Federico Pergami
La competenza giurisdizionale dell’imperatore nel processo di eta’ tardoimperiale.
“Il tema della competenza giurisdizione imperiale è abbastanza oscuro. Le fonti storiche e letterarie, che sono la nostra maggiore fonte di informazione, non possono essere assunte come documenti di preciso valore tecnico e giuridico. Esse inoltre sono spesso vaghe e contengono espressioni troppo generali, altre volte sono portate ad attribuire alla diretta responsabilità degli imperatori decisioni, che sotto il loro governo erano emanate da altri organi. Tali fonti attestano comunque sia l’esercizio di una diretta funzione giudiziaria, sia il controllo sull’attività di altri organi”: con queste parole, Francesco De Martino descrive, nel quarto volume della sua Storia della costituzione romana, i poteri del principe nel settore dell’amministrazione della giustizia[1].
Un’affermazione che riassume perfettamente le difficoltà di individuazione dell’esatta ripartizione delle competenze giurisdizionali nel sistema processuale della cognitio extra ordinem, in cui iniziava a delinearsi -parallelamente al progressivo consolidamento della figura e del ruolo dell’imperatore, espressione e sintesi di ogni potere-, il principio in base al quale i poteri giudiziari affidati ai funzionari imperiali avevano cessato di rappresentare il conferimento di una specifica attribuzione per la soluzione del singolo caso concreto, per trasformarsi definitivamente in una caratteristica permanente della carica, con la conseguente riduzione di una diretta ingerenza da parte del principe, anche per non sovraccaricarne il lavoro, conformemente alle linee di politica legislativa tracciate dalle cancellerie dei singoli sovrani succedutisi alla testa dell’Impero[2].
Del resto, la consapevolezza che l’imperatore non potesse decidere tutte le controversie sottoposte al suo esame è connaturata alla stessa realtà processuale della cognitio extra ordinem, come è testimoniato da un passo di Svetonio, da cui emerge come già Augusto usasse delegare ai pretori la decisione sugli appelli nelle liti fra cittadini e a viri consulares appositamente nominati per le singole province per gli appelli in ordine alle controversie incardinatesi in provincia[3]:
Svet., Aug. 33.3: Appellationes quotannis urbanorum quidem litigatorum praetori delegavit urbano ac provincialium consularibus viris, quos singulos cuiusque provinciae negotiis praeposuisset.
- Nel sistema processuale della tarda antichità, il quadro normativo si presenta incerto e contraddittorio e riflette, per un verso, la tendenza in base alla quale il ricorso al tribunale imperiale era, per molti versi, escluso o gravemente limitato; per altro verso, invece, attesta come il principe esercitasse stabili funzioni giurisdizionali in qualità di giudice superiore.
A rendere ancora più sfumati i confini della competenza giurisdizionale del tribunale imperiale, contribuisce l’affermazione di un rimedio straordinario, la supplicatio, progressivamente assestatosi nel sistema processuale tardoantico, per mezzo del quale rivolgersi al principe anche al di fuori delle regole procedurali e della ripartizione delle competenze, come erano venute delineandosi nel sistema della cognitio, per l’ipotesi in cui il privato cittadino, che si fosse ritenuto ingiustamente pregiudicato nelle proprie ragioni, poteva invocare la clemenza dell’imperatore, per un nuovo e definitivo esame del caso[4].
Analogamente problematico per una precisa delimitazione delle competenze e dei rapporti fra i vari organi giurisdizionali, soprattutto in relazione all’esatta individuzione della natura dell’intervento imperiale, è -nel novero degli strumenti processuali tardoantichi-, l’inquadramento della consultatio ante sententiam[5], in virtù della quale il giudice inferiore, investito dell’esame di una controversia, nell’ipotesi in cui, nel corso del processo, fosse sorto un dubbio intepretativo, poteva rivolgersi direttamente all’imperatore per conoscere quale fosse la norma giuridica da applicare al caso concreto[6].
- Nonostante esista una ben consolidata opinione in dottrina, in base alla quale l’imperatore costituiva la suprema istanza giurisdizionale, l’esame del materiale normativo nel settore processuale mostra, come s’è accennato, che questo principio non fosse generale ed assoluto, poiché non è possibile determinare con precisione un criterio veramente sicuro, in base al quale tutte le controversie venivano rimesse per il loro riesame al tribunale imperiale.
Possiamo anzi affermare che il ricorso all’imperatore era, in alcuni casi, espressamente escluso.
Movendo l’indagine dai gradi più bassi, ciò è provato per gli appelli contro le sentenze dei giudici inferiori. Il principio è stabilito da Costantino, con la c. 13 CTh. 11.30 del 329, in cui l’imperatore, censurando l’atteggiamento di iudices inferioris gradus che non gradivano l’impugnazione contro le loro decisioni, prescriveva che siffatte doglianze fossero decise dal praefectus urbi, cui la costituzione è indirizzata e, nel contempo, vietava che venissero invece rimesse al tribunale imperiale (minime…ad nostram referre clementiam).
Poiché il provvedimento è indirizzato al Praefectus urbi e sancisce la sua competenza, i giudici contro le cui sentenze è stato interposto gravame non possono essere che quelli sottoposti all’autorità di questo funzionario, segnatamente il Praefectus Vigilum, il praefectus annonae ed i governatori delle province italiane, comprese nella diocesi suburbicaria.
Anche per gli appelli contro le sentenze dei governatori delle altre province in genere, la competenza a decidere in secondo grado non era affidata all’imperatore, ma al prefetto del pretorio: ciò si ricava in modo chiaro da varie disposizioni legislative, fra cui vanno ricordate, anzitutto, le cc. 2 e 3 CTh. 1.5, De officio praefectorum praetorio, la prima delle quali, emanata da Costantino nel 327, presenta un particolare interesse in quanto demanda all’esame del prefetto del pretorio una valutazione di mera legittimità della decisione impugnata, introducendo l’ipotesi dell’annullamento della sentenza viziata. Per quanto più direttamente interessa rilevare, la costituzione stabilisce espressamente che chi si dolga di decisioni praesidales, in quanto in detrimentum legum prolatae, debba trasmettere la doglianza al prefetto del pretorio, in modo che – fractis atque convulsis quae perperam inpressa sunt-, la decisione venga privata del nome stesso di sentenza.
La c. 3, anch’essa attribuita a Costantino, affronta il tema della competenza giurisdizionale in termini ancora più generali, stabilendo che super his qui a praeside vel a quolibet alio iudice sententiam dictam infirmari deposcunt, debba effettuarsi l’esame da parte del prefetto del pretorio, affinchè se da esso, internis negotii decursis, risulterà che la sentenza abbia violato ius et iustitia, la controversia venga decisa de aequitate.
E’interessante rilevare che tale competenza riguardava non le sole sentenze dei governatori provinciali, ma quelle pronunciate a quolibet alio iudice, il che lascerebbe intravedere una competenza dei prefetti del pretorio anche per sentenze di giudici di rango superiore ai praesides.
Analogamente affidata al prefetto del pretorio è la competenza giurisdizionale delineata nell’editto di Costantino ad universos provinciales del 331, conservato in CTh. 11.30.16, in cui l’alto funzionario è indicato come giudice competente a decidere sulla doglianza di chi oblatam nec receptam a iudice appellationem adfirmet e stabilisce che, in questi casi, il prefetto sia investito non del solo reclamo contro la mancata receptio dell’impugnativa, ma dell’intera controversia tamquam appellatione suscepta.
Una più tarda costituzione del 393, la c. 10 CTh. 1.5 di Valentiniano, Teodosio ed Arcadio, stabilisce, in termini generali, che de ordinario iudice semper inlustris est cognitio praefecturae, mentre Onorio e Teodosio, sanciscono nel 423 (CTh. 11.30.67), riecheggiando l’editto costantiniano del 331, la competenza del prefetto del pretorio, si appellatione apostolorum copia denegaverit.
