmente accertati.
- Dopo tale pronuncia di Valentiniano, seguirono ulteriori conferme di una tendenza volta ad evitare che esistessero sentenze che, per il solo fatto di coinvolgere interessi pubblici, non potessero essere appellate[153]. Si spiega, così, dapprima l’intervento di Graziano, Valentiniano e Teodosio che, con la c. 27 t.[154], ribadiscono il divieto di impugnazione da parte dei debitori pubblici a condizione che siano «manifestissimi»; e che, con la c. 30 h.t. [155], di nuovo, circoscrivono la legittimazione ad appellare le sentenze nelle cause fiscali a coloro che siano debitori «evidentissimi» [156].
- Si tratta di una serie di interventi legislativi che, consentendo l’appello anche a proposito di decisioni che coinvolgessero gli interessi pubblici[157], mostrano che la facoltà per il soccombente di ottenere il riesame della sentenza di primo grado doveva costituire, nella legislazione del Basso Impero, un vero e proprio ius appellandi[158].
- La puntuale ed articolata normativa tardoimperiale in tema di appello conferma l’importanza della materia processuale, cui gli imperatori del IV secolo dedicarono numerosi provvedimenti legislativi rivolti, da un lato, ad una precisa individuazione delle ipotesi in cui fosse possibile interporre appello per ridurre e semplificare il lavoro dei giudici di seconda istanza, il cui intervento doveva attuarsi solo in casi ragionevolmente fondati e determinati in modo tassativo; dall’altro, tesi a reprimere la renitenza dei giudici minori ad accogliere ed inoltrare gli appelli e ad evitare i possibili, frequenti abusi da parte dei magistrati inferiori.
- I sovrani del IV secolo, dunque, sebbene pressati da gravi ed impellenti problemi di politica interna ed internazionale, non trascurano di promuovere – tanto in sede civile che nel delicato settore delle controversie criminali – il regolare e corretto funzionamento della giustizia, considerato una premessa indispensabile per garantire l’attuazione dei principi di uguaglianza fra i cittadini[159].
Patrocinante avanti alle Magistrature Superiori
Professore presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi
[1]Puliatti, Ottenere giustizia. Linee dell’organizzazione giudiziaria dioclezianea, in Ravenna Capitale, Giudizi, giudici e norme processuali in Occidente nei secoli IV-VIII, 1, Santarcangelo di Romagna 2015, 11 ss.
[2] De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardo antico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, 87.
[3] De Giovanni, Istituzioni cit., 87, parla espressamente di “deviazioni e deformazioni”.
[4] Sul valore del rescritto, vedi ancora De Giovanni, Istituzioni cit. 165.
[5] Puliatti, Ottenere giustizia cit., 15.
[6] Jones, The later roman Empire, 685.
[7] Sono le parole del Wenger, nell’insuperato trattato di procedura civile romana, 225.
[8] Al riguardo, qui Wenger (p. 255 nt. 13 cita –seppure erroneamente- C.I. 7.62.6, su cui ampiamente infra).
[9] Il Günther, Avellana Studien, in Sitzungsberichte der Akademie der Wissensch in Wie, 134 (1896), 125, ritiene che la nuova disposizione contro Ursino sia contenuto in una disposizione imperiale non pervenuta. Così, seppure dubitativamente, CHASTAGNOL, La préfecture urbaine à Rome, 154.
[10] Bellodi Ansaloni, ricerche sulla contumacia nelle cognitiones extra ordinem.
[11] Fedrico Pergami, L’appello nella legislazione dle tardo Impero, Milano 2000, 323 ss.
[12] Si veda anche D. 42.2.6 pr.: Certum confessus pro iudicato erit, incertum non erit.
[13] Cfr. anche C.I. 3.1.14.1: « Cum lis fuerit contestata, post narrationem propositam et contradictionem obiectam ».
[14] Giustiniano ammette l’emanazione di sentenze parziali, se è possibile scomporre la materia del contendere in più parti, suscettibili di singole decisioni (C.I. 7.44.3.1).
[15] Così, Giustiniano, nelle Istituzioni: Curare autem debet iudex, ut omnimodo, quantum possibile ei sit, certae pecuniae vel rei sententiam ferat, etiam si de incerta quantitate apud eum actum est.
[16] La dottrina ha riservato scarsa attenzione a tale ricco materiale normativo: fatti salvi brevi accenni all’argomento, rintracciabili nelle trattazioni manualistiche [Bethmann-Hollweg, Der römische Civilprozess, III, Bonn, 1866 (rist. 1959), p. 325 ss.; Bertolini, Appunti didattici di diritto romano. Serie Seconda. Il processo civile, III, Torino, 1915, p. 197 ss.; Wenger, Institutionen des römischen Zivilprozessrechts, München, 1925, p. 296 s.; Balogh, Randbemerkungen zur Frage der Appellation in Studi Riccobono, III, Palermo, 1936, p. 495 ss.; Scherillo, Lezioni sul processo. Introduzione alla «cognitio extra ordinem», Milano, 1960, p. 261 ss. e nelle voci enciclopediche [Kipp, Appellatio, n. 1, in PWRE, II/1, 1895 rist. 1965, p. 199 ss.; Orestano, Appello (Diritto romano), in NNDI, I/1, Torino, 1957, p. 723 ss.; Id., Appello (Diritto romano), in ED, II, Milano, 1958, p. 708 ss.] manca, infatti, uno studio approfondito sul tema delle impugnazioni nel diritto post-classico. Sottolineano tale lacuna il Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, München, 1966, 506 nt. 2; il Gaudemet, Constitutions constantiniennes relatives à l’appel, in ZSS, 98, 1981, p. 47 (ora in Droit et société aux derniers siècles de l’Empire romain, Napoli, 1992, p. 67); il Padoa Schioppa, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, Milano, 1967, p. 7. Anche l’importante lavoro dell’Orestano (L’appello civile in diritto romano2, Torino, 1953) è circoscritto ad un esame cronologicamente limitato all’età dei Severi, mentre quello del Raggi (Studi sulle impugnazioni civili nel processo romano, I, Milano, 1961) accenna solo incidentalmente alla disciplina delle impugnazioni nella legislazione tardoantica. Da segnalare, più recentemente, il lavoro del Vincenti, «Ante sententiam appellari potest». Contributo allo studio dell’appellabilità delle sentenze interlocutorie nel processo romano, Padova, 1986. Particolarmente interessante, sebbene non specificamente dedicato alla legislazione tardoimperiale, lo studio del Litewski, Die römische Appellation in Zivilsachen, I, in RIDA, 12, 1965, p. 347 ss.; II, in RIDA, 13, 1966, p. 231 ss.; III, in RIDA, 14, 1967, p. 301 ss.; IV, in RIDA, 15, 1968, p. 143 ss.
[17] Dell’oro, «Mandata» e «litterae». Contributo allo studio degli atti giuridici del «princeps», Bologna, 1960.
[18] Così Dell’oro, «Mandata» e «litterae», cit., p. 93, nt. 64, per il quale la ricostruzione del Krüger (ad hh. ll.), che per primo aveva considerato i frammenti in esame come parti di un’unica legge, lascia ampio margine al dubbio sul sicuro fondamento dell’ipotesi da lui sostenuta.
[19] Sebbene l’inscriptio dei frammenti in esame riporti i nomi degli Augusti, Diocleziano e Massimiano, con la duplice sigla AA. et CC., è probabile che essi siano il prodotto della cancelleria di Diocleziano, che deve avere conservato, specialmente nei primi anni dopo l’introduzione del sistema tetrarchico, una sorta di prevalenza nella produzione normativa.
[20] La subscriptio di VII.62.6 reca la dicitura sine die et consule, mentre C.I. III.3.2 indica il giorno ed il mese (D. XV K. Aug.), ma non l’anno, del quale è rimasta soltanto la sigla CC. Analoga indicazione emerge in C.I. III.11.1, dove però il mese di emanazione è indicato in marzo (XV K. April.). Sappiamo, dunque, che l’editto è stato emesso in un anno in cui il consolato era rivestito congiuntamente dai due Cesari. Ora, negli anni di comune governo di Diocleziano e Massimiano, i Cesari Galerio Massimiano e Costanzo Cloro rivestirono insieme il consolato quattro volte: nel 294 (I), nel 300 (III), nel 302 (IV) e ancora, almeno sino al primo di marzo, nell’anno 305 (V), quando, in seguito all’abdicazione di Diocleziano e Massimiano, essi stessi vennero elevati alla porpora imperiale. Esiste, è vero, anche un secondo consolato dei Cesari, che essi, però, non rivestirono congiuntamente: quello di Costanzo Cloro con lo stesso Diocleziano nel 296 e quello di Galerio Massimiano con Massimiano Augusto nel 297. In astratto, la costituzione in esame potrebbe, dunque, essere attribuita ad uno qualsiasi degli anni di consolato comune dei due Cesari. La mancanza della cifra di iterazione la riporterebbe al primo di essi, quello del 294: ma non è un criterio veramente sicuro, dato che non sempre la cifra di iterazione è riportata o è riportata esattamente nei Codici. Nel caso dei consolati dei Cesari della Tetrarchia, un solo testo del Codice Giustinianeo, la c. 2 C.I. VII.22, reca l’indicazione del terzo consolato e può essere, quindi, sicuramente attribuito al 300 (D.K. Iul. Antiochiae Constantio III et Maximiano III CC. conss.). Tutti gli altri, privi come sono della cifra di iterazione, risalirebbero al 294. Non è questo il luogo, naturalmente, per un’indagine sull’esattezza di tale datazione. Ma, per quanto riguarda l’editto che qui interessa, l’attribuzione al 294 è resa plausibile, benché non sicura, dalla collocazione dei frammenti all’interno dei titoli cui appartengono. I dati a nostra disposizione non sono, in verità, tutti soddisfacenti: la VII.53.8, parte anch’essa dell’editto, precede, infatti, un rescritto degli stessi Tetrarchi che appare subscriptum alle none di novembre di un anno consolare dei Cesari senza iterazione. Anche la VII.62.6 è inserita in una serie di testi, alcuni, purtroppo, del tutto privi di subscriptio e quindi non databili (cc. 7, 8, 9), cui segue la c. 10, datata da Viminacio il 30 settembre dell’anno consolare dei Cesari, anch’esso senza iterazione. La III.11.1 non offre indicazioni utili perché è seguita da una costituzione di Costantino del 314. Qualche elemento interessante per la determinazione dell’anno di emissione dell’editto in esame emerge, al contrario, dalla collocazione della c. 2 all’interno del titolo III.3 De pedaneis iudicibus. Essa, infatti, è seguita da un exemplum sacrarum litterarum eorundem AA. et CC. ad Serapionem, che figura data ad Antiochia il 25 marzo di un anno consolare dei Cesari. Se nessun utile appiglio può ricavarsi dall’indicazione di Serapione, governatore provinciale nella pars Orientis, che risulta destinatario di una sola altra costituzione datata al 304 (C.I. III.28.26), qualche elemento concreto è offerto, al contrario, dalla località di emanazione. Ad Antiochia, infatti, Diocleziano risiedette nell’anno 300, come emerge, con un sufficiente margine di sicurezza, dalla subscriptio della già ricordata c. 2 C.I. VII.22, datata al 25 luglio di quell’anno. Tale circostanza, posta in relazione all’accertata presenza dell’imperatore nelle province danubiane durante gli anni 293 e 294 e alla sosta a Roma nei primi mesi del 303 e forse anche nel 302, induce verosimilmente a ritenere che la c. 3 C.I. III.3, data ad Antiochia il 25 marzo, debba ascriversi all’anno 300. Ma se così è, poiché la precedente c. 2 h.t., parte dell’editto qui considerato, è del 18 luglio di un anno in cui i Cesari rivestirono insieme il consolato, un coordinamento fra i due testi induce a ritenere che quest’ultimo debba essere datato in uno degli anni precedenti e, in particolare, nell’unico altro anno in cui Galerio Massimiano e Costanzo Cloro rivestirono congiuntamente il consolato, cioè il 294. Tale era in effetti la datazione proposta dal Mommsen, che è stata adottata nelle successive edizioni del Codice Giustinianeo. Resta, è vero, il problema della divergenza fra il mese di emanazione indicato nella c. 2 C.I. III.3 (Aug.) e nella c. 1 C.I. III.11 (April.). Ma tale differenza può verosimilmente essere dovuta ad uno scambio tra le sigle aug. e april., attribuibile all’attività degli amanuensi. Non è dato peraltro sapere se l’errore nelle sigle dei due mesi, che ricorre frequentemente anche in altre ipotesi e non solo nelle subscriptiones del Codice Giustinianeo, risalga già all’originale stesura del Codice o, come è più probabile, alla sua tradizione manoscritta; oppure, ancora più esattamente, alla tardiva ricostruzione delle inscriptiones e subscriptiones che durante l’alto Medioevo erano andate perdute. Né è possibile, con sicurezza, escludere che la corruzione della subscriptio riguardi la c. 2 C.I. III.3. Ma anche in questo caso la collocazione del testo prima della c. 3 h.t., che abbiamo ipotizzato emessa nell’anno 300, consente di fissare, seppure soltanto congetturalmente, ai primi mesi del 294 la data di emanazione dell’editto dei Tetrarchi in tema di processo.
[21] Si erano già espressi in questo senso, De Marini Avonzo, La giustizia nelle province agli inizi del Basso Impero, II, L’organizzazione giudiziaria di Costantino, in Studi Urbinati, 33, 1965-1966, p. 198, secondo cui, infatti, Diocleziano emanò nel 294 un editto «con carattere di legge generale sul processo», nonché Scherillo, Lezioni sul processo. Introduzione alla cognitio extra ordinem, Milano, 1960, p. 254 ss.; Cenderelli, Ricerche sul Codex Hermogenianus, Milano, 1965, p. 34, nt. 38.