- In alcuni casi, la competenza del tribunale imperiale era prevista in alternativa a quella di giudici inferiori.
- a) Ciò avveniva, anzitutto, per le controversie di natura fisicale: per un verso, Costanzo e Costante nell’anno 339 (CTh. 11.30.18) stabilivano che la competenza d’appello per tale tipo di giudizi era riservata al tribunale imperiale. La costituzione, infatti, prevedeva che in fiscalibus causis servato priscae consuetudinis more, si dovesse riferire ad nostram scientiam, riservando alla discrezionalità imperiale la decisione sui singoli casi. Ma l’anno successivo, gli stessi imperatori, con la c. 21 CTh. 11.30, modificando il precedente orientamento, stabilivano si qui fiscale debitum per sententiam luere iussi, che le relative impugnazioni, onde evitare manovre dilatorie, ne moris tergiversantibus abutantur, dovessero essere rimesse al giudice superiore, ad eum…cuius vice nostra cognitio est, quindi non all’imperatore[7].
Qualche anno più tardi, Costanzo, con la c. 28 h.t. dell’anno 359, a proposito dei termini processuali da osservare si a rationali vel comite vel alio, qui curam fiscalis commodi gerit…fuerit provocatum, confermava che tali cause fossero rimesse ad eos, qui vice nostra huiusmodi cognitionibus praesident.
- b) Analoghe oscillazioni sono testimoniate a proposito delle sentenze emanate dai governatori provinciali di rango proconsolare: nel già citato editto di Costantino dell’anno 331 ad universos provinciales (CTh. 11.30.16), infatti, è attestata una competenza dell’imperatore (a proconsulibus…ad nos dirigat). Tale principio è ribadito, seppure implicitamente, da Valentiniano e Valente nel 364, con la c. 32 h.t., nella quale i sovrani, rivolgendosi all’ordo civitatis Karthaginis, riaffermano l’obbligo dei giudici di rimettere gli appelli, intra trignita dierum spatia, ad mansuetudinis nostrae scrinia. Analogamente, Onorio e Teodosio, con la c. 65 t., in un provvedimento indirizzato al praefectus urbi Simmaco, prescrivevano che gli appelli fossero iscritti a ruolo (nectatur annaibus) e trasmessi, entro trenta giorni, ad sacra scrinia. Al contrario, però, Arcadio ed Onorio, con la c. 57 h.t., avevano espressamente stabilito che gli appelli dalle sentenze in materia criminale non fossero giudicati dall’imperatore (non tam ad clementiam nostram), ma dal prefetto del pretorio, cui la costituzione era indirizzata.
- c) Contraddizioni ed incertezze nella ripartizione delle competenze giurisdizionali, si rinvengono anche in relazione alle cause affidate alla decisione del vicarius: con la c. 9 CTh. 11.30 dell’anno 319, Costantino infatti attribuiva all’imperatore la competenza a decidere sulle impugnazioni contro le sentenze emesse da questo funzionario e tali rimangono per Giuliano con la c. 29 t. del 362.
Al contrario, Valentiniano e Valente, con una costituzione del 364, escludendo la competenza del tribunale imperiale, attribuiranno tale competenza al praefectus urbi (CTh. 1.6.2 e 3). Non è chiaro, però, se tale competenza si sia mantenuta anche in seguito e per tutto l’Impero: è certo, però, che in una più tarda costituzione di Arcadio ed Onorio (c. 61 CTh. 11.30) si torna ad affermare, in tono apparentemente precettivo, che gli appelli contro le sentenze del vir spectabilis vicarius venerandae urbis devono essere rimessi ad nostram clementiam.
- d) Anche contro le sentenze del praefectus urbi, l’esame delle relative impugnazioni non era rimesso all’imperatore in via esclusiva: se ne ha conferma dalla c. 44 CTh. 11.30, in cui Graziano, Valentinano e Teodosio, esaminando l’impugnazione contro una sentenza del praefectus urbi Simmaco, dispongono che la causa venga rimessa ad nos vel ad cognitorem sacri auditorii. Come si vede, la competenza del tribunale imperiale è prevista qui alternativamente con quella del cognitor sacrii auditorii, non indicato specificamente, ma che trattandosi di appello dal praefectus urbi non poteva essere che il prefetto del pretorio.
- La competenza imperiale subì un definitivo ridimensionamento con la costituzione di Teodosio II e Valentiniano III dell’anno 440 (C. 7.62.32), in forza della quale l’appello delle sentenze dei proconsoli e degli altri funzionari a loro equiparati, comes Orientis, vicari, prefetto d’Egitto, era demandato all’esame di uno speciale organo collegiale composto dal prefetto del pretorio e dal quaestor sacri palati, restando attribuito al tribunale imperiale il giudizio di secondo grado esclusivamente in relazione alle sentenze pronunciate dai giudici illustres. In modo differente, ma pur sempre nella prospettiva di una drastica limitazione della competenza del tribunale imperiale, Giustino, con la c. 34 C. 7.62, aveva stabilito che anche gli appelli contro le sentenze di maiores iudices venissero sottratti all’esame imperiale, per essere attribuiti ad un organo collegiale, differentemente costituito e composto dal quaestor sacri palatii e da due magnifici viri, patrizi, ex consoli o ex prefetti, cui era affidato l’esame delle suggestiones dei giudici, maiores o minores che fossero.
Al contrario, sotto il diverso profilo della competenza per valore, Giustiniano affermerà la competenza imperiale per le cause di entità superiore alle venti libbre, demandando, però, ad un collegio composto da due magnifici giudici, membri dello scrinium ab epistulis, le cause di valore compreso fra le venti e le dieci libbre e ad un giudice unico quelle di valore inferiore alle dieci libbre (C. 7.62.37).
- Alla tendenza ad escludere o, quantomeno, a fortemente limitare le funzioni giurisdizionali del tribunale imperiale, si contrapponeva una netta indicazione di segno contrario, riflessa nell’attribuzione al principe di una stabile competenza quale giudice di terzo grado.
Una prima testimonianza al riguardo si rinviene nella lettura della già sopra richiamata c. 16 CTh. 11.30 del 331: la disposizione prevede, infatti, che debbano essere rimesse all’imperatore tutte le controversie decise dai proconsoli, dai comites e da coloro qui vice praefectorum cognoscunt, siano esse sentenze di primo grado (ex ordine) o sentenze di secondo grado (ex appellatione).
Le fonti, in verità, non consentono di chiarire quali fossero le modalità di svolgimento di questa ulteriore fase del giudizio, ma doveva trattarsi di una procedura consolidata, come testimoniano due più tarde costituzioni: una prima, la c. 41 CTh. 11.30 del 383 di Graziano, Valentiniano e Teodosio, che concerne la competenza in secondo grado delle controversie di natura fiscale, affidate rispettivamente al rationalis rei privatae o al praeses sacri aerarii e contro le cui decisioni era alternativamente prevista l’impugnazione al tribunale imperiale oppure a quello del comes sacrarum largitionum o del comes sacrarum remunerarationum; una seconda, la c. 1 CTh. 11.38 del 391, di Valentiniano, Teodosio ed Arcadio, in cui era prevista l’ipotesi del soccombente che, gemino iudicio superatus, riproponga iterum una nuova impugnazione.
- Una differente modalità di intervento imperiale nell’amministrazione della giustizia in età tardoimperiale è rappresentato dall’istituto della supplicatio, invocazione con cui un privato cittadino poteva rivolgersi al tribunale imperiale per ottenere un provvedimento di clemenza: tale prassi risale all’epoca del Principato, sebbene l’affermazione del termine tecnico supplicare risulti definitivamente attestata alla fine del III secolo d. C.[8].
Nel linguaggio della giurisprudenza, l’espressione si rinviene esclusivamente in due distinti frammenti[9], in cui lo strumento della supplicatio, ancora non compiutamente delineatosi sul piano giuridico, è utilizzato con differenti finalità. Un primo intervento è testimoniato da un passo tratto dal libro quarto De appellationibus di Ulpiano, D. 49.5.5 pr., in cui la supplicatio costituisce una forma di reclamo all’imperatore contro un provvedimento di diniego del iudex a quo di recipere l’appello: nel caso di specie, la supplicatio era, in sostanza, lo strumento eccezionale con cui si sottoponeva al tribunale imperiale la doglianza contro la dichiarazione di inammissibilità del gravame effettuata dal giudice inferiore.
Il termine supplicatio si rinviene anche in un secondo frammento, tratto dai Libri imperialium sententiarum di Paolo, D. 28.5.93 (92).1, che documenta, invece, il caso di un ricorso diretto al tribunale imperiale, supplicavit imperatores nostros, con lo scopo di ottenere l’annullamento di una disposizione testamentaria che il de cuius aveva assunto nell’erronea convinzione dell’avvenuta morte degli eredi precedentemente istituta.
Nei rescritti imperiali, l’uso del termine supplicare per indicare il ricorso diretto all’imperatore con lo scopo di ottenere la soluzione di questioni ritenute particolarmente rilevanti, si incontra con maggiore frequenza: ne sono prova numerosi provvedimenti, alcuni raccolti nella sedes materiae, i titoli 1.19 De precibus imperatori offerendis et de quibus rebus supplicare liceat vel non e 1.20 Ut lite pendente vel post provocationem aut definitivam sententiam nulli liceat imperatori supplicare; altri, invece, sparsi fra i vari libri del Codice Giustinianeo.
Per quanto particolarmente interessa ai nostri fini, la supplicatio è regolata con ampiezza nella legislazione tardoantica, in cui le applicazioni dell’istituto si risolvono essenzialmente in doglianze del privato per il mancato compimento, da parte dei funzionari imperiali, di atti o di formalità processuali.
Una prima testimonianza si rinviene in una costituzione di Costantino, la c. 6 CTh. 11.30, De appellationibus et poenis earum et consultationibus, che riecheggia, seppure solo parzialmente, il già esaminato passo di Ulpiano (D. 49.5.5): in tale costituzione, emanata in forma di epistula ed indirizzata al proconsole d’Africa Probiano nell’agosto 316, con l’evidente scopo di limitare una prassi diffusa e frequente, Costantino vieta anzitutto, con la previsione di sanzioni molto severe in caso di trasgressione, di rivolgere all’imperatore una supplicatio nel corso di un processo, supplicare causa pendente non licet, salvo il caso in cui l’appellante non si fosse visto negare il rilascio della copia dell’opinio (exemplum opinionis), con la quale il giudice di primo grado aveva dichiarato inammissibile l’appello oppure qualora, emessa l’opinio, non fosse stata trasmessa al udex ad quem, unitamente agli atti istruttori già compiuti in prima istanza: supplicare causa pendente non licet nisi forte ei…instructionis universae subpressa transmissio.
Un secondo intervento in materia è analogamente destinato a limitare l’indebito utilizzo della supplicatio nel settore processuale: la c. 17 CTh. 11.30 dello stesso Costantino, infatti, punisce con la pena della deportazione chiunque, avendo omesso di interporre nei termini una licita provocatio, tenti di ottenere, per mezzo di una supplicatio all’imperatore, la rimessione in termini.
La precisa configurazione dell’istituto della supplicatio si realizza, però, esclusivamente in connessione al divieto di appello contro le sentenze del prefetto del pretorio[10]: in tale contesto, infatti, la supplicatio, per la prima ed unica volta, costituisce specificamente l’oggetto di una disposizione di Valentiniano e Valente, non conservata nell’edizione a noi nota del Codice Teodosiano, ma solo nel Codice Giustinianeo, C.1.19.5.
La costituzione, riportata anche in C. 7.62.19, prevede che colui che abbia interposto una supplicatio all’imperatore contro una sentenza del prefetto del pretorio -possibilità che viene qui considerata pacifica- e risulti soccombente (victus fuerit), non possa proporre un nuovo reclamo super eadem causa: nulla habebit licentiam iterum supplicandi.
Indubbiamente problematico è il rapporto fra il testo di Valentiniano e Valente in esame (C.1.19.5), nel quale la possibilità di una supplicatio contro le sentenze dei prefetti del pretorio è data a tal punto per sicuraa, da essere indicata per implicito, con il sopra esaminato testo di Costantino, conservato in C.Th. 11.30.16, nel quale, come s’è visto, è sancito al contrario, nella forma solenne dell’editto, il divieto di impugnazione o di reclamo contro tali sentenze, a motivo dell’intrinseco valore che esse assumono nel sistema processuale della tarda antichità, in considerazione del rango rivestito dal funzionario imperiale nel quadro della burocrazia imperiale.
In relazione al momento in cui sarebbe stata introdotta, nella legislazione imperiale, la norma destinata a rendere possibile l’utilizzo della supplicatio come ordinario strumento processuale per il caso di mancata impugnazione di una sentenza, sono state avanazate, in dottrina, differenti ipotesi, senza perlatro l’individuazione di una specifica disposizione normativa.
Il Kaser riteneva che l’intervento normativo dell’anno 365, dovesse essere coevo alla costituzione relativa al divieto di appello introdotto da Costantino[11]; al contrario, per il Purpura, sia il divieto di appello, quanto l’introduzione della possibilità di una supplica, dovevano risalire ad un periodo anteriore agli inizi del IV secolo[12]; per il Litewski, infine, il provvedimento con cui era stato introdoto il nuovo strumento processuale sarebbe riconducibile ad un periodo compreso fra il 331 ed il 365[13].
La mancanza di appigli testuali non consente una soluzione sicura[14]: io credo, però, sia possibile ipotizzare che, rimanendo più aderenti alla natura ed alla struttura dell’istituto, che alla supplicatio si sia fatto ricorso quando, dopo che che Costantino nel 331 aveva vietato l’appello contro le sentenze del prefetto del pretorio, la parte soccombente sentiva comunque l’esigenza di rivolgersi all’imperatore per un riesame della questione decisa in senso sfavorevole, anche indipendendentemente dalla emanazione o meno di una specifica norma al riguardo, che -se pure emessa-, non è stata comunque conservata[15].
Una prassi, è vero, che doveva essersi a tal punto generalizzata e diffusa, fino a svuotare, di fatto, le rigide norme processuali che Costantino aveva introdotto con l’editto del 331, ma che, per altro verso, consentiva al principe, mediante un diretto canale di comunicazione con i sudditi, di realizzare l’obiettivo della giustizia che aveva informato, almeno sul piano delle dichiarazioni di principio, lo spirito della legislazione tardoantica in materia.
Certo è che contro tale prassi, che tendeva ad ampliarsi tanto da tradursi in un abuso, consentendo di reiterare la supplicatio anche contro precedenti decisioni negative dello stesso imperatore, vi era stata una decisa reazione, finalizzata a vietarne il ricorso, come è testimoniato dalla costituzione di Valentiniano e Valente, C. 1.19.5, dell’anno 365.
Le fonti di epoca successiva testimoniano una scelta legislativa ancora più dreastica e radicale, che doveva essersi tradotta in un divieto generale ed assoluto di ricorrere a tale strumento processuale, non circoscritto alle sole ipotesi di sua iterazione in caso di precedenti decisioni sfavorevoli.