[22] Gli editti dei magistrati, come quelli degli imperatori, si aprono con la formula dicit e quella greca corrispondente, come è dimostrato da numerosi esempi. Ricordiamo gli editti di Augusto ai Cirenensi (FIRA, I, p. 403 ss.), l’editto di Claudio de civitate Anaunorum (FIRA, I, p. 41 ss.), l’editto di Vespasiano de privilegiis medicorum et magistrorum (FIRA, I, p. 420 ss.), l’edictum Domitiani de privilegiis veteranorum (FIRA, I, p. 424 ss.), la constitutio Antoniniana de civitate (FIRA, I, 445 ss.), l’editto dello stesso Caracalla de decurionibus coercendis (FIRA, I, p. 449 ss. e, fra i testi conservati nei Codici, oltre a quello dei Tetrarchi in esame, C.Th. 1.22.4 di Graziano, Valentiniano e Teodosio (Impp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. pars actorum habitorum in consistorio Gratiani A. Gratianus A. dixit); C.Th. IV.20.3 (Apud acta Imp. Theodosius A. dixit); C.Th. VII.20.2 in cui è riportato un vero e proprio dialogo fra Costantino e i suoi veterani; C.Th. XI.39.5 di Giuliano (Pars actorum habitorum aput Imperatorem Iulianum Augustum Mamertino et Nevitta Conss. X Kal. April. Constantinopoli in consistorio adstante Iovio viro clarissimo quaestore, Anatolio magistro officiorum, Felice comite sacrarum largitionum. Et cetera. Imp. Iulianus dixit); C.Th. XI.39.8 di Graziano, Valentiniano e Teodosio (Pars actorum habitorum in consistorio aput Imperatores Gratianum, Valentinianum et Theodosium Cons. Syagri et Eucheri die III Kal. Iul. Constantinopoli. In consistorio Imp. Theodosius A. dixit). Non è detto, però, che il termine sia esclusivo degli editti: lo si trova infatti usato anche per manifestazioni della volontà imperiale di carattere giurisdizionale, come in C.I. VII.26.6 di Filippo (Imp. Philippus A. cum consilio collocutus dixit); C.I. VII.62.1 di Settimio Severo (Sententia divi Severi data in persona Marci Prisci idibus Ian. Pompeiano et Avito conss. Severo A. dixit); C.I. IX.41.3 di Caracalla (Imp. Antoninus A. cum cognitionaliter audisset, dixit). Il termine edictum indica, in realtà, qualsiasi dichiarazione o proclamazione della volontà magistratuale o imperiale, un aliquid sollemniter et cum auctoritate pronuntiare, come si esprime il Thesaurus Linguae Latinae, con riguardo alla forma originariamente verbale di tale dichiarazione. Sul punto, vd. Kipp, Edictum, in PWRE, V/2, (1905, rist. 1958), p. 1940 ss.
[23] L’unico altro esempio è quello parzialmente conservato in C.I. V.4.17 in tema di impedimenti matrimoniali. Cfr., in proposito, Amelotti, Per l’interpretazione della legislazione privatistica di Diocleziano, Milano, 1960, p. 15 ss.
[24] C.I. III.3.2: Impp. Diocletianvs et Maximianvs AA. et CC. dicvnt. Placet nobis praesides de bis causis, in quibus, quod ipsi non possent cognoscere, antehac pedaneos iudices dabant, notionis suae examen adhibere, ita tamen ut, si vel per occupationes publicas vel propter causarum multitudinem omnia huiusmodi negotia non potuerint cognoscere, iudices dandi habeant potestatem (quod non ita accipi convenit, ut etiam in bis causis, in quibus solebant ex officio suo cognoscere, dandi iudices licentia permissa credatur: quod usque adeo in praesidum cognitione retinendum est, ut eorum iudicia non deminuta videantur): dum tamen de ingenuitate, super qua poterant et ante cognoscere, et de libertinitate praesides ipsi diiudicent. D. XV K. Avg. CC. Conss.
[25] C.I. III.11.1: Impp. Diocletianvs et Maximianvs AA. et CC. dicvnt. Quoniam plerumque evenit, ut iudex instrumentorum vel personarum gratia dilationem dare rerum necessitate cogatur, spatium instructionis exhibendae postulatum dari conveniet. Quod hac ratione arbitramur esse moderandum, ut, si ex ea provincia ubi lis agitur vel persona vel instrumenta poscentur, non amplius quam tres menses indulgeantur: si vero ex continentibus provinciis, sex menses custodiri iustitiae est: in trasmarina autem dilatione novero menses computari oportebit. Quod ita constitutum iudicantes sentire debebunt, ut hac ratione non sibi concessum intellegant dandae dilationis arbitrium, sed eandem dilationem, si rerum urguentissima ratio flagitaverit et necessitas desideratae instructionis exegerit, non facile amplius quam semel nec ulla trahendi arte sciant esse tribuendam. Dat. XV K. April. CC. Conss.
[26] C.I. VII.53,8: Idem (Impp. Diocletianvs et Maximianvs) AA. et CC. Executorem eum solum esse manifestum sit, qui post sententiam, inter partes audita omni et discussa lite, prolatam iudicatae rei vigorem ad effectum videtur adducere. Sine die et consule.
[27] Per un esame dei tre frammenti, Scherillo, Lezioni sul processo, cit., p. 254. Si occupano, in particolare, del passo contenuto in C.I. III.3.2, De Marini Avonzo, La giustizia nelle province, cit., p. 199 s.; Sargenti, Aspetti e problemi dell’opera legislativa dell’Imperatore Giuliano, in AAC, III, 1979, p. 336, nt. 85 (ora in Studi sul diritto del Tardo Impero, Padova, 1986, p. 222, nt. 85).
[28] L’editto ha poco attirato l’attenzione degli studiosi. Più ampiamente di tutti se ne sono occupati lo Scherillo, Lezioni sul processo, cit., p. 252 ss. e, più di recente, il Fernández Barreiro, Un edicto general de Diocleciano sobre procedimiento, in Estudios D’Ors, I, Pamplona, 1987, p. 417 ss. Per qualche cenno, cfr., Amelotti, Per l’interpretazione della legislazione privatistica, cit., p. 15, nt. 21; Cenderelli, Ricerche, cit., p. 34, nt. 38 e p. 73 s.; Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, München, 1966, p. 340, nt. 10; De Marini Avonzo, La giustizia nelle province, cit., p. 198.
[29] Una delle caratteristiche fondamentali del processo d’appello, infatti, è rappresentata dalla competenza riconosciuta, per la fase preliminare del giudizio, al giudice che ha pronunciato la sentenza di primo grado: è a questi che si propone l’appello ed è a lui che è demandato un esame preliminare sull’ammissibilità del gravame. Cfr., in proposito, Orestano, L’appello civile in diritto romano, Torino, 19662, p. 64 ss., per il quale, dall’esame di un frammento di Ulpiano (D. 49.1.13.1) e di un passo delle Sentenze di Paolo (V.35.2), i poteri del giudice a quo erano di notevole ampiezza, non esaurendosi in un’indagine sull’esistenza dei presupposti dell’atto di appello, ma si estendevano, seppure solo in una certa misura, anche ad un esame sul suo fondamento.
[30] Sulla possibilità di introdurre nova nel giudizio di secondo grado in età dioclezianea, vedi Guarneri Citati, «Exceptio omissa initio – in integrum restitutio – appellatio», in Studi Perozzi, Palermo, 1923, p. 256; Litewski, Die römische Appellation in Zivilsachen, IV, in RIDA, 15, 1968, p. 224 ss.; Padoa Schioppa, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, I, Milano, 1967, 89, nt. 48 e p. 104, nt. 125; Bassanelli Sommariva, La legislazione processuale di Giustino I, in SDHI, 37, 1971, p. 176, nt. 78; Scapini, Il ius novorum nell’appello civile romano, in Studi Parmensi, 21, 1978, p. 54 s.
[31] Sulla fase del giudizio che si svolgeva avanti al giudice ad quem, vd. Orestano, L’appello civile, cit., p. 409 ss., il quale riteneva di potere ricostruire, in relazione all’età dei Severi, le linee essenziali di tale procedimento: dall’iscrizione della causa nel ruolo del giudice superiore, alla fissazione dell’udienza, al compimento degli atti istruttori, all’eventuale convocazione delle parti, all’udienza di discussione via via sino alla decisione. Cfr., in proposito, anche Litewski, Die römische Appellation, IV, cit., p. 187 ss.
[32] Lauria, Sull’«appellatio», in AG, 97, 1927, p. 7 (ora in Studii e Ricordi, Napoli, 1983, p. 69).
[33] D. 34.9.5.12: Paulus libro primo de iure fisci. Quidam et praesidem indignum putant, qui testamentum falsum pronuntiavit, si appellatione intercedente heres scriptus optinuit.
[34] D. 49.1.3.3: Ulpianus libro primo de appellationibus. Quid ergo, si causam appellandi certam dixerit, an liceat ei discedere ab hac et aliam causam allegare? an vero quasi forma quadam obstrictus sit? puto tamen, cum semel provocaverit, esse ei facultatem in agendo etiam aliam causam provocationis reddere persequique provocationem suam quibuscumque modis potuerit.
[35] Orestano, L’appello civile, cit., p. 423.
[36] Litewski, Die römische Appellation, II, in RIDA, 13, 1966, p. 318 s.
[37] Scapini, Il ius novorum, cit., p. 12.
[38] Litewski, Die römische Appellation, IV, cit., p. 256.
[39] È noto, infatti, che gli studiosi del processo, sin dal fondamentale contributo del Bethmann-Hollweg (Der römische Civilprozess, III, Bonn, 1866 (rist. 1959), p. 90, nt. 11, p. 294, 332 s.), attribuiscono alla legislazione di Costantino l’introduzione di una nuova forma di appello, che si sarebbe modellata sulla procedura della consultatio ante sententiam ed avrebbe, perciò, preso il nome di appello per consultationem o more consultationis. Conformi, Kipp, «Appellatio», in PWRE, 2/1, (1895, rist. 1965), p. 206 ss.; Id., «Consultatio», in PWRE, 4/1, (1900, rist. 1958), p. 1143; Bertolini, Appunti didattici di diritto romano. Serie seconda. Il processo civile, III Torino, 1915, p. 202; Wenger, Institutionen des römischen Zivilprozessrecht, München, 1925 (trad. it. 1938), p. 297; Scherillo, voce Consultatio, in NNDI, 4, 1959, p. 358; Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, cit., p. 509 s.; Litewski, Die römische Appellation, IV, cit., p. 254 ss.; Id., Consultatio ante sententiam, in ZSS, 99, 1969, p. 228 s.; De Bonfils, Prassi giudiziaria e legislazione nel IV secolo. Symm, rel. 33, in BIDR, 78, 1975, p. 170 s.; Bassanelli Sommariva, La legislazione processuale di Giustino I, cit., p. 168 ss.; Ead., L’imperatore unico creatore ed interprete delle leggi e l’autonomia del giudice nel diritto giustinianeo, Milano, 1983, p. 90 ss.
[40] Vd., in proposito, da ultimo, Vincenti, «Ante sententiam appellari potest». Contributo allo studio dell’appellabilità delle sentenze interlocutorie nel processo romano, Padova, 1986, p. 8 ss., in part. p. 31, e la letteratura citata.
[41] I passi comunemente citati, anche nella letteratura più recente, riguardano, infatti, fattispecie diverse e mostrano una notevole disparità di opinioni e di decisioni. Così Gaio dà per sicura l’appellabilità della sentenza di un arbitro ad fideiussores probandos constitutus (D. 2.8.9), ma Paolo rileva che la questione era, in realtà, controversa e mostra una certa propensione a ritenere non utilizzabile l’appello (D. 49.2.2). La possibilità dell’appello ante sententiam è affermata con decisione da Scevola di fronte ad una decisione del tutto abnorme, quella di applicare la tortura in civili negotio o anche in criminali, si contra leges (D. 49.5.2). E lo stesso indirizzo si desume da un passo di Paolo (D. 48.18.20). Viceversa Macro riteneva inammissibile l’appello contro una decisione interlocutoria che aveva negato la sospensione del giudizio, in attesa dell’emanzione di un rescritto imperiale (D. 49.5.4). Analogamente Scevola dichiarava inappellabile la decisione interlocutoria di un governatore provinciale in materia di minore età (D. 4.4.39). E così Ulpiano negava l’appellabilità della decisione di un giudice di proporre una consultatio all’imperatore (D. 49.1.1-2). Esattamente Orestano, L’appello civile, cit., p. 267, riteneva che da questi passi non potesse trarsi un’indicazione precisa sullo stato del diritto in età classica. Dello stesso avviso era il Provera, Recensione a Vincenti, «Ante sententiam appellari non potest», in SDHI, 53, 1987, p. 491.
[42] D. 48.2.18: Modestinus libro septimo decimo responsorum. Cum Titia testamentum Gaii fratris sui falsum arguere minaretur et sollemnia accusationis non implevit intra tempus a praeside praefinitum, praeses provinciae iterum pronuntiavit non posse illam amplius de falso testamento dicere: adversus quas sententias Titia non provocavit, sed dixit se post finitum tempus de irrito testamento dicere. Quaero, an Titia, quae non appellavit adversus sententiam praesidis, possit ad falsi accusationem postea reverti. Respondit nihil aperte proponi, propter quod adversus sententiae auctoritatem de falso agens audienda sit.
Il giurista si trovava invitato a valutare, come si vede, le conseguenze di una vicenda processuale vertente sulla validità di disposizioni testamentarie, in cui l’attrice, dopo aver dichiarato di voler impugnare di falso il testamento ed aver ottenuto dal giudice un termine entro il quale proporre l’impugnazione, non avendolo osservato, è stata dichiarata decaduta con un secondo provvedimento che essa non ha impugnato. Il quesito sottoposto a Modestino riguardava la possibilità che l’attrice riprendesse l’iniziativa del processo criminale, ad falsi accusationem reverti e la risposta del giurista sembra negativa. Ma il problema che qui interessa riguarda l’oggetto della possibile impugnazione che l’attrice non ha proposto e nasce dal fatto che nell’esposizione dei fatti si usa il plurale adversus quas sententias Titia non provocavit. Se ne desume che Tizia avrebbe potuto e dovuto impugnare non solo il provvedimento che la dichiarava decaduta dalla possibilità di proporre una impugnazione di falso, ma anche quello che le assegnava un termine per farlo. Non si vede, in verità, quale sarebbe stato l’interesse dell’attrice ad impugnare un provvedimento che le assegnava un termine per proporre l’impugnazione che essa stessa aveva dichiarato di voler proporre. Ma, indipendentemente da questa considerazione, il tema del quesito proposto a Modestino è chiaramente quello delle conseguenze della mancata impugnazione della sententia praesidis (e qui si usa il singolare), cioè della decisione di decadenza dall’impugnazione di falso. È questa che fa nascere il problema della ulteriore proponibilità dell’impugnazione stessa. Non è il caso di indugiare qui a chiedersi se il primo plurale sia, per avventura, frutto di un errore dell’amanuense o di un’imprecisione nell’esposizione dei fatti. Per l’esatta comprensione del testo di Modestino, occorre rifarsi all’esegesi del Wlassak, Anklage und Streitbefestigung im Kriminalrecht der Römer, in SAWW, 84, 1917, p. 211 ss., cui aderisce l’Archi, Civiliter vel criminaliter agere, in Scritti Ferrini, Milano, 1946, ora in Scritti di diritto romano, III, Milano, 1981, p. 1600.
[43] Non mi sembrano rilevanti in proposito i due rescritti richiamati in argomento dal Vincenti («Ante sententiam appellari potest», cit., p. 29 s.), il primo dei quali (C.I. VII.45.7) dichiara semplicemente privo di effetto estintivo di una verborum obligatio il patto concluso dalle parti su sollecitazione del praeses provinciae, motivando tale principio con il rilievo che non omnis vox iudicis ha l’autorità di cosa giudicata. Nessun richiamo o riferimento, neppure implicito, è fatto all’appellabilità di un intervento del governatore che, nella specie, è privo di contenuto decisorio; né mi sembra che dall’affermazione secondo cui non sempre la vox iudicis ha l’autorità di giudicato, possa ricavarsi il principio della sua inappellabilità. Analogamente, nessun riferimento al problema trattato nel testo è fatto nel secondo rescritto (C.I. VII.45.9), che pure nega l’autorità di giudicato ad interventi arbitrali del giudice resi successivamente all’emanazione della sentenza.
[44] Sul punto, Litewski, Die römische Appellation, IV, cit., p. 294.
[45] Vd., sul punto, Forcellini, Lexicon Totius Latinitatis, Patavii, 1890, IV, s.v. temere: «Temere est sine ratione, sine consilio, casu, inconsulte, imprudentes; stulte»; Berger, Encyclopedic Dictionary of Roman Law, Philadelphia, 1953, s.v. temeritas: «Rashness, lack of caution, of reflection in starting a lawsuit or accusing a person of a crime»; Ernout-Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris, 1960, s.v. temere: «“a l’aveuglette”, par suite “inconsidérément, au hasard, a la légère, sans réflection”».
[46] Ancora Forcellini, Lexicon, III, s.v. passim: «sparsim, sine ordine, omnibus locis, undique»; Berger, Encyclopedic Dictionary, s.v. passim: «Simply, without any further examination of the case under decision. The term is used in the juristic language as ant. to causa cognita, i.e., after a scrupulous examination»; Ernout-Meillet, Dictionnaire étymologique, s.v. pando,-is: «en se répandant çà et là; en désordre».
[47] Vd., in particolare, D. 49.1.5.4: Marcianus libro primo de appellationibus. Si quis ipso die inter acta voce appellavit, hoc ei sufficit: sin autem hoc non fecerit, ad libellos appelatorios dandos biduum vel triduum computandum est. Sui sospetti di interpolazione della seconda parte del passo, cfr. Reggi, I libri de appellationibus di Marciano, in Studi Parmensi, 15, 1974, p. 46.
[48] Cfr., in proposito, Orestano, L’appello civile, cit., p. 237 ss.; Bianchini, Le formalità costitutive del rapporto processuale nel sistema accusatorio, Milano, 1964, p. 127; Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, cit., p. 403; Litewski, Die römische Appellation, IV, cit., p. 145 ss., in part. 151.
[49] Orestano, L’appello civile, cit., p. 230, nt. 1.
[50] C.Th. XI.30.7: Idem (Imp. Constantinvs) A. ad Bassvm P(raefectvm) V(rbi). Litigatoribus copia est etiam non conscribtis libellis ilico appellare voce, cum res poposcerit iudicata. Dat. VIII Ivn. Sirmio Gallicano et Basso Conss.
[51] Cfr. D. 49.6.1: Marcianus libro secundo de appellationibus. Post appellationem interpositam litterae dandae sunt ab eo, a quo appellatum est, ad eum, qui de appellatione cogniturus est, sive principem sive quem alium, quas litteras dimissorias sive apostolos appellant. Sul contenuto delle litterae prosegue Marciano: Sensus autem litterarum talis est: appellasse puta Lucium Titium a sententia illius, quae inter illos dicta est.
[52] Paul. Sent. V.34.1: Ab eo, a quo appellatum est, ad eum, qui de appellatione cogniturus est, litterae dimissoriae diriguntur, quae vulgo apostoli appellantur: quorum postulatio et acceptio intra quintum diem ex officio facienda est. 2. Qui intra tempora praestituta dimissorias non postulaverit vel acceperit vel reddiderit, praescriptione ab agendo submovetur et poenam appellationis inferre cogetur.
[53] C.I. VII.62.5: Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Valerio. Praeses provinciae, ad quem appellasti, si non vitio neglegentiae vestrae tempus, quod ad reddendos apostolos praescriptum est, exemptum esse animadverterit, sed ex fatalis casus necessitate, diem functo eo qui eos perferebat, id accidisse cognoverit, iuxta perpetui iuris formam desiderio vestro medebitur.
[54] Cfr. Orestano, L’appello civile, cit., p. 376 ss., il quale scriveva che l’editto dioclezianeo «lascia intravedere un regime anteriore nel quale fosse facoltà del giudice a quo esigere prima della consegna delle litterae una cauzione dall’appellante». Sull’uso di queste cautiones ha gettato qualche maggiore luce un’iscrizione pubblicata nel 1970 dall’Oliver (Oliver, Marcus Aurelius: aspects of civil and cultural policy in the East, in Hesperia, Suppl. XIII, su cui vedi Jones, A new letter of Marcus Aurelius to the Athenians, in ZPE, 8, 1971, 161 ss.), contenente, in una lettera di Marco Aurelio agli Ateniesi, una serie di decisioni dello stesso imperatore su appelli proposti contro pronunce di giudici e tribunali della città. Alle righe 47 ss. del lungo testo, si dispone la restituzione delle cauzioni che erano state fornite dagli appellanti ed in un caso anche dall’appellato (Valerio Mamertino). Il documento, a cui ha dedicato uno studio Giglio, L’epistula di Marco Aurelio agli Ateniesi, in AAC, IV, 1981, p. 547 ss., merita di essere ripreso in esame, per chiarire meglio il meccanismo della cautio e la sua funzione in rapporto all’esito dell’appello, oltre che presentare un grande interesse per la natura degli appelli di cui in concreto si tratta (quasi tutti in materie di natura pubblicistica) e per i rapporti tra ordinamenti cittadini e provinciali (nella specie quelli di Atene e della Grecia) e potere imperiale. Ma non è, ovviamente, questo il luogo per affrontare tali argomenti. Osserverò di sfuggita che appare abbastanza interessante la coincidenza fra l’ampio uso delle cauzioni nel processo d’appello sotto Marco Aurelio e la notizia data da Papiniano sul rescritto dello stesso imperatore che prescriveva l’applicazione della cautio fideicommissi anche nel giudizio d’appello in questa materia (D. 36.3.5.1).
[55] Paul. Sent. V.33.1: Ne liberum quis et solutum haberet arbitrium retractandae et revocandae sententiae, et poena et tempora appellatoribus praestituta sunt. Quod nisi iuste appellaverint, tempora ad cavendum in poeta appellationis quinque dierum praestituta sunt. Igitur morans in eo loco, ubi appellavit, cavere debet, ut ex die acceptarum litterarum continui quinque dies computentur: si vero longius, salva dinumeratione interim quinque dies cum eo ipso quo litteras acceperit computantur. 2. Ne quis in captionem verborum in cavendo incidat, expeditissimum est poenam ipsam vel quid aliud pro ea deponere: necesse enim non habet sponsorem quis vel fideiussorem dare aut praesens esse: et si contra eum fuerit pronuntiatum, perdit quod deposuit. 3. Quotiens in poena appellationis cavetur, tam unus quam plures fideiussores, si idonei sint, dari possunt: sufficit enim etiam per unum idoneum indemnitati poenae consoli. 4. Si plures appellant, una cautio sufficit, et si unus caveat omnibus vincit. 5. Cum a pluribus sententiis provocatur, singulae cautiones exigendae sunt et de singulis poenis spondendum est. 6. Modus poenae, in qua quis cavere debet, specialiter in cautione exprimendus est, ut sit, in qua stipulatio committatur: aliter enim recte cavisse non videtur. 7. Adsertor si provocet, in eius modi tertiam cavere debet, quanti causa aestimata est. 8. In omnibus pecuniariis causis magis est, ut in tertiam partem eius pecuniae caveatur.
[56] Cfr., per un ampia disamina del passo, Brutti, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, II, Milano, 1973, p. 753 ss.
[57] In ordine alla facoltà del giudice a quo di imporre cauzioni all’appellante in età severiana, si ha traccia nel verbale di udienza conservato in P.Oxy. 1408, su cui vedi Cantarella, La fideiussione reciproca, Milano, 1965, p. 67 s.
[58] Orestano, L’appello civile, cit., p. 376 ss.
[59] Giglio, L’epistola di Corbulone ai Coi, in Raccolta di Scritti in memoria di Angelo Lener, Napoli, 1989, p. 536 ss., in part. p. 540, nt. 82. Più in generale, sulle cautiones de exercenda provocatione, vedi, dello stesso Autore, L’epistola di Marco Aurelio agli Ateniesi, p. 547 ss., cui rinvio anche per i riferimenti bibliografici.
[60] Secondo il Litewski (Die römische Appellation, IV, cit., p. 222), l’imperatore avrebbe così avuto la possibilità di effettuare un maggiore controllo sull’operato dei giudici inferiori: «Der Bruch mit dieser Institution ist wohl damit aufgeklärt, dass die Kaiser zur Zeit des Dominats eine möglichst genaue Kontrolle der Tätigkeit der ihnen (auch mittelbar) unterstellten Richter anstrebten. Deshalb beseitigten sie die cautio, die in der Praxis die Anfechtung von Urteilen auf dem Wege der Appellation beschränkte»: in questo senso cfr., anche, Brutti, La problematica del dolo processuale, cit., p. 756 ss.
[61] Sono i titoli 11, 30 De appellationibus et poenis earum et consultationibus; 11, 31 De reparationibus appellationum; 11, 32 De secundo labsu; 11, 33 De dilationibus ex consenso; 11, 34 De his, qui per metum iudicis non appellaverunt; 11, 35 Si pendente appellatione mors intervenerit; 11, 36 Quorum appellationes non recipiantur, 11, 37 Si de momento fuerit appellatum; 11, 38 De possessione ab eo, qui bis provocaverit, transferenda.
[62] La procedura per consultazione o per relazione (consultatio o relatio), che, a differenza dell’appello, non richiedeva, quale presupposto essenziale, l’avvenuta risoluzione della controversia mediante la emanazione di una sentenza, consentiva – come è noto – che le parti o lo stesso giudice deferissero alla cognizione dell’imperatore la decisione di una lite già in corso.
Sul punto Bethmann-Hollweg, Der römische Civilprozess, cit., p. 90 ss. e 294 ss.; Kipp, Consultatio in PWRE, IV/1, 1900 rist. 1958, p. 1142 ss.; Litewski, Consultatio ante sententiam, in ZSS, 86, 1969, p. 227 ss. Vedi, anche, Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 21 s.; Bertolini, Appunti didattici di diritto romano, cit., p. 202 s.; Scapini, Il «ius novorum» nell’appello civile romano, in Studi Parmensi, 21, 1978, p. 34 ss.; Orestano, Appello, in ED, cit., p. 710 s.; Giglio, L’epistola di Marco Aurelio agli Ateniesi, in AARC, IV, Perugia, 1981, p. 549 ss.; Gaudemet, Constitutions constantiniennes, cit., p. 83 ss.; Bassanelli Sommariva, L’imperatore unico creatore ed interprete delle leggi e l’autonomia del giudice nel diritto giustinianeo, Milano, 1983, p. 72 ss. Sull’uso e sugli effetti della consultatio ad principem nelle fonti letterarie e, in particolare, nelle Res gestae di Ammiano Marcellino vedi: Riferimenti normativi e prospettive giuspubblicistiche nelle ‘Res gestae’ di Ammiano Marcellino, a cura di M. Navarra, Milano, 1994, p. 99 ss.
[63] C.Th. 11, 30, 1: Imp. Constantinvs A. ad Claudivm Plotianvm correctorem Lvcaniae et Brittior(um). Si in negotio civili cognitis utrisque actionibus pronuntiaveris te ad nostram scientiam relaturum, consultationis exemplum litigatoribus intra decem dies edi aput acta iubeas, ut, si cui forte relatio tua minus plena vel contraria videatur, is refutatorias preces similiter tibi aput acta offerat intra dies quinque, quam illi exemplum consultationis tuae obtuleris. Iam dicationis tuae est omnia, quae aput te vel aput alios gesta fuerint in eo negotio, consultationi tuae cum refutatoriis litigantis adnectere, ita ut scias et decem dies, intra quos edi consultationem oportet, et quinque, intra quos preces refutatoriae offerendae sunt, continuos debere servari. Nam quinque diebus transactis nec offerentem preces refutatorias litigatorem debebis audire, sed sine his quoniam intra statutum tempus oblatae non sunt, gesta omnia ad nostram referre scientiam. Et cetera. Dat. III kal. Ian. Trev(iris) Constantino A. III et Licinio III Conss.
Ampio commento sul contenuto della costituzione in Gotofredo, Codex Theodosianus cum commentariis, 6 voll., Mantuae, 1740-1750, ad h.l.
Cfr., sul punto, anche Gaudemet, Constitutions constantiniennes, cit., p. 74 s.
[64] C.Th. 11, 30, 10: Imp. Constantinvs A. ad Crispinvm. Si quis per absentiam nominatus ad provocationis auxilium cucurrerit, ex eo die interponendae appellationis duorum mensum tempora ei conputanda sunt, ex quo contra se celebratam nominationem didicisse se monstraverit. Nam praesenti, qui factam nominationem cognovit et appellare voluerit, statico debet duorum mensum spatium conputari. Dat. VIII id. Iul. Constantino A. VI et Constantino C. Conss. Cfr., in particolare, Gotofredo, ad h.l., «De appellatione a nominatione est haec Constantini M. lex. nominatis seu evocatis scilicet ad Curiam, seu ad Duumviratum, aliorumque honorum insulas vel manus aliquod … appellare quoque licet».
[65] C.Th. 11, 30, 29: Imp. Ivlianvs A. ad Hymetivm Vic(arivm) Urb(is). Omnes legitimae appellationes, quaecumque fuerint contra audientiam tuae gravitatis interposita, indubitanter suscipiantur et post latam sententiam intra triginta dies universa, quae in eiusmodi negotio geruntur, cum refutatoriis precibus seu libellis ad nostrum comitatum mittantur, strenuo videlicet officiali ex his qui tibi parent, ad hanc sollicitudinem electo, ita ut publicis monumentis confectis dies, quo gerulis gesta tradantur, fideliter designetur. Nam X librarum auri multae constituetur officium obnoxium, si statuta nostra aliqua fuerint dissimulatione violata. Dat. X kal. Octob. Antiochiae Mamertino et Nevitta Conss.
C.Th. 11, 30, 30: Imp. Ivlianvs A. ad Germanianvm P(raefectvm) P(raetori)o. His qui tempore conpetenti non appellant, redintegrandae audientiae facultas denegetur. Omnes igitur, qui contra praefectos urbi seu proconsules seu comites Orientis seu vicarios sub specie formidinis provocationem non arbitrantur interponendam, a renovanda lite pellantur. Nobis enim moderantibus rem publicam nullum audebit iudex provocationis perfugium iurgantibus denegare. Qui vero vim sustinuerint, contestatione publice proposita intra dies videlicet legitimos, quibus appellare licet, causas appellationis evidenti adfirmatione distinguant, ut hoc facto tamquam interposita appellatione isdem aequitatis adminicula tribuantur. Emissa XV kal. Ian. Mamertino et Nevitta Conss.
Sul contenuto delle costituzioni, per tutti, Sargenti, Aspetti e problemi dell’opera legislativa dell’imperatore Giuliano, in AARC, III, Perugia 1979, p. 368 ss. (ora in Studi sul diritto del Tardo Impero, Padova, 1986, p. 224 ss.); Gaudemet, Constitutions constantiniennes, cit., p. 68 ss.; Litewski, Die römische Appellation, IV, cit., p. 165 s.