La prova documentale dell’emanazione di un simile provvedimento si ricava, seppure per implicito, dalla lettura della Novella 13 di Teodosio, Contra sententias praefectorum praetorio iniustas post successionem intra biennium supplicandum, del 13 agosto 439.
Emanata su suggestio del prefetto del pretorio dell’Illirico Talassio, la disposizione ripristina, abrogando una non probata lex, la licentia supplicandi contro le sentenze dei prefetti del pretorio, in amplissimo praetorianae praefecturae, con la specifica indicazione: licet pro curia vel qualibet alia publica utilitate dicatur prolata sententia.
La Novella, inoltre, chiariva ogni contrasto interpretativo, ribadendo che, abrogata ogni parte della costituzione quae aversus sententiam pro curia latam supplicare prohibuit, era ammesso il ricorso al tribunale imperiale contro le decisioni dei prefetti del pretorio.
Tale ricorso all’imperatore doveva avvenire nel biennio successivo all’emanazione della sentenza contro cui era proposto il gravame, termine che decorreva, nelle esplicite intenzioni del legislatore, dal momento della successio iudicis, cioè dal momento in cui fosse stato sostituito il prefetto del pretorio che aveva pronunciato la sentenza.
Non v’è dubbio, dunque, che nella legislazione anteriore all’anno 439, era stata emanata una disposizione, che aveva vietato la possibilità di supplicare contro le decisioni sfavorevoli dei prefetti del pretorio e che doveva avere investito solo alcune categorie di sentenze, quelle che la Novella definisce latae pro curia.
Con una nota disposizione, riportata in C. 7.62.35, ricostruita sulla scorta dei Basilici, Giustino (C. 7.62.35) torna ad occuparsi del tema del ricorso all’imperatore mediante suppliche da parte dei privati.
La costituzione, di data incerta, interessa particolarmente nella parte in cui conferma la possibilità di supplicare contro le sentenze dei prefetti del pretorio, senza limitazione a quelle latae pro curia, autorizzando altresì in modo implicito, con una innovazione rispetto al regime della Novella dell’anno 439, l’utilizzazione di tale strumento anche durante la permanenza in carica della stesso prefetto del pretorio che aveva pronunciato la sentenza: si vero idem rursus praefectus factus sit[16]. In questo caso, precisa l’imperatore, la decisione sul reclamo, non potendo essere rimessa soltanto all’esame dello stesso giudice, era affidata ad un organo collegiale composto, oltre che dal prefetto, anche dal quaestor sacri palatii[17].
Giustiniano, con la costituzione unica del titolo Ne liceat in una eademque causa tertio provocare vel post duas sententias iudicum, quas definitio praefectorum roboraverit, eas retractare, conservata in C. 7.70.1 ed emanata nell’anno 528, vietava la possibilità di interporre nello stesso processo un’impugnazione per tre volte consecutive contro i medesimi capi di una sentenza e, per il caso in cui la terza sentenza fosse stata emanata dal prefetto del pretorio, vietava l’ulteriore riesame.
Tale disposizione, in sostanza, prevedeva che lo strumento della supplicatio potesse essere esperito contro la sentenza del prefetto del pretorio in qualità di giudice di secondo grado[18].
La legislazione novellare si occupa diffusamente del tema della supplicatio, con interventi che mostrano un progressivo attenuarsi delle caratteristiche peculiari dell’istituto ed una sempre più accentuata contaminazione con l’istituto dell’appello, soprattutto in relazione alla devoluzione al giudice a quo della competenza alla decisione sull’istanza presentata dal privato[19].
Una prima indicazione si ricava dalla Novella 82: al paragrafo 12, la disposizione normativa, datata al 539[20], stabilisce che al prefetto del pretorio sia affidato un esame preliminare sull’ammissibilità o meno della invocazione proposta. Si intravede, così, l’ipotesi che l’inoltro della supplicatio direttamente al tribunale imperiale non garantiva automaticamente un riesame della lite, che il prefetto poteva, in ipotesi, anche rifiutare[21].
Con la Novella 119, emanata nell’anno 544, Giustiniano intendeva emendare le precedenti disposizioni in tema di sentenze rese dai prefetti del pretorio: premesso che contro tali decisioni nullam appellationem offerri, alla parte soccombente era attribuita la licentia di presentare una petitio allo stesso prefetto, ai suoi consiliarii o a coloro che introducono il dibattimento nel termine di dieci giorni dall’emanazione della sentenza ritenuta pregiudizievole.
Solo per il caso di mancato rispetto di tale termine, al cittadino non rimaneva altro rimedio che la proposizione di una estrema invocazione al tribunale imperiale: nonostante la scarsa chiarezza del dettato normativo e la mancanza di sicuri riferimenti testuali, che impediscono una soluzione univoca e definitiva, appare probabile che la supplicatio, pur di fronte a progressive modifiche, abbia conservato, anche in età giustinianea, il carattere di rimedio straordinario al principe contro una decisione non più impugnabile.
- Una modalità ancora differente di intervento imperiale nel sistema processuale della tarda antichità è rappresentato dalla consultatio ante sententiam[22], una procedura avviata su sollecitazione del funzionario imperiale investito della controversia, nel corso di un processo pendente, per il caso di dubbio interpretativo o di contrasto normativo.
La rilevanza dell’istituto, seppure sviluppatosi nella prassi processuale della cognitio extra ordinem[23], è confermata dal rilevante numero interventi imperiali in materia, emanati anche per stigmatizzare l’uso indebito che della procedura di consultatio era fatta dai giudici inferiori, con lo scopo di ostacolare la possibilità di impugnare le relative sentenze.
La prassi dei funzionari di sottoporre all’esame del tribunale imperiale gli aspetti dubbi di una lite in corso, risale, come è noto, sin dall’età classica[24], come risulta da numerose testimonianze giuridiche, fra cui spiccano, nei rescritti imperiali emessi su sollecitazione dei giudici periferici, il caso della consultatio inviata dal proconsole della Betica all’imperatore Adriano, conservato in Coll. 1.11.1-3, nonchè la vicenda descritta in un passo, tratto dal sesto libro del De cognitionibus di Callistrato, conservato in D. 48.15.6 pr. e 1, relativo ad una richiesta di intervento chiarificatore al tribunale imperiale.
In età tardoimperiale, il frequente ricorso a tale istituto, il cui procedimento è definito dalla dottrina “per consultationem” o “per relationem”[25], è testimoniato dai numerosi provvedimenti conservati nel Codice Teodosiano (11.29) e nel Codice Giustinianeo (7.61).
La disciplina di tale strumento processuale, peraltro, si ricava non soltanto dalle costituzioni dedicate alla consultatio ante sententiam nella sedes materiae, ma anche da quelle, pure di rilevante importanza, conservate nel titolo 11.30 del Codice Teodosiano, De appellationibus et poenis earum et consultationibus e nel corrispondente 7.62 del Codice Giustinianeo[26]. Tale collocazione trova giustificazione nella circostanza che la consultatio ante sententiam, come meglio avrò modo di precisare, risulta frequentemente accostata all’appellatio: ciò è dimostrato non soltanto dalla comune indicazione di tali strumenti processuali nelle rispettive rubriche del titolo 11.30 del Codice Teodosiano e 7.62 del Codice Giustinianeo, ma soprattutto considerando che i due istituti, seppure concettualmente distinti, vengono frequentemente disciplinati in modo sostanzialmente unitario.
Nella legislazione tardoimperiale, un primo intervento in materia è rappresentato da un rilevante provvedimento normativo di Costantino, di cui fanno parte le due costituzioni di apertura dei titoli 11.29 e 11.30 del Codice Teodosiano.