[66] C. 7, 62, 6: Impp. Diocletianvs et Maximianvs AA. et CC. dicvnt: Eos qui de appellationibus cognoscent ac iudicabunt, ita iudicium suum praebere conveniet, ut intellegant, quod, cum appellatio post decisam per sententiam litem interposita fuerit, non ex occasione aliqua remittere negotium ad iudicem suum fas sit, sed omnem causam propria sententia determinare conveniat cum salubritas legis constitutae ad id spectare videatur, ut post sententiam ab eo qui de appellatione cognoscit recursus fieri non possit ad iudicem, a quo fuerit provocatum. Quapropter remittendi litigatores ad provincias remotam occasionem atque exclusam penitus intellegant, cum super omni causa interpositam provocationem vel iniustam tantum liceat pronuntiare vel iustam. Si quid autem in agendo negotio minus se adlegasse litigator crediderit, quod in iudicio acto fuerit omissum, apud eum qui de appellatione cognoscit persequatur, cum votum gerentibus nobis aliud nihil in iudiciis quam iustitiam locum habere debere necessaria res forte transmissa non excludenda videatur. Si quis autem post interpositam appellationem necessarias sibi putaverit esse poscendas personas, quo apud iudicem qui super appellatione cognoscet veritatem possit ostendere, quam existimabit occultam, hocque iudex fieri prospexerit, sumptus isdem ad faciendi itineris expeditionem praebere debebit, cum id iustitia ipsa persuadeat ab eo haec recognosci, qui evocandi personas sua interesse crediderit. Super his vero, qui in capitalibus causis constituti appellaverint (quos tamen et ipsos vel qui pro his provocabunt non nisi audita omni causa atque discussa post sententiam dictam appellare conveniet), id observandum esse sancimus, ut inopia idonei fideiussoris retentis in custodia reis opiniones suas iudices exemplo appellatoribus edito ac refutatorios eorum ad scrinia quorum interest transmittant, quibus gestarum rerum fides manifesta relatione pandatur, ut mentis eorum consideratis pro fortuna singulorum sententia proferatur. Ne temere autem ac passim provocandi omnibus facultas praeberetur, arbitramur eum, qui malam litem fuerit persecutus, mediocriter poenam a competenti iudice sustinere. Sin autem in iudicio propriam causam quis fuerit persecutus atque superatus voluerit provocare, eodem die vel altero libellos appellatorios offerre debebit. Is vero, qui negotium tuetur alienum, supra dicta condicione etiam tertio die provocabit. Apostolos post interpositam provocationem etiam non petente appellatore sine aliqua dilatione iudicem dare oportet, cautione videlicet de exercenda provocatione in posterum minime praebenda. Sine die et consvle.
Sul contenuto della costituzione: Lauria, Sull’appellatio, in AG, 97, 1927, p. 7 s. (ora in Studii e ricordi, Napoli, 1983, p. 69 s.); Orestano, L’appello civile, cit., p. 239, nt. 1; Scherillo, Lezioni sul processo, cit., p. 25 ss.; Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, cit., p. 340 s.; Amelotti, Per l’interpretazione della legislazione privatistica di Diocleziano, Milano, 1960, p. 15, nt. 21; Cenderelli, Ricerche sul «Codex Hermogenianus», Milano, 1965, p. 34, nt. 38 e p. 74, nt. 25; De Marini Avonzo, La giustizia nelle province agli inizi del Basso Impero, II, L’organizzazione giudiziaria di Costantino, in Studi Urbinati, 34, 1965-1966, p. 198, nt. 86; Bassanelli Sommariva, La legislazione processuale di Giustino I (9 luglio 518-1 agosto 527), in SDHI, 37, 1971, p. 175 ss.
In proposito, si veda, peraltro, la diversa opinione del Dell’Oro, «Mandata» e «litterae». Contributo allo studio degli atti giuridici del «princeps», Bologna, 1960, p. 93 s.
[67] C. 3, 3, 2; 3, 11, 1; 7, 53, 8.
[68] L’appellatio, quale mezzo giudiziario tipico della prassi processuale del principato, appare del resto delineata – almeno nelle sue linee essenziali – già nel II secolo d.C., come testimoniano le dettagliate elaborazioni giurisprudenziali dell’età dei Severi, quali le opere «De appellationibus» di Ulpiano, Paolo, Marciano e Macro.
Cfr. Orestano, Appello, in NNDI, cit., p. 724; Id., Appello, in ED, cit., p. 710 s.; Vincenti, Per uno studio degli appelli «ante sententiam», in BIDR, 86-87, 1984, p. 90 (e la bibliografia in nt. 65); Id., «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 127, nt. 3 e la bibliografia ivi citata. Sull’opera del giurista Marciano, cfr., in particolare, Reggi, I libri «De appellationibus» di Marciano, in Studi Parmensi, 15, 1974, p. 35 ss.
[69] C. 7, 62, 6, 5: Sin autem in iudicio propriam causam quis fuerit persecutus atque superatus voluerit provocare, eodem die vel altero libellos appellatorios offerre debebit. Is vero, qui negotium tuetur alienum, supra dicta condicione etiam tertio die provocabit. Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, cit., p. 404; Litewski, Die römische Appellation, IV, cit., p. 151. Orestano, L’appello civile, cit., p. 230, nt. 1, sottolinea che il passo confermerebbe la decadenza, dopo i Severi, dell’appello orale. Sul punto anche Bianchini, Le formalità costitutive del rapporto processuale nel sistema accusatorio romano, Milano, 1964, p. 127. Cfr., per l’ipotesi dei minores legittimati a proporre appello, Litewski, Il significato del termine «remedium» in Cons. 5, 6, in IVRA, 23, 1972, p. 124; Cenderelli, Il «remedium» menzionato in Cons. 5, 6 e gli effetti della «pluris petitio» in danno di minori, in Studi Grosso, II, Torino, 1968, p. 385 ss., anche per la letteratura precedente.
[70] Nov 23: De appellationibus et intra quae tempora appellari. Imp. Ivstinianvs Avg. Triboniano Illvstri magistro officiorvm et qvaestori sacri palatii. (Praefatio). Anteriorum legum acerbitati plurima remedia impotentes et maxime hoc circa appellationes facientes et in praesenti ad huiusmodi beneficium pervenire duximus esse necessarium. Antiquitati etenim cautam erat ut, si quis per se litem exercuerit et fuerit condemnatus, intra duos dies tantummodo licentiam appellationis haberet; sin autem per procuratorem causa ventilata sit. Et in triduum proximum eam extendi. Ex rerum autem experientia invenimus hoc satis esse damnosum: plures enim homines ignaros legum subtilitatis et putantes in triduum esse provocationes porrigendas in promptum periculum incidisse et biduo transatto causas perdidisse. Unde necessarium duximus huiusmodi rei competenter mederi.
Sul punto, Biondi, Il diritto romano cristiano, III, Milano, 1954, p. 517; Litewski, Die römische Appellation, IV, cit., p. 152.
[71] Nov 23, 1: Et sancimus omnes appellationes, sive per se sive per procuratores seu per defensores vel curatores et tutores ventilentur, posse intra decem dierum spatium a recitatione sententiae numerandum iudicibus ab his quorum interest offerri, sive minores sunt (excepta videlicet sublimissima praetoriana praefectura): ut liceat homini intra id spatium plenissime deliberare, sive appellandum ei sit sive quiescendum. Ne timore instante opus appellatorium frequentetur, sed sit omnibus inspectionis copia, quae et indiscussos hominum calores potest refrenare.
Cfr. Bertolini, Appunti didattici di diritto romano, cit., p. 199 (testo e nt. 4); Orestano, L’appello civile, cit., p. 239, nt. 1; Litewski, Die römische Appellation, III, cit., p. 325 e IV, p. 152. Occorre sottolineare che la Lex Romana Burgundionum (33,3) fissa un termine di cinque giorni per la interposizione di un appello: «Appellationis sane tempora haec sunt, ut pendente sententia quisque appellare voluerit, inter dies quinque per libellos, id est data petitione, appellat, contestans, sed ad audientiam principis provocare». Sul punto, Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, cit., p. 507, nt. 16. In realtà, un confronto con un passo delle Pauli Sententiae (5, 34, 1) induce a pensare che vi sia stata una confusione con il termine fissato per la trasmissione delle litterae dimissoriae: «Ab eo, a quo appellatum est, ad eum, qui de appellatione cogniturus est, litterae dimissoriae diriguntur, quae vulgo apostoli appellantur: quorum postulatio et acceptio intra quintum diem ex officio facienda est»
[72] C. 7, 62, 6 pr.: Eos, qui de appellationibus cognoscent ac iudicabunt, ita iudicium suum praebere conveniet, ut intellegant, quod, cum appellatio post decisam per sententiam litem interposita fuerit, non ex occasione aliqua remittere negotium ad iudicem suum fas sit, sed omnem causam propria sententia determinare conveniat, cum salubritas legis constitutae ad id spectare videatur, ut post sententiam ab eo qui de appellations cognoscit recursus fieri non possit ad iudicem, a quo fuerit provocatum. Quapropter remittendi litigatores ad provincias remotam occasionem atque exclusam penitus intellegant, cum super omni causa interpositam provocationem vel iniustam tantum liceat pronuntiare vel iustam.
Sul contenuto Litewski, Die römische Appellation, IV, cit., p. 285 ss.
[73] C. 7, 62, 6, 1: Si quid autem in agendo negotio minus se adlegasse litigator crediderit, quod in iudicio acto fuerit omissum, apud eum qui de appellatione cognoscit persequatur, cum votum gerentibus nobis aliud nihil in iudiciis quam iustitiam locum habere debere necessaria res forte transmissa non excludenda videatur.
Sul tema del ius novorum: Scapini, Il «ius novorum», cit., p. 3 ss.; Litewski, Die römische Appellation, IV, cit., p. 224 ss.; Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 89 (testo e nt. 48) e p. 104, nt. 125.
[74] C. 7, 62, 6, 2: Si quis autem post interpositam appellationem necessarias sibi putaverit esse poscendas personas, quo apud iudicem qui super appellatione cognoscet veritatem possit ostendere, quam existimabit occultam, hocque iudex fieri prospexerit, sumptus isdem ad faciendi itineris expeditionem praebere debebit, cum id iustitia ipsa persuadeat ab eo haec recognosci, qui evocandi personas sua interesse crediderit.
Cfr. Scapini, Il «ius novorum», cit., p. 40 ss.; Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 89 (testo e nt. 48) e p. 104, nt. 125.
[75] C. 7, 62, 6, 4: Ne temere autem ac passim provocandi omnibus facultas praeberetur, arbitramur eum, qui malam litem fuerit persecutus, mediocriter poenam a competenti iudice sustinere. Sul tema Litewski, Die römische Appellation, IV, cit., p. 294; Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 81 (testo e nt. 18).
[76] Sulla disciplina dell’appello nel Codice Ermogeniano e sulla diversa collocazione dei titoli nei Codici Ermogeniano e Giustinianeo cfr. Cenderelli, Ricerche, cit., p. 121 s.; Scherillo, Teodosiano, Gregoriano, Ermogeniano, in Studi Ratti, Milano, 1934, p. 303 ss. (ora in Scritti Giuridici, I, Milano, 1992, p. 263 ss.). In generale, sui rapporti tra i codici di età dioclezianea ed il Codice di Giustiniano, cfr. anche Amelotti, Per l’interpretazione, cit., p. 9 ss.; Rotondi, Studi sulle fonti del Codice Giustinianeo, in Scritti giuridici, I, Milano, 1922, p. 211 ss.
[77] Si tratta delle costituzioni contenute nel titolo C.Th. 11, 30 De appellationibus et poenis earum et consultationibus = C. 7, 62 De appellationibus et consultationibus. Sulla renitenza dei giudici minori ad accogliere ed inoltrare un atto di appello, cfr. Sargenti, Aspetti e problemi, cit., p. 223 ss.; cfr. inoltre: Scapini, Principio del «doppio grado di giurisdizione» e inappellabilità di alcune sentenze nel diritto giustinianeo, in Studi Sanfilippo, V, Milano, 1984, p. 682 ss.; Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 47 ss.
[78] Si tratta delle costituzioni contenute nel titolo C.Th. 11, 36 = C. 7, 65 Quorum appellationes non recipiantur. Sul problema, cfr. anche Scapini, Principio del «doppio grado di giurisdizione», cit., p. 684 ss. Sull’ipotesi particolare dell’inappellabilità delle sentenze rese dal prefetto del pretorio cfr. Balestri Fumagalli, Il divieto di appello contro le sentenze dei prefetti del pretorio (C.Th. 11, 30, 16) e la bibliografia citata.
[79] C.Th. 11, 30, 2: Imp. Constantinvs A. ad Catvllinvm. Post alia: minime fas est, ut in civili negotio libellis appellatoriis oblatis aut carceris cruciatus aut cuiuslibet iniuriae genus seu tormenta vel etiam contumelias perferat appellator, absque his criminalibus causis, in quibus, etiamsi possunt provocare rei, eum tamen statum debent obtinere, ut post provocationem in custodia perseverent. Ea custodita moderatione, ut eorum provocationes recipiantur, qui easdem non a praeiudicio interposuisse noscantur aut etiam ante causam examinatam et determinatam, sed universo negotio peremptoria praescribtione finito vel per cuncta membra decurso contra iudicem interpositae esse noscantur. Et cetera. Dat. III non. Nov. Trev(iris), acc. XV kal. Mai. Hadrvmeto Volvsiano et Anniano Conss.
Sul contenuto, Gotofredo, ad h.l.; Sargenti, Aspetti e problemi, cit., p. 224. In generale, sulle misure processuali introdotte da Costantino, cfr. De Marini Avonzo, La giustizia nelle province agli inizi del Basso Impero. I principi generali del processo in un editto di Costantino, in Studi Urbinati, 31, 1962-1963, p. 293 ss. (ora in Synteleia Arangio Ruiz, II, Napoli, 1964, p. 1037 ss.); Ead., La giustizia nelle province, cit., p. 171 ss.; Dupont, La procédure civile dans les constitutions de Constantin. Traits caracteristiques, in RIDA, 21, 1974, p. 191 ss.
[80] C. 7, 62, 12: Imp. Constantinvs A. ad Catullinvm. Minime fas est, ut in civili negotio libellis appellatoriis oblatis aut carceris cruciatus aut cuiuslibet iniuriae genus seu tormenta vel etiam contumelias perferat appellator, absque his criminalibus causis, in quibus, etiamsi possunt provocare, eum tamen statum debent obtinere, ut post provocationem in custodia, si fideiussoris idonei copiam non habeant, perseverent. D. III non. Nov. Treviris. Acc. XV k. Mai. Hadrvmeto Volvsiano et Anniano Conss.
[81] Jones-Martindale-Morris, The Prosopography of the Later Roman Empire (260-395), I, Cambridge, 1975, 187, Aco Catullinus, 2.
[82] Al frammento in esame vanno, infatti, unite la c. 1 C.Th. 9, 40: Imp. Constantinvs A. ad Catvllinvm. Qui sententiam laturus est, temperamentum hoc teneat, ut non prius capitalem in quempiam promat severamque sententiam, quam in adulterii vel homicidii vel maleficii crimen aut sua confessione aut certe omnium, qui tormentis vel interrogationibus fuerint dediti, in unum conspirantem concordantemque rei finem convictus sit et sic in obiecto flagitio deprehensus, ut vix etiam ipse ea quae commiserit negare sufficiat. Dat. III non. Nov. Trev(iris), acc. XV kal. Mai. Hadrvmet(o) Volvsiano et Anniano Conss., nonché la c. 1 C.Th. 11, 36: Imp. Constantinvs A. ad Catvllinvm. Moratorias dilationes frustratoriasque non tam appellationes quam ludificationes admitti non convenit. Nam sicut bene appellantibus negari auxilium non oportet, ita his, contra quos merito iudicatum est, inaniter provocantibus differri bene gesta non decet. Unde non homicidam vel adulterum vel maleficum vel veneficum, quae atrocissima facinora sunt, confessio propria vel dilucida et probatissima veritatis quaestio probationibus atque argumentis detexerit, provocationes suscipi non oportet, quas constat non refutandi spem habere quae gesta sunt, sed ea potius differre temptare. Qui de variis litibus causisque dissentiunt, nec temere nec ab articulis praeiudiciisque nec ab his, quae iuste iudicata sunt, provocare debebunt. Quod si reus in homicidii vel maleficii vel adulterii vel veneficii crimine partem: pro defensione sui ex testibus quaestioneque proposita possit arripere, parte vero obrui accusarique videatur, tunc super interposita appellatione ab eodem, qui sibi magis, quae pro se faciant, testimonia prodesse debere adfirmat, quam ea, quae adversus ipsum egerint, nocere, deliberationi nostrae plenum arbitrium relinquatur. Dat. IIII non. Nov. Trev(iris); acc. XV kal Mai. Hadrvmeti Volvsiano et Anniano Conss.
Su tale problema, Gotofredo, ad C.Th. 11, 30, 2: «Jungenda autem ei lex 1 sup. de poenis et lex 1 inf. quorum appel. non recip.».
Sul contenuto del provvedimento, cfr. Gaudemet, Constitutions constantiniennes, cit., p. 69 ss. (che parla di «edictum generale»); Piganiol, L’empereur Constantin, Paris, 1932, p. 107 s.; Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 41 ss. Su C.Th. 11, 40, 1 v., in particolare, Dupont, Le droit criminel dans les constitutions de Constantin. Les Peines, Lille, 1955, p. 25 ss. Per la datazione, cfr. Seeck, Regesten der Kaiser und Päpste für die Jahre 311 bis 476 n. Chr., Stuttgart, 1919 (rist. 1984), pp. 57 e 161; Mommsen, Theodosiani libri XVI cum constitutionibus Sirmondianis. Prolegomena, Berolini, 1905 (rist. 1970), p. CCX; Pharr, The Theodosian Code and Novels and the Sirmondian Constitutions, Princeton, 1952, ad h.l.
[83] Sul valore e sull’efficacia normativa delle costituzioni imperiali nella seconda metà del IV secolo si vedano le puntuali osservazioni del Cenderelli nella recensione al mio lavoro La legislazione di Valentiniano e Valente, in AG, 213, Milano, 1993, p. 457 ss.
[84] C.Th. 11, 30, 15: Imp. Constantinvs A. ad Concilivm provinciae Afric(ae). Non recte iudices iniuriam sibi fieri existimant, si litigator, cuius negotium sententia vulneratum est, a principali causa provocaverit, quod neque novum neque alienum a iudiciis est. Ideoque post negotium principale discussum litigatori liceat litem iuris remedio sublevare, et iudices observare debebunt, ne appellatores vel in carcerem redigant vel a militibus faciant custodiri. P(ro)p(osita) IIII kal. Avg. Karthag(ine) Constantino A. VIII et Constantino C. IIII Conss.
Cfr. Gotofredo, ad h.l.; Sargenti, Aspetti e problemi, cit., p. 224; Gaudemet, Constitutions constantiniennes, cit., p. 89 ss.; Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 55 ss.
[85] C.Th. 11, 30, 22: Impp. Constantivs et Constans AA. ad Scylacivm. Omnes praesides moneantur, ut, si quis provocatione sibi opus esse cognoscit, iuxta morem ordinemque legum accipiant libellos et ad eos qui consuerunt audire transmittant, nec appellantes iniuriarum adflictatione deterritos a suffragio necessariae defensionis expellant. Inponimus enim praesentis multae fascem, ut iudex, qui suscipere neglexerit, auri libras X et officium eius quindecim pendat. P(ro)p(osita) Cyzico VI kal. Mart. Placido et Romvlo Conss. Cfr. Sargenti, Aspetti e problemi, cit., p. 224.
[86] C.Th. 11, 30, 25: Impp. Constantivs et Constans AA. ad Lollianvm p(raefectvm) p(raetori)o. Quoniam iudices ordinarii provocationes aestimant respuendas, placet, ut, si quis appellationem suscipere recusaverit, quae non ab exsecutione vel a praeiudicio, sed a sententia iurgium terminante fuerit interposita, XXX pondo auri cogatur fisco inferre, triginta alias libras auri officio eius itidem soluturo. Dat. VIII kal Aug. Messadensi; p(ro)p(osita) Capvae Arbitione et Lolliano Conss.
Sul contenuto: Gotofredo, ad h.l.; Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 60. Sul significato di officium cfr. Cervenca, Il processo privato romano. Le fonti, Bologna, 1983, p. 231, nt. 87, per il quale il termine «è qui adoperato nel significato di «staff», indica cioè il personale posto alle dipendenze del magistrato».
[87] Jones, The Later Roman Empire (284-602), I, Oxford, 1964 (trad. it. Milano, 1974), p. 698.
[88] C.Th. 11, 30, 32: Impp. Val(entini)anvs et Valens AA. salvtem dicvnt ordini civitatis Karthaginis. Iudicibus non solum appellationis suscipiendae necessitas videtur inposita, verum etiam triginta dierum spatia definita sunt, intra quae negotii merita ad mansuetudinis nostrae scrinia conveniat destinari, iudice et officio, si statuta fuerint aliqua parte mutilata, multae subiacente. Dat. prid. non. Feb. Med(iolano) divo Ioviano et Varroniano Conss.
[89] C.Th. 11, 30, 33: Impp. Val(entini)anvs et Valens AA. ad Dracontivm vic(arivm) Afric(ae). Quicumque iudicum adversus auctoritatem legis appellationes neglexerit, protinus officio tuo, non rationalis, imminente ad viginti librarum auri exsolvendam multam cogetur, ita ut et officium eius triginta simili celeritate dissolvat. Dat. prid. id. Sept. Aquil(eiae); acc(epta) XVIII kal. Dec. Tacapis divo Ioviano et Varroniano Conss.
[90] La inscriptio della costituzione, infatti, reca i nomi di Valentiniano e Valente, ma la data indicata nella subscriptio – 4 febbraio 364 – è incompatibile con l’attribuzione ai due Augusti, poiché anteriore alla loro elevazione alla porpora imperiale, avvenuta il 26 febbraio (Amm., 26, 1, 5) per il primo ed il 28 marzo (Amm., 26, 4, 3) per il secondo. Se la data fosse esatta, la costituzione risulterebbe emanata da Gioviano, morto il 16 febbraio 364. Una simile attribuzione, però, non è priva di difficoltà, non foss’altro che per il riferimento a Milano, località dove mai Gioviano si trattenne nel corso del suo breve regno e dove in quel momento non si trovava, del resto, alcun imperatore (cfr. Mommsen, ad h.l.; Pharr, ad h.l.). Anche per queste ragioni, sia il Gotofredo (ad h.l.) che il Seeck (Regesten, cit., p. 220) hanno ritenuto opportuno uno spostamento della datazione, conservando così l’attribuzione ai due imperatori indicati nella inscriptio: il primo proponeva di modificare la subscriptio da PRID. NON. FEB. in PRID. NON. NOVEMBR., sciogliendo la sigla MED. non in Mediolanum bensì in Mediana – sobborgo di Naisso dove Valentiniano e Valente avevano fissato le loro comitivae (Amm., 26, 5, 1) nell’estate 364 – e che, riteneva il Gotofredo, etiam Valenti ad orbem suum redeunti Constantinopolim (transitum) praebuit. Il Seeck, dal canto suo, posticipava il testo al febbraio 365, ipotizzando che nella subscriptio la data fosse stata indicata con il post-consolato dell’anno precedente, che i compilatori del Codice Teodosiano avrebbero poi sostituito, volutamente o per errore, con il corrispondente consolato (Seeck, Regesten, cit., p. 70).
Oltre a considerazioni generali sulla politica legislativa di Gioviano (cfr. Pergami, Rilievi sulla produzione normativa dell’imperatore Gioviano, in Testimonium amicitiae, Milano, 1992, p. 257 ss.), ragioni paleografiche e storiche inducono a privilegiare l’ipotesi avanzata dal Seeck: è infatti discutibile, e comunque non suscettibile di alcun riscontro, che alla radice dell’errore di datazione sia un Novembr. quod in pridie non. febr. facile migravit.
È ancora più discutibile che la costituzione possa essere stata emanata, nel novembre 364, da Valente nel sobborgo di Naisso. In quella località, secondo Ammiano Marcellino, Valentiniano e Valente si trovarono insieme nel giugno di quell’anno, durante il viaggio da Costantinopoli verso l’Occidente, e nel sobborgo di Mediana si trovavano i loro comites. Ma non è per nulla sicuro che quel luogo figurasse nelle costituzioni emanate a Naisso e, tanto meno, è provato che Valente vi si trovasse di nuovo, nel novembre: esistono, anzi, indizi contrari, poiché da Sozomeno (Hist. Eccl. 6, 7, 8) risulta la presenza dell’imperatore ad Eraclea proprio nell’autunno 364. Su detti problemi e sulla necessità di unire a tale frammento la c. 15 C.Th. 11, 36 cfr. Gotofredo, ad h.l.: «Est vero huic conjungenda lex 15 inf. quorum appell. non recip.»; Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 61 ss. Sull’intero problema vedi Pergami, La legislazione, cit., p. 156 s.
[91] La costituzione 33, a differenza della precedente c. 32 h.t., non presenta problemi di datazione, anzi è una delle poche la cui subscriptio conserva entrambe le date e le località, di emanazione ad Aquileia e di ricezione in Africa.
[92] La circostanza è sottolineata dal Gotofredo, ad h.l.: «Secundo h.l. notandum quod Valentinianus poenam exigi jubeat, non ab Officio Rationalis, ut antea sub Constantino M. leg. 8 supr. verum ab Officio Vicarii sub cujus dispositione erant judices: et sic ab illius judicis Officio, ad quem judex factam appellatione respuit: sane enim a Rectoribus ad Vicarios appellatum, qui et ideo vice sacra judicabant».
[93] Una prescrizione più generica era prevista dall’editto di Diocleziano del 294, per cui il giudice era tenuto a trasmettere gli atti e la relazione al giudice superiore «sine aliqua dilatione» (C. 7, 62, 6, 6). Cfr. Bianchini, Le formalità costitutive, cit., p. 133 ss.; Litewski, Die römische Appellation, IV, cit., p. 183 ss.
[94] C.Th. 11, 30, 1: Imp. Constantinvs A. ad Clavdivm Plotianvm correctorem Lvcaniae et Brittior(vm). Si in negotio civili cognitis utrisque actionibus pronuntiaveris te ad nostram scientiam relaturum, consultationis exemplum litigatoribus intra decem dies edi aput acta iubeas, ut, si cui forte relatio tua minus plena vel contraria videatur, is refutatorias preces similiter, tibi aput acta offerat intra dies quinque, quam illi exemplum consultationis tuae obtuleris. Iam dicationis tuae est omnia, quae aput te vel aput alios gesta fuerint in eo negotio, consultationi tuae cum refutatoriis litigantis adnectere, ita ut scias et decem dies, intra quos edi consultationem oportet, et quinque, intra quos preces refutatoriae offerendae sunt, continuos debere servari. Nam quinque diebus transactis nec offerentem preces refutatorias litigatorem debebis audire, sed sine his, quoniam intra statutum tempos oblatae non sunt, gesta omnia ad nostram referre scientiam. Et cetera. Dat. III kal. Ian. Trev(iris) Constantino A. III et Licinio III Conss.
[95] C.Th. 11, 30, 8: Imp. Constantinvs A. ad Bassvm P(raefectvm) V(rbi). Manente lege, qua praescribtum est, intra quot dies opinionis sive relationis exemplum privatis iudex debeat exhibere et refutatorii libelli intra quot dies rursum iudicibus offerendi sint, tam in privatis quam etiam in fiscalibus causis ex eo die, quo fuerit quaestio terminata vel ex quo relationem iudex per sententiam promiserit, intra vicensimum diem quaecumque ad instructionem pertinent causae, ad comitatum nostrum properantissime volumus adferri. Quod nisi factum fuerit, ab universo officio viginti transactis diebus, quos post latam sententiam placuit supputari, intra viginti alios dies qui sequuntur tantum fisco nostro praecipimus inferri, quanti per aestimationem rationalis emolumentum litis, cuius subpressa fuerat instructio, fidelissime potuerit aestimari. Cui capitale supplicium imminebit, si rigorem legis quocumque modo mollire temptaverit. Eadem poena officio imminente, si quando appellatione vel consultatione pendente vel post decisas nostris responsionibus causas ei, quod ullo modo fuerit impetratum, damnabilem voluerit coniventiam commodare. Nam decreta nostra debet ingerere iudicanti ut ipso etiam dissimulante iudice reluctari et tamquam manibus iniectis eos de iudicio producere ac rationum officio traditos statuti prioris nexibus obligare, quorum desideriis violari nostras prospexerit sanctiones. P(ro)p(osita) IIII Kal. April. Rom(ae) Constantino A. V et Licinio C. Conss.
[96] C.Th. 11, 30, 29: Imp. Ivlianvs A. ad Hymetivm Vic(arivm) Urb(is). Omnes legitimae appellationes, quaecumque fuerint contra audientiam tuae gravitatis interpositae, indubitanter suscipiantur et post latam sententiam intra triginta dies universa, quae in eiusmodi negotio geruntur, cum refutatoriis precibus seu libellis ad nostrum comitatum mittantur, strenuo videlicet officiali ex his, qui tibi parent, ad hanc sollicitudinem electo, ita ut publicis monumentis confectis dies, quo gerulis gesta tradantur, fideliter designetur. Nam X librarum auri multae constituetur officium obnoxium, si statuta nostra aliqua fuerint dissimulatione violata. Dat. X kal. Octob. Antiochiae Mamertino et Nevitta Conss.