La costituzione disciplina compiutamente le modalità e i tempi di proposizione della consultatio ante sententiam, nella forma di una semplice istruzione indirizzata, in forma strettamente personale (debes…si pronuntiaveris…iubeas), ad un funzionario periferico di rango inferiore, il corrector Lucaniae et Brittiorum Claudio Plotiano: la prima parte della costituzione, raccolta in CTh. 11.30.1 e riprodotta, seppure parzialmente, in C. 7.61.1, stabilisce che il giudice, dopo avere deciso di proporre una consultatio al tribunale imperiale, doveva inviarne una copia ai litiganti (exemplum consultationis), nel termine di dieci giorni dalla sua presentazione, mediante editio apud acta. A loro volta, le parti, qualora ritenessero la consultatio incompleta (minus plena) o non rispondente al vero (contraria), potevano presentare, nel successivo termine di cinque giorni, le proprie osservazioni, chiamate le preces refutatoriae[27].
Al termine di tale procedura, il giudice inferiore doveva trasmettere tutti gli atti del processo all’imperatore (omnia quae aput te vel aput alios gesta fuerint), unitamente alla consultatio ed alle eventuali preces refutatoriae delle parti.
Nel secondo frammento, raccolto in CTh. 11.29.1, l’imperatore ammoniva il destinatario della costituzione a non rivolgere indiscriminatamente consultationes al supremo tribunale, esortandolo ad utilizzare tale strumento esclusivamente nei casi in cui non fosse stato possibile risolvere una controversia sottoposta al suo esame alla luce dei principi giuridici vigenti, super paucis, quae iuridica sententia decidi non possunt. L’obiettivo della costituzione era, evidentemente, quello di non intralciare l’attività dell’imperatore, sovraccaricandolo di lavoro ed impedendo, così, il regolare svolgimento delle proprie attività di governo, ne occupationes nostras interrumpas: era questa, del resto, una preoccupazione ricorrente nella mente del del legislatore, che di tale esigenza offrirà, nel corso della legislazione tardo antica, vari e reiterati esempi.
Un nuovo intervento normativo è rappresentato dalla seconda costituzione del titolo De relationibus, CTh. 11.29.2, emanata dallo stesso Costantino nell’anno 319.
Lo scopo dichiarato del provvedimento, indirizzato al prefetto dell’annona di Roma, è quello di reprimere l’atteggiamento ostruzionistico dei giudici, i quali, con i più svariati mezzi, tentano di rallentare lo svolgimento dei processi, anche nella prospettiva di limitare il ricorso alla possibile impugnazione delle sentenze: di tali comportamenti, che la costituzione intende ostacolare, è offerto un esempio significativo, nel descrivere l’atteggiamento del funzionario imperiale che, dopo avere deciso di sottoporre il caso dubbio all’imperatore, si duxerit esse referendum, si riteneva ugualmente competente a proseguire il giudizio.
Un successivo richiamo alle regole procedurali, relative all’intervento dell’imperatore, investito sia di una consultatio ante sententiam, che di un giudizio di appello (consulturum vel relaturum te esse promiseris vel appellationis a te interpositae), è fatto nell’epistula indirizzata al proconsole d’Africa Probiano, la c. 5 CTh. 11.30 del 13 agosto 316, con cui si invita il destinatario alla rigorosa osservanza delle formalità di trasmissione degli atti al tribunale supremo, gesta ad comitatum omnia dirigantur: nel provvedimento in esame è previsto che, nell’espletamento di tale attività istruttoria, vengano rispettati non soltanto i sollemnia appellationis, bensì anche un mos sollemnitatis, fissato iuxta priora statuta.
Il richiamo, troppo generico per identificare con certezza a quale norma il legislatore intendesse riferirsi nel richiamare la disciplina sul processo di appello, per il quale non si può dire che la riflessione tardoclassica avesse fissato precise disposizioni procedurali[28], può invece essere individuato, con sufficiente sicurezza, in riferimento al caso di invio degli atti al tribunale imperiale nell’ipotesi di avvio di una consultatio ante sententiam: il testo, infatti, riecheggia il precedente provvedimento dell’anno 312[29], con cui si apre il titolo De appellationibus et poenis earum et consultationibus (CTh. 11.30), nel quale, come s’è detto sopra, erano state fissate le regole procedurali di trasmissione dei fascicoli processuali al supremo tribunale.
Pochi anni più tardi, per precisare e ribadire nuovamente la disciplina della consultatio ante sententiam, Costantino interviene con la c. 8 CTh. 11.30, indirizzata il 29 marzo 319 al prefetto urbano Giunio Basso: il legislatore dichiara di volere mantenere ferma una precedente disposizione (manente lege), con la quale erano stati stabiliti i termini entro i quali il giudice doveva mettere a disposizione dei privati una copia della propria relatio e questi ultimi potevano, a loro volta, presentare i libelli refutatorii. Il richiamo è da individuare, anche in questo caso, con la sopra richiamata costituzione di apertura del titolo[30]: l’elemento di novità è rappresentato, oltre che dal riferimento anche alla diversa ipotesi dell’appello, che manca nella costituzione 1 CTh. 11.30[31], dalla fissazione di un successivo termine per la trasmissione degli atti al tribunale imperiale, sino ad ora non determinato con esattezza e che il provvedimento fissa in venti giorni, decorrenti ex quo relationem iudex per sententiam promiserit.
Una disciplina unitaria dei due istituti, appellatio e consultatio, ancora una volta per reprimere gli abusi dei funzionari imperiali, si rinviene anche nella successiva c. 9 C.Th. 11.30, emanata da Costantino nel 319 e indirizzata al vicario d’Italia Giulio Severo: in tale provvedimento, minacciando solenni note di biasimo, si stigmatizza il comportamento dei giudici che non abbiano trasmesso all’imperatore, in nostram scientiam, tutta la documentazione necessaria per la decisione[32], cioè, precisa la costituzione, cuncta, quae litigatores instructionis probationisque causa recitaverint.
Nell’anno 321, Costantino tornava ad occuparsi della procedura di consultatio ante sententiam, per stigmatizzarne l’uso non conforme alle regole dettate dalla normativa imperiale, con l’emanazione della costituzione 11 CTh. 11.30, parte di un unico provvedimento con la costituzione di apertura del titolo 2.18, De iudiciis.
Ai fini della presente ricerca, interessa qui particolarmente esaminare la prima parte del testo, considerando che, nella chiusa della disposizione, pur con il tono di semplice ammonizione indirizzata al praefectus urbi Massimo, viene censurato il comportamento dei giudici, nel caso addirittura coloro qui imaginem principalis disceptationis accipiunt, i quali, ricevuta l’impugnazione avverso la propria sentenza, si rifiutano di emettere l’opinio e di rilasciarne copia alle parti[33].
La costituzione si apre con un’ampia disamina della procedura di consultatio ante sententiam, consulti ordo, per censurare quei comportamenti, specularmente connessi, di litiganti e di giudici, entrambi finalizzati, gli uni e gli altri, a eludere le disposizioni processuali. In particolare, la costituzione deplora, anzitutto, l’atteggiamento delle parti, che, mediante le preces refutatoriae, surrettiziamente introducevano, unitamente all’invio degli atti al tribunale imperiale, nuove domande o allegavano elementi di prova non contenuti nell’atto introduttivo del giudizio pendente (nemo in refutationem aliquid congerat, quod adserere intentione neglexerit).
In secondo luogo, la cancelleria imperiale stigmatizza il comportamento dei giudici che, nell’avviare la consultatio, non riferivano fedelmente lo svolgimento della vicenda processuale (neque vera…suggessit) o non trasmettevano l’integra instructio (neque universa…suggessit), con la conseguenza che il rescritto imperiale con cui si concludeva la procedura, quod iudicia nostra recribserint, in quanto privo dei requisiti di legge (ratum ac fidele), avrebbe potuto nuovamente essere oggetto di ulteriori doglianze.