[97] C.Th. 11, 30, 30: Imp. Ivlianvs A. ad Germanianvm P(raefectvm) P(raetori)o. His, qui tempore competenti non appellant, redintegrandae audientiae facultas denegetur. Omnes igitur, qui contra praefectos urbi seu proconsules seu comites Orientis seu vicarios sub specie formidinis provocationem non arbitrantur interponendam, a renovanda lite pellantur. Nobis enim moderantibus rem publicam nullum audebit iudex provocationis perfugium iurgantibus denegare. Qui vero vim sustinuerint, contestatione publice proposita intra dies videlicet legitimos, quibus appellare licet, causas appellationis evidenti adfirmatione distinguant, ut hoc facto tamquam interposita appellatione isdem aequitatis adminicula tribuantur. Emissa XV kal. Ian. Mamertino et Nevitta Conss.
[98] C.Th. 11, 30, 35: Impp. Val(entini)anvs et Valens AA. ad Modestvm P(raefectvm) P(raetori)o. Cuncta instrumenta, quae iudiciis offerentur, subiecta consultationi gesta continere debebunt. Sed et acta, quae sint ante habita, et monumenta transmittenda sunt, hisque adnectenda sunt testimonia vel confessiones partium et omnia huiusmodi, in quibus causa consistit et habere exitum videatur. Dat. kal. Avg. Marcianop(oli) Val(entini)ano et Valente AA. Conss.
Una dettagliata disamina di tali formalità nel commento di Gotofredo, ad h.l.
[99] Il Seeck (Regesten, cit., p. 71) colloca questa costituzione nel 369, considerando che nessuno dei due consolati imperiali compatibili con la prefettura del pretorio di Modesto, il 370 ed il 373, si concilia con la località di Marcianopoli, dove Valente soggiornò durante le campagne contro i Goti (367-69), ma che lasciò per Costantinopoli al principio del 370 (l’anno 373 in particolare è escluso dal Pharr, ad h.l., il quale precisa appunto che «373 is excluded by the fact that this constitution was issued at Marcianopolis»). La data sarebbe stata, dunque, indicata con il post-consolato del 368, il secondo dei due imperatori. Questa ipotesi, a parte che è poco verosimile la datazione con il postconsolato in epoca così avanzata, non tiene conto del fatto che C.Th. 10, 23, 1, datata con l’indictio XII e indirizzata al predecessore di Modesto, Auxonio, mostra che questi era ancora in carica dopo l’1 settembre 369; e non è escluso che lo fosse anche più tardi, come appare da C.Th. 5, 1, 2, del 29 dicembre 369.
Più probabile è, dunque, che la costituzione sia, in realtà, dell’agosto 370 (questa è la prima ipotesi avanzata dal Pharr, ad h.l.). Nell’agosto di quell’anno Valente non era, è vero, a Marcianopoli, ma a Ierapoli. Ma non è detto che la data conservata nella subscriptio sia quella dell’emanazione e non quella della pubblicazione. Anzi, il contenuto della costituzione, di portata generale, attinente, com’è, alla disciplina degli atti processuali, induce a ritenere che, come in tanti altri casi, i compilatori teodosiani abbiano utilizzato un esemplare diretto al prefetto del pretorio d’Oriente e pubblicato nel territorio di sua giurisdizione, ma che si riferiva a tutto l’Impero.
[100] Sul punto, per tutti, Orestano, Appello, in ED, cit., p. 710 s., secondo il quale la consultatio «si diffuse enormemente e moltissime costituzioni dell’età post-classica ne trattano promiscuamente all’appello, stabilendo per vari aspetti una regolamentazione comune, tanto che non sempre è facile stabilire ciò che riguarda l’una o l’altro». Su questo problema, anche Bassanelli Sommariva, La legislazione processuale di Giustino I, cit., p. 169 ss.
[101] C.Th. 11, 30, 38: Imppp. Gr(ati)anvs, Val(entini)anvs et Theod(osivs) AAA. ad Syagrivm P(raefectvm) P(raetori)o. Post alia: In condemnationibus appellationes iubemus admitti. Dat. XIIII kal. Ivl. Gr(ati)ano V et Theod(osio) I AA. Conss.
[102] Jones-Martindale-Morris, Prosopography, cit., p. 862, Flavius Syagrius, 3.
[103] C. 7, 62, 25: Imppp. Gratianvs, Valentinianvs et Theodosivs AAA. ad Syagrivm PP. et in multis ab iudicibus inferendis appellationes iubemus admitti. D. XIIII k. Iul. Gratiano V et Theodosio AA. Conss.
[104] C.Th. 11, 30, 51: Idem AAA. Apodemio p(raefecto) p(raetori)o Illyrici et Ital(iae) II. Quibus causis non est provocatio respuenda, iubemus respuentem iudicem XXX librarum auri, obsecundantem officii gratiam quinquaginta esse feriendam. Dat. V id. Ivn. Constantinop(oli) Theod(osio) A. III et Abundantio Conss.
L’Idem AAA. dell’inscriptio farebbe riferire la costituzione, tenendo conto della successione dei testi nel Teodosiano, a Valentiniano, Teodosio ed Arcadio. Ma è evidente l’errore, in quanto Valentiniano era già morto ed il collegio imperiale era ormai formato da Teodosio, Arcadio ed Onorio.
Sul contenuto e, in particolare, sull’entità della sanzione cfr. Gotofredo, ad h.l.: «Respuenti appellantem judici ejusque officio multa gravissima hac Theodosii M. constitutione imponitur».
[105] C.Th. 11, 30, 60: Impp. Arcad(ivs) et Honor(ivs) AA. Pompeiano Proc(onsvli) Afric(ae). Cum de appellationibus recipiendis necne promulgatarum legum sufficiat auctoritas atque his, qui rite ab iniusta sententia provocantes erudire noluissent, sit poena proposita, poena etiam officio constituta, sive in criminalibus sive in civilibus causis fuerit iudicatum, attamen nostro etiam motu decernimus, ut veterum statuta serventur, quae nullum patimur umquam inpune violare. Dat. kal. Ivn. Med(iolano) Stilichone et Avreliano Conss. Gotofredo, ad h.l.: «De recipiendis, vel non, appellationibus; quaenam inquam appellationes recipiendae sint, quae non item, de respuentium Justam appellationem Judicum poenis, anteriores leges hac Honorii constitutione per Africam Proconsularem confirmantur».
[106] G.I. Luzzatto, Recensione a Orestano, L’appello civile in diritto romano, in Iura, 4, 1953, p. 361.
[107] C. 7, 62, 6, 3: Super his vero, qui in capitalibus causis constituti appellaverint (quos tamen et ipsos vel qui pro his provocabunt non nisi audita omni causa atque discussa post sententiam dictam appellare conveniet), id observandum esse sancimus, ut inopia idonei fideiussoris retentis in custodia reis opiniones suas iudices exemplo appellatoribus edito ac refutatorios eorum ad scrinia quorum interest transmittant, quibus gestarum rerum fides manifesta relatione pandatur, ut meritis eorum consideratis pro fortuna singulorum sententia proferatur. Sul punto, Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 96 (testo e nt. 84); Litewski, Die römische Appellation, IV, cit., p. 256 s.; Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 29 ss.
[108] C.Th. 11, 36, 1: Imp. Constantinvs A. ad Catvllinvm. Moratorias dilationes frustatoriasque non tam appellationes quam ludificationes admitti non convenit. Nam sicut bene appellantibus negari auxilium non oportet, ita his, contra quos merito iudicatum est, inaniter provocantibus differri bene gesta non decet. Unde cum homicidam vel adulterum vel maleficum, quae atrocissima facinora sunt, confessio propria vel dilucida et probatissima veritatis quaestio probationibus atque argumentis detexerit, provocations suscipi non oportet, quas constat non refutandi spem habere quae gesta sunt, sed ea potius differre temptare. Qui de variis litibus causisque dissentiunt, nec temere nec ab articulis praeiudiciisque nec ab his, quae iuste iudicata sunt, provocare debebunt. Quod si reus in homicidii vel maleficii vel adulterii vel veneficii crimine partem pro defensione sui ex testibus quaestioneque proposita possit arripere, parte vero obrui accusarique videatur, tunc super interposita appellatione ab eodem, qui sibi magis, quae pro se faciant, testimonia prodesse debere adfirmat, quam ea, quae adversus ipsum egerint, nocere, deliberationi nostrae plenum arbitrium relinquatur. Dat. IIII non. Nov. Trev(iris); Acc. XV kal. Mai. Hadrvmeti Volvsiano et Anniano Conss.
Sul significato di praeiudicium nella legislazione tardoimperiale cfr., per tutti, De Marini Avonzo, «Praeiudicium», in NNDI, XIII, Torino, 1966, p. 540 ss., in particolare p. 543 anche per la bibliografia precedente. Cfr. anche Triantaphyllopoulos, Praeiudicium, in Labeo, 8, 1962, p. 73 ss., in particolare p. 90 ss.; Pugliese, La «cognitio» e la formazione dei principi teorici sull’efficacia del giudicato, in Studi Biondi, II, Milano, 1965, p. 141 ss.; Id., Giudicato civile (storia), in ED, XVIII, Milano, 1969, p. 752 ss.; Zilletti, Studi sul processo civile giustinianeo, Milano, 1965, p. 226 ss.; Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, cit., p. 496 ss.; Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 47 s.; Molé, Sentenza (Diritto romano), in NNDI, XVI, Torino, 1969, p. 1097 ss.; Bassanelli Sommariva, La legislazione processuale di Giustino I, cit., p. 206 ss.; De Robertis, Sull’accezione di «interlocutio», in CIL., VI, 266 («Lis fullonum»), in Studi Scherillo, I, Milano, 1972, p. 165 ss.; Litewski, Die römische Appellation, II, cit., p. 244, nt. 48; Hackl, «Praeiudicium» im klassischen römischen Recht, Salzburg, 1976, p. 27, nt. 1; Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 44.
Sul significato del divieto di appello ab articulo, cfr. anche Gotofredo, ad C.Th. 11, 36, 2 e 3; Pharr, ad C.Th. 11, 36, 3, parla di «appeal from a special point»; Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., pp. 44 e 55, sebbene ritenga che i sostantivi articulus e praeiudicium siano «promiscuamente usati nelle costituzioni tardo-imperiali», specifica che strictu sensu «articulus significa decisione (istruttoria o di merito) su di un singolo punto della causa proposta». Sul contenuto delle costituzioni 2 e 3 C.Th. 11, 36 cfr., per tutti, Gaudemet, Constitutions constantiniennes, cit., p. 75 ss.; Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 44 ss.; Litewski, Die römische Appellation, II, cit., p. 248 ss.
[109] C.Th. 11, 36, 5: Impp. Constantivs et Constans AA. ad Albinvm Vic(arivm) Hispaniar(vm). Cum maior substantia litigi sit, a praeiudicio provocans XXX librarum argenti pondere plectatur: in minoribus etiam negotiis quindecim pondo argenti exsolvat. Dat. VII id. April. Marcellino et Probino Conss. Sul contenuto cfr., da ultimo, Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 57 ss.
[110] Cfr., sul punto, Andreotti, Incoerenza della legislazione dell’imperatore Valentiniano I, in NRS, XV, 1931, p. 476 ss.: «ma dove Valentiniano introdusse una riforma sistematica, fu nella delicatissima materia dell’appello»; Soraci, L’imperatore Valentiniano I, Catania, 1971, p. 210 s.
Completano il quadro delle ipotesi di inammissibilità del gravame introdotte da Valentiniano e Valente il divieto per gli officiales di appellare contro le sentenze di condanna emesse dai loro giudici naturali (C.Th. 11, 36, 17: Impp. Val(entini)anvs et Valens AA. ad Modestvm P(raefectvm) P(raetori)o. Nulli officialium a sententia proprii iudicis provocatio tribuatur nisi in eo tantum negotio, quod ratione civili, super patrimonio forsitan, aput proprium iudicem inchoarit, scilicet ut in eo tantum negotio a sententia eius cui paret iudici quisquis velit officialis appellet, quod per procuratorem persequi iure tribuitur Dat. IIII id. Ivn. Cyzico Valentiniano et Valente AA. Conss.); l’inappellabilità delle sentenze di condanna per i crimini confessati (C.Th. 11, 36, 18, 3) e dei provvedimenti resi in forza della procedura per interdictum quorum bonorum, a motivo delle finalità cautelari e del carattere provvisorio di tale procedura (C.Th. 11, 36, 22: Impp. Val(entini)anvs, Valens et Gr(ati)anvs AAA. ad Clavdivm P(raefectvm) U(rbi). In interdicto quorum bonorum cessat licentia provocandi ne, quod beneficio celeritatis inventum est, subdatur iniuriis tarditatis. Dat. XII kal Ivn. Trev(iris) Gr(ati)ano A. III et Eqvitio Conss.). Su tale divieto cfr. Litewski, Die römische Appellation, II, cit., p. 299. Va tuttavia sottolineato che la rigida legislazione posta in essere dagli imperatori Valentiniano I e Valente nel periodo di comune governo non impedì la contestuale previsione, nell’ambito delle costituzioni già esaminate, di numerose eccezioni (Lemosse, A propos du régime des exceptions dans le procès postclassique, in Studi Sanfilippo, I, Milano, 1982, p. 241 ss.; Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 65 s.), riconducibili a tre fattispecie generali [sulla genuinità di tali ipotesi cfr. Gradenwitz, Weitere Interpolationen im Theodosianus, in ZSS, 38, 1917, p. 47]: A) casi di ammissibilità dell’appello ante definitivam sententiam (C.Th. 11, 36, 18). La c. 18 C.Th. 11, 36 ammette, in casi determinati, la possibilità di impugnare una sentenza non definitiva. Si considerano, in particolare, le seguenti ipotesi: 1) la proposizione della domanda e la instaurazione della lite in foro non competente (si tamen in iudicio conpetenti negotio fuerit inchoatum); 2) la proposizione di una eccezione (exceptio obponitur); 3) la mancata possibilità di ottenere un locus ad agendum (ad agendum locus poscitur); 4) la mancata concessione di un rinvio (dilatio) al fine di produrre nuovi documenti (instrumenta) o per assumere prove testimoniali (testes) [sul valore meramente esemplificativo di tali mezzi istruttori, Litewski, Die römische Appellation, II, cit., p. 260, nt. 100]. In tutti i casi, fatta salva l’ipotesi di incompetenza, il gravame è ammesso a condizione che il diniego da parte del giudice sia stato motivato da inpatientia vel iniquitas [su tale espressione cfr. Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 53, nt. 35]. B) Ammissibilità dell’appello ab exsecutione (C.Th. 11, 36, 18). Anche le pronunce passate in giudicato possono essere impugnate dal soccombente ove siano intervenuti vizi nella modalità di esecuzione della sentenza (si tamen exsecutoris vitio minime modus sententiae), fermo restando il valore definitivo del dispositivo, che non può essere soggetto a nuovo ed ulteriore sindacato da parte del giudice di seconda istanza [sul punto Litewski, Die römische Appellation, II, cit., p. 239 e nt. 32]. C) Ammissibilità dell’appello contro le sentenze di condanna degli officiales (C.Th. 11, 36, 17). Analoga eccezione al principio generale di inappellabilità delle sentenze di condanna degli officiales si applica nelle ipotesi in cui esse scaturiscono da negozi che coinvolgano il patrimonio (nisi in eo tantum negotio, quod ratione civili super patrimonio forsitan aput proprium iudicem incoharit). Ogni officiale, dunque, anche a mezzo di un procuratore (quod per procuratorem persequi iure tribuitur), potrà appellare le sentenze che decidano in ordine a cause civili, rimanendo tassativamente escluso il principio del doppio grado di giurisdizione e, pertanto, la facoltà di impugnativa delle sentenze penali. Su tali eccezioni, in generale, cfr. Litewski, Die römische Appellation, II, cit., p. 260 ss.; Raggi, Studi sulle impugnazioni civili, cit., p. 168 s.)
[111] C.Th. 11, 36, 16: Impp. Val(entini)anvs et Valens AA. ad Symmachvm P(raefectvm) U(rbi). Interpositas appellationes a praeiudicio vel ab exsecutione damnantes et eum, qui ab istiusmodi titulis provocaverit, et officium, quod non renuntiarit, quinquagenas argenti libras fisco nostro iubemus inferre, litem suam faciente iudice qui recepit. Dat. VIII id. Octob. Altino; Acc(epta) XVI kal. Nov. Divo Ioviano et Varroniano Conss. Il Gotofredo (ad h.l.) voleva unire questa costituzione alla precedente c. 7 De poenis ed alle successive cc. 7 De pistoribus et catabolensibus e 1 De nautis Tiberinis. In proposito cfr. Bianchini, Caso concreto e lex generalis: per lo studio della tecnica e della politica normativa da Costantino a Teodosio II, Milano, 1979, p. 60, nt. 103 e p. 68, nt. 128. Il Seeck (Regesten, cit., p. 218) si limita a riunire questa e la successiva 14, 21, 1. Ma la diversità di contenuto, e per la 9, 40, 7 anche di destinatario, rende poco probabile che si tratti di un unico provvedimento.
Sul significato del divieto di appello ab exsecutione cfr. Gotofredo, ad C.Th. 11, 36, 3: «Peculiaris autem ratio, cur ab exsecutione appellare fas non sit, haec redditur, quod sera sit haec appellatio, cum a sententia facultas appellandi peteret. Qui sententiae semel acquievit, non appellando, ubi ad eius exsecutionem venturo est, iam sero appellat; et sibi imputet, qui facultate appellandi in tempore usus non est». Gradenwitz, Weitere Interpolationen, cit., p. 38 ss.; Raggi, Studi sulle impugnazioni civili, cit., p. 148 ss.; Litewski, Die römische Appellation, II, cit., p. 235 ss.
In generale, sulla giurisdizione d’appello del praefectus urbi, per tutti, Chastagnol, La préfecture urbaine à Rome sous le Bas Empire, Paris, 1960, p. 130 ss.; De Martino, Storia della costituzione romana, V, Napoli, 1975, p. 343 ss.; Litewski, Die römische Appellation, II, cit., p. 285.
[112] Sulla nozione di giudicato: Marrone, Effetto normativo della sentenza, Palermo, 1960, nonché Pugliese, Giudicato civile, cit., p. 752 ss.; Id., Due testi in materia di res iudicata, in Studi Zanobini, V, Milano, 1962, p. 489 ss. Si veda anche Biondi, Appunti intorno alla sentenza nel processo civile romano, in Studi Bonfante, IV, Milano, 1930, 55 ss. in part. p. 95 ss.
[113] C.Th. 11, 36, 15: Impp. Val(entini)anvs et Valens AA. salvtem dicvnt ordini civitatis Karthaginiensivm. Post alia: Ab executione vel a praeiudicio provocantes decrevimus non admitti, in tantum, ut contra definita facientes quinquaginta libras argenti condemnatione feriantur. Dat. prid. non. Feb. Med(iolano) Divo Ioviano et Varroniano Conss.
[114] II frammento, da unire a C.Th. 11, 30, 32 (su cui Mommsen, Prolegomena, cit., p. CCXXXVIII), secondo la subscriptio, dovrebbe essere datato al 4 febbraio 364 e sarebbe stato emanato a Milano: datazione e località inaccettabili, poiché né Valentiniano né Valente erano ancora al potere il 4 febbraio 364 e tanto meno si trovavano a Milano. Anche il Pharr, ad h.l., precisa che «Valentinian was not at Milan on this date» e propone, in alternativa, il 364 e il 365. Il Gotofredo (ad h.l.) suggeriva di modificare la subscriptio in prid. non. nov., per le stesse ragioni addotte a proposito della coeva 10, 1, 8, sulla quale cfr. Pergami, Rilievi, cit., p. 270 ss. La correzione sembra, però, paleograficamente difficile. Più accettabile l’ipotesi del Seeck (Regesten, cit., p. 71 s.) secondo il quale la costituzione deve essere riportata al febbraio del 365, trattandosi di uno dei casi in cui l’anno veniva indicato con la formula del postconsolato: P.C. Divi Ioviani et Varroniani.
Sul contenuto, da ultimo, Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 62 ss.
[115] C.Th. 11, 36, 18: Impp. Val(entini)anvs et Valens AA. ad Symmachvm P(raefectvm) V(rbi). Post alia: Nullum audiri provocantem ante definitivam sententiam volumus, si tamen in iudicio conpetenti negotium fuerit inchoatum, salva scilicet iuris antiqui moderatione atque sententia, cum vel exceptio obponitur vel ad agendum locus poscitur vel dilatio instrumentorum causa aut testium postulatur atque haec inpatientia vel iniquitate iudicum denegantur. Similiter ne ab exsecutione quidem provocantem admitti convenit, si tamen executoris vitio minime modus sententiae transeatur. In fiscalibus quoque vel manifestis debitis et criminalibus confessis negotiis nec non etiam praeiudiciis omnis prava repugnantium amputetur intentio. Postremo universas appellationes, quas iura inprobant, non oportet audiri. Dat. XIII kal. Ian. Med(iolano) Val(entini)ano et Valente AA. Conss.
[116] Il Seeck (Regesten, cit., p. 85) vorrebbe retrodatare la costituzione al dicembre 364: ipotesi che potrebbe essere accettata supponendo che nella subscriptio sia caduta l’indicazione dell’anno consolare di emissione e sia rimasta quella dell’anno successivo in cui la costituzione sarebbe stata pubblicata a Milano.
Considerando il contenuto di questa costituzione e della precedente C.Th. 11, 31, 2, pure in materia di appello e indirizzata allo stesso praefectus urbi Simmaco, si può anche affacciare l’ipotesi che qui non sia corrotta l’indicazione dell’anno consolare, ma quella del mese (che il Mommsen, Prolegomena, cit., p. CCXLV, indica dubitativamente) e del giorno, e che il testo riportato dai compilatori sotto il titolo Quorum appellationes non recipiantur sia tutt’uno con quello di C.Th. 11, 31, 2. A favore di questa ipotesi sta anche il «post alia» che apre questo frammento. Il Pharr, ad h.l., propone entrambe le date (364 e 365). Sul punto, cfr. Pergami, La legislazione, cit., 122.
[117] Sul significato degli appelli ante sententiam nell’età dei Severi, si veda Orestano, L’appello civile, cit., p. 266 ss.; Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 18 ss. Per il Tardo Impero, in particolare, cfr. Biondi, Intorno alla romanità del processo civile moderno, in BIDR, 42, 1934 (ora in Scritti Giuridici, cit., II, p. 369 ss.); Vincenti, Per uno studio, cit., p. 65 ss.; Id., «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 33 ss. Per la letteratura più risalente, Collinet, La procédure par libelle, Paris, 1932, p. 329 ss.
Sulla frequenza del ricorso all’imperatore ante sententiam nelle fonti letterarie, cfr. Vera, Commento storico alle Relationes di Quinto Aurelio Simmaco, Pisa, 1981, p. 128 ss. (per la relatio 16); p. 203 ss. (per la relatio 28); p. 247 ss. (per la relatio 33); Navarra, Riferimenti normativi, cit., p. 98 ss.
Sulle Relationes di Simmaco in tema di appello cfr., per tutti, De Bonfils, Prassi giudiziaria e legislazione nel IV secolo (Symm., rel. 28), in RISG, 17, 1973, p. 146 ss.; Id., Prassi giudiziaria e legislazione nel IV secolo. (Symm., rel. 33), in BIDR, 78, 1975, p. 285 ss.; Id., Sulla «relatio» 33 di Simmaco, in Atti Seminario Romanistico Gardesano (19-21 maggio 1976), Milano, 1976, 139 ss.
Da ultimo, dettagliato esame della dottrina in ordine alle sentenze non definitive, Serangeli, Diritto romano e «Rotae provinciae Marchiae», Torino, 1994, p. 179 ss.
[118] Sul contenuto si veda, ampiamente, Gotofredo, ad h.l.; Bianchini, Caso concreto, cit., p. 58 ss. e la bibliografia ivi citata, nonché la recensione della De Marini Avonzo, in IVRA, 30, 1979, p. 146 s.; Biondi, Il diritto romano cristiano, I, cit., p. 429 s.; Gaudemet, La formation du droit séculier et du droit de l’Église au IVe et Ve siècle, Paris, 1975, p. 194, nt. 1; Ch. Pietri, Roma christiana. Recherches sur l’Église de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Sixte III (311-440), I, Roma, 1976, p. 747, nt. 1; Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 58, nt. 53 e p. 80, nt. 17; Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 118 s.
[119] Se è esatta la data risultante dalla subscriptio non può, infatti, trattarsi del praefectus urbi Claudio (o Clodio) Ermogeniano Cesario, che rivestì quella carica nel 374, come risulta, oltre che dalle notizie di Ammiano (Amm., 27, 3, 2; 29, 6, 17) dall’iscrizione di un altare a lui dedicato (Cil 6, 499 = Dessau 4147) e da un’altra costituzione a lui indirizzata, contenuta nello stesso titolo del Teodosiano (11, 36, 22 del 21 maggio 374). Deve trattarsi, invece, di quel Petronius Claudius che fu proconsole d’Africa dal 368 al 370 [v., in proposito 16, 2, 18 del 17 febbraio 365 (ma 370), nonché 14, 3, 12 del 1 dicembre 368 (?), 12, 12, 6 del 2 febbraio 369, 13, 1, 8 del 26 aprile 370]. Conformi: Seeck, Regesten, cit., p. 236; Pharr, ad h.l., il quale scrive che il destinatario «should be: Proconsul of Africa». In tale senso anche Bianchini, Caso concreto, cit., 59. Vedi anche Jones-Martindale-Morris, Prosopography, cit., p. 208, Petronius Claudius 10, in cui si precisa che il destinatario della costituzione sarebbe stato «wrongly styled p.u.». Da ultimo, cfr. anche Soraci, Il «privilegium christianitatis» e i «fisci commoda» durante il regno di Valentiniano I, in Quad. Cat. cultura class. e mediev., II, 1990, p. 278, nt. 129 (=Studi Mazzarino, III, Catania, 1993, p. 278, nt. 129).
[120] Sul significato di multa argentaria, che «désigne une amende en métal argent et non point en monnaie d’argent», cfr. Andreau, La vie financière dans le monde romain. Les métiers de manieurs d’argent (IVe siècle av. J.C.-IIIe siècle ap. J.C.), Roma, 1987, p. 62, nt. 4; Piganiol, L’empire chrétien (325-395), Paris, 1947, p. 368; Gaudemet, L’Église dans l’Empire romain (IVe-VIe siècles), Paris, 1958, p. 293.
[121] Per tutti, Bianchini, Caso concreto, cit., p. 67 s., la quale ritiene che «l’istanza sia stata respinta in quanto diretta contro l’esecuzione della pronuncia …»; Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 80, nt. 17: «la sanzione … punisce verosimilmente l’appello ab exsecutione …». In tale senso anche Soraci, Il «privilegium christianitatis», cit., p. 278, nt. 129, secondo il quale «l’imperatore, ritenendo irricevibile l’appello del vescovo Chronopius, … assoggetta il chierico appellante sia ab exsecutione … sia ante definitivam sententiam … ad una multa pecuniaria di cinquanta libbre d’argento a favore dei poveri». Diversa interpretazione propone Biondi, Il diritto romano cristiano, III, cit., p. 430: «Perché l’appello era inammissibile? Non perché le sentenze del prefetto del pretorio fossero inappellabili, giacché, a parte che qui si tratta del praefectus urbi, questi interviene solo per dare esecuzione alla decisione dei 70. La ragione può essere questa: la decisione dei 70, resa esecutiva dal praefectus urbi è inappellabile, in quanto l’imperatore non può entrare in merito alla decisione dei vescovi». Vedi, da ultimo, Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 118 s.
[122] Sulla giurisdizione vice sacra del proconsul Africae, per tutti, De Martino, Storia della costituzione, cit., V, p. 487.
[123] C. 1, 4 De episcopali audientia et de diversis capitulis, quae ad ius curamque et reverentiam pontificalem pertinent, 2: Impp. Valentinianvs, Valens et Gratianvs AAA. ad Clavdivm P(raefectvm) V(rbi). Si clericus ante definitivam sententiam frustratoriae dilationis causa ad appellationis auxilium convolaverit, multam quinquaginta librarum argenti, quam contra huiusmodi appellatores sanctio generalis imponit cogatur expendere. Hoc autem non fisco nostro volumus accedere, sed pauperibus fideliter erogari. D. VIII id. Ivl. Valentiniano n.p. et Victore Conss.
[124] In tal senso Solazzi, Ancora glossemi e interpolazioni nel Codice Teodosiano, in SDHI, 13-14, 1947-1948, p. 207 (ora in Scritti di diritto romano, V, Napoli, 1972, 51): «Giustiniano con la c. 1, 4, 2 (= C. 7, 65, 4a) ha meritatamente sepolto nell’oblio le disavventure di Cronopio e tratto dalla costituzione dell’a. 369 la regola generale che assoggetta i chierici alla sanzione comune»; De Marini Avonzo, Recensione a Bianchini, Caso concreto, cit., p. 147: «anche qui possiamo seguire le varie tappe sul corso della composizione «sistematica» di un istituto». Per il Soraci, Il «privilegium christianitatis», cit., p. 278, l’estensione del disposto particolare a regola generale risulta dalla chiusa della stessa versione teodosiana (quod in hac causa et in ceteris ecclesiasticis fiat).
[125] Sull’inappellabilità della sentenza ante definitivam sententiam nella versione giustinianea cfr. Biondi, Appunti, cit., p. 47 ss.; Balogh, Beiträge zum Justinianischen Libelprozess, in Studi Riccobono, II, Palermo, 1936, p. 517; Litewski, Sulle impugnazioni civili, in Labeo, 11, 1965, p. 230 ss.