Il testo riecheggia, utilizzando pressochè le stesse parole, la costituzione di apertura del titolo, CTh. 11.30.1, nella quale l’imperatore raccomandava ai giudici di redigere una relatio che riferisse esattamente lo svoglimento della precedente fase processuale e prevedeva che, in caso di relatio minus plena vel contraria, le parti potessero rilevarlo nelle preces refutatoriae.
La finalità della disposizione è chiara e non costituisce una novità per la politica legislativa di quegli anni: essa, infatti, tende a porre il tribunale imperiale nelle condizioni di conoscere esattamente lo stato del processo ed il contenuto delle domande avanzate dalle parti, per potere pronunciare un rescritto ratum ac fidele, adatto, cioè, a far assumere al giudice a quo il provvedimento più idoneo per la prosecuzione della lite. Un’ipotesi che poteva ragionevolmente verificarsi, esclusivamente qualora l’imperatore avesse esaminato compiutamente gli atti e i documenti di causa: omnes igitur partium allegationes acta universa scribturarumque exempla omnium dirigantur.
A reprimere l’uso indebito e strumentale della consultatio ante sententiam, Costantino dedica anche la successiva costituzione 13 CTh. 11.30, indirizzata nel 329 al praefectus urbi Giuliano e già sopra richiamata: il testo, infatti, censura il comportamento di quei giudici inferiori, che, mal tollerendo il fatto che il soccombente abbia interposto appello contro le loro sentenze (a sententiis suis interponi provocationis auxilium aegre ferentes), trasmettono al tribunale imperiale relationes non necessariae et insolentes, cercando, in tal modo, di sottrarre al giudice naturale la decisione della lite.
Un comportamento che doveva essere diffuso nella prassi giudiziaria della cognitio extra ordinem, se è vero che, nel 342, l’imperatore Costanzo indirizza al prefetto del pretorio d’Oriente Leonzio la c. 4 CTh. 1.5.
La disposizione, riecheggiando la precedente legge del padre, CTh. 11.30.13, ammoniva tutti i giudici dal ricorrere al tribunale imperiale sub praetextu relationis, al solo fine di ritardare strumentalmente la definizione del giudizio in corso e prevenire il conseguente, possibile appello.
Un successivo intervento normativo di Costanzo e Costante è rappresentato dalla c. 24 del titolo 11.30 dell’anno 348, che minaccia di comminare una gravissima nota al governatore della Cilicia, Procopio, a cui la costituzione è indirizzata, il quale, nel trasmettere con una consultatio la controversia all’imperatore, ad nos existimaverit referendum, non si era attenuto, cum in controversia criminali sive civili, alle disposizioni procedurali, già introdotte in materia da una patria constitutio: ciò con particolare riferimento all’obbligo dei giudici inferiori di richiedere ai litiganti i libelli refutatorii. Il richiamo alla patria constitutio rinvia alla costituzione di apertura dello stesso titolo (CTh. 11.30.1), con cui Costantino, come ho sopra ricordato, aveva fissato i modi e i tempi di intervento delle parti nella procedura di consultatio ante sententiam, prima della trasmissione degli atti al tribunale imperiale[34].
La successiva costituzione 31 CTh. 11.30, emanata da Giuliano nell’anno 363 è destinata a censurare il comportamento dei giudici, nel caso i governatori provinciali (rectores), i quali, dopo avere promesso di inviare relationes ad nostrae tranquillitatis comitatum, strumentalmente ne ritardavano o ne mancavano l’invio, introducendo, per la prima volta nella normativa imperiale in materia, l’irrogazione di una pena pecuniaria sia a carico del prefetto del pretorio, che del suo ufficio, segnatamente dieci e venti libbre d’oro, per il caso in cui la promissa relatio non venisse trasmessa sine aliqua ambiguitate e comunque entro trenta giorni, agli ufficiali incaricati di recapitarla al tribunale imperiale.
Una seconda e importante disposizione che il provvedimento introduce è il più ampio termine di trasmissione degli atti del processo in corso al tribunale imperiale, termine che viene elevato a trenta giorni (intra triginta dies), calcolati dalla data di promissio della relatio da parte del giudice inferiore.
Alla consultatio ante sententiam è pure dedicata la successiva c. 34 CTh. 11.30, emanata a Milano nel novembre dell’anno 364 e indirizzata al praefectus urbi Simmaco: il provvedimento è diviso in due parti, nella prima delle quali si introduce una significativa novità in materia. L’imperatore, infatti, prevedeva l’irrogazione di una sanzione in oro e argento, pari alla metà del valore della causa, per il privato che fosse stato sorpreso a corte mentre seguiva le sorti di una consultatio. Era, questo, evidentemente, un altro riflesso dei ritardi con cui la consultatio veniva avviata ed istruita: ritardi che inducevano le parti ad interessarsi, direttamente a corte, delle sorti della lite pendente e della risposta imperiale.
Nella seconda parte, invece, nel ribadire quanto già previsto dalle costituzioni anteriori in ordine alla necessità di trasmettere tutti gli atti di causa, completi della consultatio ante sententiam, ad nostra scrinia, gli imperatori reiteravano, confermando la precedente disposizione di Giuliano (CTh. 11.30.31), il termine di trenta giorni per l’incombente, pena la sottoposizione ad una multa di dieci libbre d’oro per il giudice e di venti libbre d’oro per il suo officium[35].
La poco più tarda c. 35 CTh. 11.30, emanata a Marcianopoli il primo agosto 370 ed indirizzata al prefetto del pretorio Modesto, ribadisce l’obbligo del giudice di trasmettere al tribunale imperiale l’intero fascicolo processuale, cuncta instrumenta, compresi gli atti e i documenti, nonché le testimonianze e le confessioni delle parti: in definitiva, precisa la costituzione, tutto quello da cui può dipendere l’esito della consultatio, omnia huiusmodi, in quibus causa consistit et habere exitum videatur.
Un terzo provvedimento dei Valentiniani in materia è la c. 5 CTh. 11.29, emanata probabilmente nel 373, con cui gli imperatori ribadiscono che il giudice inferiore, in caso di incertezza sulla norma da applicare per la soluzione del caso concreto (vel ipse dubitans relationem in causa civili vel criminali spoponderit sese missurum), debba trasmettere copia della relatio e delle refutatoriae al tribunale imperiale, nel rispetto del termine fissato da una precedente Constantiniana lex[36]. La sanzione, in caso di inosservanza della disposizione, coincideva, tanto per il giudice, quanto per i componenti del suo ufficio, con quella già prevista dalla normativa processuale anteriore (CTh. 11.30.6 e 8): eo crimine tenebitur…quo tenentur, qui sacrilegium admiserint.
Di particolare interesse nella legislazione processuale della tarda antichità in materia di consultatio, è la successiva costituzione 47, raccolta nel titolo 11.30, emanata da Valentiniano, Teodosio ed Arcadio nell’anno 386 ed indirizzata al prefetto del pretorio Cinegio: la costituzione, pur avendo ricordato l’emanazione di un precedente provvedimento (cum antea constitutum sit), con il quale era stato vietato ai privati di seguire le sorti della consultatio presso il comitato imperiale[37], attribuiva ai contendenti (litigatores), la libera facoltà di rivolgersi al tribunale imperiale (ad comitatum nostrae serenitas habeant liberam facultatem) se, decorso un anno dalla proposizione della consultatio, nessuna risposta fosse stata fornita dall’imperatore sul quesito sottoposto dal giudice inferiore alla sua attenzione.
Dieci anni più tardi, Arcadio ed Onorio tornarono ad occuparsi di consultatio ante sententiam con due provvedimenti, le cc. 54 e 55 CTh. 11.30.
La prima costituzione, emanata nell’anno 395 e indirizzata al praefectus urbi Andromaco, ricalca essezialmente il contenuto della precedente normativa in materia: premesso, in generale, che il ritardo oltre l’anno nella risposta alla consultatio non può pregiudicare gli interessi delle parti (Si ante annum relationi missae responsum sacra scrinia non dedissent, causae litigatoris commonitio non nocebit), la costituzione richiama le disposizioni in materia, confermandone il vigore (Atque ideo positum vigorem legum scitaque servabunt) e autorizzando espressamente chiunque vi avesse interesse a rivolgersi al tribunale imperiale, nemo venire prohibetur, al fine di verificare la sorte della consultatio. La seconda costituzione, c. 55 CTh. 11.30, anch’essa indirizzata al prefetto del pretorio, torna ad occuparsi, qualche anno più tardi, degli abusi perpetrati dai giudici nell’utilizzo delle consultationes: il testo, in particolare, dispone solennemente che la richiesta di un intervento imperiale non deve ritardare la definizione dei giudizi e non può rappresentare un pretesto per intimidire gli appellanti.
La normativa tardoimperiale in tema di consultatio ante sententiam è completata da una costituzione inserita nella sedes materiae, la c. 6 CTh. 11.29, che gli imperatori Onorio e Teodosio hanno emanato a Ravenna il 9 settembre 416: il provvedimento dichiara inammissibile l’invio di un rapporto all’imperatore da parte di un solo litigante (…ad unius litigatoris…offeratur), in quanto contrario al factum generale[38], che, al contrario, imponeva al giudice di inviare la causa all’imperatore dopo averla istruita con le deduzioni di entrambe le parti.
- In tema di consultatio ante sententiam, uno dei profili di maggiore rilevanza sul piano giuridico, è rappresentato dalla natura dell’intervento reso dal tribunale imperiale: di fronte ad una mancata esplicita indicazione nelle fonti, occorre cioè domandarsi se il principe, una volta ricevuto il fascicolo processuale da parte del giudice a quo, incerto sulla soluzione da adottare nel caso concreto, tratteneva la controversia per l’emanazione della sentenza finale oppure, unitamente al rescriptum risolutivo del dubbio sottoposto al suo esame, provvedeva a restituire gli atti al funzionario affinchè egli potesse, pur conformandosi al parere dell’imperatore, definire il giudizio, mediante l’emanazione della sentenza.
Gli autori che si sono occupati del problema inclinano decisamente a favore della prima ipotesi, attribuendo al tribunale imperiale una autonoma competenza giurisdizionale[39], anche in virtù dell’avvenuta trasformazione dell’istituto rispetto alla fase classica, in cui lo scopo con cui il giudice inferiore investiva il supremo tribunale era esclusivamente quello di ottenere le indicazioni sulla regola di diritto da applicare per soluzione del caso concreto[40].
In realtà, io credo che l’esame della legislazione tardoantica offra spunti per una diversa soluzione e mi ha indotto a ritenere che tale procedura non si concludesse necessariamente con una sentenza resa dal tribunale imperiale, bensì che essa fosse finalizzata alla semplice emanazione di un parere.
Premessa una considerazione di natura meramente terminologica, in base alla quale l’espressione consulere riecheggia un’attività meramente consultiva e non decisoria del tribunale imperiale, sono ragioni di carattere testuale e sistematico che inducono a formulare un’ipotesi differente rispetto a quella tradizionalmente avanzata dagli studiosi che si sono occupati della materia.
Sotto il primo profilo, va detto, anzitutto, che nessuna delle costituzioni imperiali richiamate a favore di una competenza giurisdizionale del tribunale imperiale ne parla espressamente: nessun richiamo è fatto nella c. 8 CTh. 11.30, che, come ho già evidenziato, richiamando una precedente legge qua praescribtum est, intra quot dies opinionis sive relations exemplum privatis iudex debeat exhibere et refutatorii libelli intra quot dies rursum iudicibus offerenti sint, era diretta esclusivamente a fissare i termini entro cui gli atti del processo avrebbero dovuto essere inoltrati al giudice ad quem: termini che, in relazione alla consultatio ante sententiam, decorrevano ex eo die quo relationem iudex per sententiam promiserit. Neppure se ne fa cenno esplicito nella c. 6, un’epistula indirizzata al proconsole d’Africa Probiano, che riguarda l’istituto della supplicatio, in quanto il provvedimento si limita ad introdurre il divieto di ricorrere, causa pendente, con un’invocazione al principe per ottenere un provvedimento di clemenza. Nella disposizione in esame, si parla anche, è vero, della conclusione di una procedura di consultatio ante sententiam (qui terminatam rescribto vel consultatione quaestionem exquisito suffragio conabitur), ma non è detto, neppure per implicito, che ciò coincida con una sentenza imperiale, risolutiva del giudizio in corso: anzi, nel descrivere le modalità di definizione della procedura, si precisa che essa si concludeva con un rescriptum, appunto, e non con una sentenza.
Neppure decisiva, a mio giudizio, è l’esame della c. 9 CTh. 11.30, emanata con lo scopo di evitare che le cause trasmesse all’imperatore venissero restituite al giudice inferiore per mancanza di idonea documentazione: nel provvedimento si parla, è vero, di sententia, che l’imperatore non deve pronunciare in assenza di adeguata informazione sullo svolgimento della precedente fase processuale, incognito negotio, e si precisa che contro un’eventuale pronuncia resa in quelle condizioni non è ammessa la possibilità di dolersi: io ritengo, però, che il contenuto della costituzione consenta di affermare come la cancelleria, con tale precisazione, abbia voluto riferirsi non già all’ipotesi di consultatio ante sententiam, bensì al diverso caso di appellatio al tribunale imperiale.
Non può sottacersi, però, che, nella formulazione della disposizione, si interponga un inciso che potrebbe far sorgere dubbi sull’effettiva fattispecie considerata: “qui sanximus retractari rescribta nostra ad opiniones vel etiam relationes iudicum data non oportet”: il richiamo ad un precedente provvedimento che aveva vietato di retractare le decisioni contenute nei rescritti imperiali (rescribta nostra) potrebbe, in effetti, indurre a ritenere che il testo si riferisca anche alla procedura della consultatio ante sententia: ma non v’è dubbio che il riferimento sia tutt’altro che perspicuo, nell’accomunare, in un’unica disciplina, il rescritto che concludeva la procedura della consultatio ante sententiam, instauratasi in virtù di una relatio del giudice inferiore incerto sulla soluzione da adottare al caso concreto, con il diverso procedimento, di cui il Codice non offre altre esplicite testimonianze, che, stando al tenore letterale della disposizione, prevedeva l’emanazione di rescribta data ad opiniones iudicum.
Come è noto, del resto, l’opinio iudicis costituiva, sin dall’età tardoclassica, una formalità tipica del processo d’appello, per mezzo della quale il giudice a quo, contro la cui sentenza era stato proposto gravame, doveva esprimere il proprio parere sull’ammissibilità o meno dell’impugnazione: si trattava, con tutta evidenza, di un’attività del tutto diversa rispetto a quella che si realizzava nella relatio, certamente incompatibile, come si ricava dalla stessa terminologia (opinio) e dal tenore della costituzione in esame (opiniones v e l e t i a m relationes), con i dubbi e le incertezze sulle modalità di risoluzione della lite, che il funzionario imperiale esprimeva e che costituivano la ragion d’essere dell’avvio della procedura di consultatio ante sententiam.