[126] C.Th. 11, 36, 25: Imppp. Valens, Gr(ati)anvs et Val(entini)anvs AAA. ad Thalassivm Proc(onsvlem) Afric(ae). Post alia: Ab exsecutione appellari non posse satis et iure et constitutionibus cauturn est, ita ut appellantem etiam nostris sanctionibus statuta multa compescat, nisi forte executor sententiae modum iudicationis excedat. A quo si fuerit appellatum, executione suspensa decernendum putamus, ut, si res mobilis est, ad quam restituendam exsecutoris opera fuerit indulta, appellatione suscepta possessori res eadem detrahatur et idoneo collocetur reddenda ei parti, pro qua sacer cognitor iudicaverit. Quod si de possessione vel fundis exsecutio concessa erit et eam suspendent provocatio, fructus omnes, qui tempore interpositae provocationis capti vel postea nati erunt, in deposito conlocentur, iure fundi penes eum qui appellaverit constituto. Sciant autem se provocatores vel ab exsecutione appellantes vel ab articulo ex his dumtaxat causis, ex quibus recipi iussimus provocationem, si eos perperam intentionem cognitoris suspendisse claruerit, quinquaginta librarum argenti animadversione multandos. Dat. III kal. Feb. Trev(iris) Valente VI et Val(entini)ano II AA. Conss. Sul contenuto, ampiamente, Gotofredo, ad h.l.; Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 69 ss.
[127] C.Th. 11, 36, 30: Impp. Gratianvs, Val(entini)anvs et Theod(osivs) AAA. ad Florentinvm com(item) s(acrarvm) l(argitionvm). Saepe cautum est evidentissimos debitores appellantes audiri nullatenus oportere, deinde ab exsecutione adeo posse neminem provocare, ut, si hoc forte temptaverit ut postea a praeiudicio appellans, ad quinquaginta librarum argenti multam iure retinendus sit. Et cetera. Dat. VII kal. Dec. Aquil(eiae) Arc(adio) A. I et Bavtone Conss.
[128] C.Th. 11, 36, 12. Preme qui rilevare come nella c. 26 C.Th. 11, 30, parte verosimilmente di un’unica costituzione (Gotofredo, ad h.l.: «lex 12 infr. quor. appellat., quae huic coniungenda et h.l.: emittenda est»; Seeck, Regesten, cit., p. 201; Mommsen, Prolegomena, cit., p. CCXXXI), sia ammesso l’appello per le sentenze, quae pertinent ad bona vacantia, et caduca et ad ea quae indignis legibus cogentibus auferuntur. Cfr. Astolfi, I beni vacanti e la legislazione caducaria, in BIDR, 68, 1965, p. 323 ss. Sull’inappellabilità delle sentenze che coinvolgessero «die Interessen des Aerarium, sondern des Fiskus, im der res privata Caesaris», cfr. Litewski, Die römische Appellation, II, cit., p. 301 ss.
[129] C.Th. 11, 36, 8. Sulla giurisdizione d’appello dei comites cfr. Delmaire, Largesses sacrées et «res privata». L’«aerarium» et son administration du IVe au Ve siècle, Roma, 1989, p. 85 ss.
[130] C.Th. 11, 36, 6: Impp. Constantivs et Constans AA. ad Leontivm. In civilibus causis appellationis beneficium saepe sanximus non oportere differri. In fiscalibus vero vel rei privatae causis, hoc est ob debitum rennuendum vel munera respuenda, si quis appellare voluerit contra utilitatem fisci vel rei privatae, appellationem oblatam cessare oportet nec libellos huiusmodi suscipi, qui in damna fiscalia commodum sententiae latae aut dilatione suspendant aut terrore detorqueant. Dat. V id. Mai. Antiochiae Constantio III et Constante II AA. Conss. Sul contenuto cfr. Litewski, Die römische Appellation, II, cit., p. 305; Cerami, Contrahere cum fisco, in AUPA, 34, 1973, p. 277 ss., in particolare p. 309 ss.
[131] Sulla consistenza della res privata principis cfr., per tutti, Masi, Ricerche sulla «res privata» del «princeps, Milano, 1971, p. 55 ss.; De Martino, Storia della costituzione, cit., V, p. 430 ss.; Delmaire, Largesses sacrées, cit., p. 21 ss.; Voci, Nuovi studi sulla legislazione romana del tardo impero, Padova, 1989, p. 27 ss. Cfr. anche la recensione al lavoro del Voci di Sargenti, in SDHI, 56, 1990, p. 487 ss. Per una visione d’insieme: Coli, voce Fisco (Diritto romano), in NNDI, VII, 1961, p. 381 ss.; Burdese, voce Fisco, in ED, 17, 1968, p. 673 ss.
[132] C.Th. 11, 36, 8: Impp. Constantivs et Constans AA. Theodoro Cons(vlari) Syriae Coeles. In fiscalibus debitis nullius provocationem tua gravitas censeat admittendam. Nec enim commodum publicum fas est diuturna frustratione suspendi nec eludendi licentiam callidis fraudatoribus relaxari. Dat. VIII id. Mart. Ancyrae Evsebio et Rvfino Conss.
[133] C.Th. 11, 36, 9: Impp. Constantivs et Constans AA. ad Cerealem P(raefectvm) V(rbi). Calliditatis auxilio perspicui debitores rei privatae nostrae solutionem cupiunt evitare frustratoriis provocationibus interpositis. Ideoque decrevimus minime convenire huiuscemodi vocem appellationis admitti. Dat. X kal. Avg. Constantio A. VI et Constante C. Conss.
[134] C.Th. 11, 36, 10: Impp. Constantivs et Constans AA. ad Proclianvm Procons(vlem) Afric(ae). Placuit quinquaginta pondo argenti fisco inferre prudentiam tuam, si frustratoriam provocationem contra commodum fisci susceperis solutionemque vitanti praebueris culpabilem coniventiam. Dat. XV kal. Feb. Consta(nti)nop(oli); Acc. X kal. Avg. Karthag(ine) Constantio A. VII et Constante Caes. Conss.
[135] C.Th. 11, 36, 13: Impp. Constantivs et Constans AA. ad Probvm Proc(onsvlem) Afric(ae). Cum constet iam dudum esse nostra sanctione praeceptum, ne aliquis, cum fiscale debitum postulatur, audeat provocare, proconsulare officium, si patientiam commodaverit, XXX pondo auri fisco cogatur inferre. Dat. VIIII kal. Ivl. Sirmio Datiano et Cereale Conss.
[136] Andreotti, Incoerenza, cit., p. 476 ss. Il problema dei fisci commoda sotto il regno di Valentiniano e Valente è affrontato, da ultimo, dal Soraci, Il «privilegium christianitatis», cit., p. 276 ss., cui rinvio anche per le indicazioni bibliografiche.
[137] In questo senso, Fasolino, L’imperatore Valentiniano I. L’impero e i problemi storiografici, Napoli, 1976, p. 30.
[138] C.Th. 11, 36, 18: Impp. Val(entin)anvs et Valens AA. ad Symmachvm P(raefectvm) V(rbi). Post alia: Nullum audiri provocantem ante definitivam sententiam volumus, si tamen in iudicio conpetenti negotium fuerit inchoatum, salva scilicet iuris antiqui moderatione atque sententia, cum vel exceptio obponitur vel ad agendum locus poscitur vel dilatio instrumentorum causa aut testium postulatur atque haec inpatientia vel iniquitate iudicum denegantur. Similiter ne ab exsecutione quidem provocantem admitti convenit, si tamen executoris vitio minime modus sententiae transeatur. In fiscalibus quoque vel manifestis debitis et criminalibus confessis negotiis nec non etiam praeiudiciis omnis prava repugnantium amputetur intentio. Postremo universas appellationes, quas iura inprobant, non oportet audiri. Dat. XIII Kal. Ian. Med(iolano) Val(entini)ano et Valente AA. Conss.
L’anno consolare indicato nella subscriptio è quello del primo consolato di Valentiniano e Valente, ma la costituzione non può essere stata emanata a Milano nel 365, poiché Valentiniano si trovava, già dall’autunno, a Parigi (Amm., 26, 5, 8) e Simmaco non era più praefectus urbi, essendo stato sostituito da Volusiano sin dall’aprile di quell’anno (C.Th. 1, 6, 5). Seeck (Regesten, cit., p. 85) vorrebbe retrodatare il provvedimento all’anno 364: ipotesi che potrebbe essere accettata, supponendo che nella subscriptio sia caduta l’indicazione dell’anno consolare di emissione e sia rimasta quella dell’anno successivo in cui la costituzione sarebbe stata emanata a Milano.
Sui rapporti tra questa costituzione e la c. 11, 31, 2, cfr. Pergami, La legislazione, cit., p. 122.
[139] Anche il Padoa Schioppa, Ricerche, cit., pp. 44 e 70, parla di debiti manifesti senza chiarirne il significato ed il Pharr, ad h.l., traduce semplicemente con «manifest debts». Poco concludente ciò che osserva il Litewski (in Labeo, 19, 1973, p. 222) nella recensione al volume di Padoa Schioppa, ove si legge che per debito manifesto deve intendersi una particolare categoria «del genere dei debiti fiscali, per i quali non era ammesso il ricorso in appello (appunto per i debiti manifesti). A prova di tale interpretazione esiste un argomento di notevole importanza: se, infatti, si ammettesse che con riguardo ai debita manifesta il divieto di ricorrere in appello sia senza eccezione, non si capirebbe per quale ragione in molte fonti questa proibizione venga messa in rilievo proprio nelle cause fiscali».
[140] Gotofredo, ad C.Th. 11, 36, 1, equipara i crimini confessati a quelli «convicti», cioè quelli dai quali emergerebbe una «dilucida et probatissima vel exploratissima veritas».
[141] A favore di tale interpretazione la lettura di PS. 5, 35, 2: «Moratorias appellationes et eas, quae ab exsecutoribus et confessis fiunt, recipi non placuit». Contra, seppure dubitativamente, Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 44, nt. 5: «Non sembra invece che l’appello sia stato escluso dopo una sentenza civile fondata sulla confessione di una parte». Critico verso tale ultima tesi Litewski, Recensione a Padoa Schioppa, cit., p. 223; Id., Die römische Appellation, III, p. 369 ss.
[142] Sull’esistenza di un principio generale che prevede l’inappellabilità delle sentenze fondate sulla confessione, cfr. Fadda, voce Appello penale romano, in DI, IV, 1, Torino, 1896, p. 56, nt. 9. Contra: Scapini, Principio del «doppio grado di giurisdizione», cit., p. 691, nt. 25. Considera l’appello, civile o penale che sia, un istituto unitario, pensando che esso si «diversifica soltanto per il diverso campo in cui si attua», la Campolunghi, Gli effetti sospensivi dell’appello in materia penale. A proposito di Scaev., D. 26, 7, 57, 1, in BIDR, 75, 1972, p. 151, nt. 2.
[143] Accenna al significato di functio tributaria, menzionata pure in C.Th. 13, 10, 8 e C.Th. 13, 11, 4, Cerati, Caractère annonaire et assiette de l’impôt foncier au Bas Empire, Paris, 1975, p. 29 ss.; Pharr, ad h.l.: «customary payment of tribute».
[144] Secondo lo Scapini, Principio del «doppio grado di giurisdizione», cit., p. 701, l’espressione dovrebbe essere riferita al solo debito fiscale «manifesto e irrefutabilmente provato». Al contrario, il Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 70, nt. 93 ritiene che il requisito in esame si riferisca ai soli debiti privati.
[145] Gotofredo, ad h.l.: «Publicum debitum accipio de muneribus publicis ordinariis … Tandem privati debiti appellatione intelligo causas rei privati Principis».
[146] Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 44, nt. 5 e p. 70, nt. 92.
[147] Sui beni appartenenti alle città, vedi, Sargenti, Le res nel diritto del Tardo Impero, in Atti del Convegno in memoria di Gaetano Scherillo (Milano, 22-23 ottobre 1992), Milano, 1994, p. 177 ss., nonché il mio lavoro, pubblicato nello stesso volume di Atti, Rilievi sulla appartenenza dei «fundi rei publicae» alla «res privata principis» nella legislazione tardo-imperiale, p. 129 s.
[148] In tal senso, Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 71 ss.
[149] La costituzione va unita alla 11, 29, 5 e alla 11, 30, 36: essa è stata pubblicata probabilmente a Roma, data la carica rivestita dal destinatario e deve essere stata emanata a Treviri nel 373 e, più precisamente, nel secondo semestre di quell’anno, posto che il predecessore di Eupraxio, Principio, è attestato ancora in carica nell’aprile 373 (C.Th. 13, 3, 10). Sul punto, cfr. Chastagnol, Les Fastes de la Préfecture de Rome au Bas Empire, Paris, 1962, p. 190 s.
[150] Su tali funzionari, per tutti, Seeck, Discussor, in PWRE, IV (1900 rist. 1958), p. 1142.
[151] Così, testualmente, Gotofredo, ad h.l.
[152] Il Pharr, ad h.l., traduce con «delinquent taxpayers».
[153] Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 71, nt. 96: «All’affermazione di Valentiniano I (C.Th. 11, 36, 21 del 374) seguirono le conferme di Teodosio in Oriente (c. 27 eod. del 383) e in Occidente (c. 30 eod. del 385: riguarda i debitori del fisco)».
[154] C.Th. 11, 36, 27: Imppp. Gr(ati)anvs, Val(entini)anvs et Theodosivs AAA. Hypatio P(rae)f(ecto) Avg(vsta)li Universi, quos in publicis contractibus manifestissimos debitores cognitio inquisitioque convicerit, statim ut sententia fuerit promulgata, obnoxii redhibitioni teneantur nec illis aliquid ad excogitandas fraudes et versutias exerendas morae ac temporis relaxetur. Dat. VIII id. Mai. Constantinop(oli) Merob(avde) II et Satvrnino Conss. Sul significato di debitores manifestissimi, cfr. Litewski, Die römische Appellation, II, cit., p. 302, nt. 214 e 215.
[155] C.Th. 11, 36, 30: Imppp. Gr(ati)anvs, Val(entini)anvs et Theodosivs AAA. ad Florentivm com(item) s(acrarvm) l(argitionvm). Saepe cautum est evidentissimos debitores appellantes audiri nullatenus oportere, deinde ab exsecutione adeo posse neminem provocare, ut, si hoc forte temptaverit ut postea a praeiudicio appellans, ad quinquaginta librarum argenti multam iure retinendus sit. Et cetera. Dat. VII kal. Dec. Aqvil(eiae) Arc(adio) A. I et Bavtone Conss.
Sul contenuto della costituzione, da unire a C.Th. 11, 30, 46, cfr., da ultimo, Vincenti, «Ante sententiam appellari potest», cit., p. 83 ss.
Sul significato di debitores evidentissimi cfr. Litewski, Die römische Appellation, II, cit., p. 302, nt. 214 e 215.
[156] Gotofredo, ad h.l.: «Debitorum appellatione speciatim intelligenti debitores fiscales, ut etiam huius leg. inscriptio docet».
[157] Padoa Schioppa, Ricerche, cit., p. 71: «il principio introdotto alla fine del secolo in entrambe le parti dell’impero … era in grado di comporre in modo più soddisfacente l’interesse del fisco e quello dei privati».
[158] Sull’esistenza di uno ius appellandi nella legislazione post-classica, Provera, Prova-sentenza-appello in diritto romano, in Atti del Colloquio romanistico-canonistico (febbraio 1978), Roma, 1979, p. 397 ss.
[159] In tal senso, per tutti, Jones, The Later Roman Empire, cit., p. 697 ss.