Non è chiaro, dunque, a quale ipotesi si riferisse la cancelleria imperiale nell’estendere il testo del provvedimento, ma l’inciso dedicato alla consultatio ante sententiam contiene esclusivamente il divieto, rivolto evidentemente ai giudici inferiori, di modificare o contravvenire (retractare) alle disposizioni contenute nel rescritto imperiale (sanximus retrcatari rescribta nostra non oportet): troppo poco, dunque, per ricavare da un inciso di dubbia interpretazione, contenuto, per giunta, in una costituzione destinata a regolare l’appellatio e, in particolare, la trasmissione degli atti al tribunale superiore in caso di impugnazione di una sentenza di primo grado, l’introduzione, in generale, di una nuova ipotesi di competenza giurisdizionale dell’imperatore nel caso dell’avvio di una consultatio ante sententiam.
A diversi risultati non conduce neppure l’esame della c. 11 CTh. 11.30, emanata da Costantino nell’anno 321: anzitutto, occorre sottolineare la circostanza per cui siamo di fronte, come in molti altri casi fra le costituzioni raccolte nel Codice Teodosiano, ad una semplice istruzione, nella forma di ammonimento ad una particolare categoria di giudici, segnatamente coloro qui imaginem principalis disceptationis accipiunt, cioè i giudici vice sacra[41]. In secondo luogo, va detto che il testo in esame ha lo scopo, per un verso, di impedire che nel caso di utilizzo della consultatio ante sententiam (in consulti ordo), le parti inseriscano domande o elementi nuovi non ricompresi nell’atto introduttivo del giudizio; per altro verso, è finalizzata ad evitare che i giudici non riferiscano fedelmente il contenuto delle pretese dei contendenti e lo svolgimento giudizio o, addirittura, non trasmettano gli atti e il fascicolo processuale al tribunale superiore, con il deliberato scopo di evitare che la pronuncia imperiale, quod iudicia nostra rescribserint, possa costituire oggetto di ulteriori doglianze delle parti, da far valere a mezzo di una supplicatio.
Anche in questo caso, peraltro, l’espressione iudicium non consente di fare definitivamente propendere a favore dell’emanazione di una sentenza risolutiva della controversia, attività di cui non si ha traccia esplicita nella disposizione, ma debba essere intesa come l’atto con cui l’imperatore risolveva il dubbio che il giudice inferiore gli aveva sottoposto: infatti, parlando di pronuncia imperiale, si fa esplicito riferimento al rescritto, iudicia…rescribserint che, occorre ribadirlo, costituiva l’atto formale con cui si concludeva la procedura di consultatio ante sententiam e non già si definiva il processo in corso.
Del resto, non v’è dubbio che anche la procedura della consultatio ante sententiam era finalizzata ad ottenere un parere da parte del tribunale imperiale: un iudicium, idoneo sì a risolvere il dubbio manifestato dal giudice inferiore, ma non tale da assumere il significato di sentenza finale, risolutiva dell’intera controversia.
Anche la c. 2 CTh.11.29 non offre elementi decisivi a favore dell’opinione dominante in dottrina: in tale provvedimento, infatti, si afferma che, una volta presentata la consultatio, la controversia non possa essere decisa dal giudice a quo: si quis iudicum duxerit esse referendum, nihil pronuntiaret. Tale espressione, infatti, più che l’implicito riconoscimento di una competenza giurisdizionale del tribunale imperiale, investito della decisione nel merito, deve essere letta in quello che ritengo essere il suo significato più coerente con lo svolgimento del processo, cioè quello di impedire che, pendente la consultatio, il giudice possa emettere la sentenza prima della risposta imperiale.
In definitiva, a me pare che la legislazione tardoimperiale in materia di consultatio ante sententiam non offra elementi sicuri a favore della tesi di una competenza giurisdizionale del tribunale imperiale a decidere nel merito l’intera controversia.
Una simile ipotesi, del resto, presupporrebbe, per un verso, un radicale mutamento, di cui non si ha traccia esplicita, della struttura dell’istituto rispetto all’età tardo classica e non appare certo verosimile ipotizzare che una trasformazione sostanziale della natura dell’istituto potesse essere avvenuta surrettiziamente, addirittura in modo implicito, nelle pieghe di provvedimenti destinati a regolare istituti diversi dalla consultatio ante sententiam e con espressioni ambigue e tutt’altro che idonee a confermare tale mutamento. Del resto, ammettere che il rescritto invocato dai giudici inferiori rappresentasse, almeno da Costantino in poi, la definitiva sentenza di merito, oltre a contrastare con la generale politica imperiale, tesa a sfavorire il ricorso al tribunale imperiale per la soluzione delle controversie, al fine di non sovraccaricarne la mole di lavoro, distraendo l’imperatore dai gravosi incarichi di governo, rappresenterebbe una deroga di portata fondamentale, quanto inespressa, ai generali principi sulla competenza dei giudici, destinata letteralmente a stravolgere i vari gradi della gerarchia giurisdizionale ed il principio, immanente nell’ordinamento, che l’imperatore costituisse la suprema istanza giudiziaria, il giudice superiore per eccellenza, a cui doveva essere affidato l’esame delle controversie esclusivamente in qualità di suprema istanza giurisdizionale: attribuendo, invece, al tribunale imperiale un’autonoma competenza giurisdizionale nel caso di consultatio, l’imperatore avrebbe potuto essere chiamato a pronunciare una sentenza su controversie affidate in primo grado a giudici inferiori, anche periferici e in relazione a questioni pratiche che potevano risultare di scarsa importanza o di modesto valore[42].
- In definitiva, alla luce delle testimonianze giuridiche in tema di ripartizione delle competenze fra i vari organi cui era affidata la potestas iudicandi, l’affermazione in base alla quale, nel sistema processuale della cognitio extra ordinem, l’imperatore costituiva la suprema e definitiva istanza giurisdizionale, risulta solo parzialmente fondata, anche considerando le tendenze, fra loro reciprocamente interdipendenti, che emergono dall’esame della realtà processuale dell’età tarda: da un lato, la tradizionale concezione della figura dell’imperatore, che era inteso, nello schema assolutistico tardoimperiale, come sintesi e personificazione del potere e che aveva condotto a delineare l’intervento del principe come strumento giuridicamente vincolante contro gli errori dei funzionari cui erano delegati poteri giurisdizionali; dall’altro lato, la necessità di limitare il ricorso al supremo tribunale per non sovraccaricarlo dell’onere di risolvere le più svariate controversie, anche di scarsa importanza, provenienti da ogni parte dell’Impero, contestualmente al progressivo consolidamento delle attribuzioni giudiziarie extra ordinem dei più elevati funzionari della burocrazia imperiale, specialmente del prefetto urbano e del prefetto del pretorio.
Il quadro normativo conferma tali oscillazioni ed incertezze: di fronte ad una generale tendenza, attestata in vari settori del processo, di una progressiva limitazione dei poteri del tribunale imperiale, si ha traccia documentale, al contrario, di un netto consolidamento della potestas iudicandi del principe: nel quadro del processo extra ordinem, infatti, si delinea, per un verso, l’attribuzione di una stabile competenza in terzo grado, quale momento conclusivo dell’intera vicenda processuale; per altro verso, tali poteri sono attestati anche al di fuori dei normali canali giurisdizionali, tanto in relazione all’istituto della supplicatio, il cui iter procedurale si concludeva con una decisione imperiale, quanto a seguito dell’incardinamento di una consultatio ante sententiam che, seppure finalizzata all’emanazione di un rescriptum da parte dell’imperatore, anziché di una sentenza tecnicamente intesa, offriva comunque al giudice inferiore il definitivo criterio risolutore a cui egli avrebbe dovuto rigorosamente attenersi nella soluzione della lite.
Patrocinante avanti alle Magistrature Superiori
Professore presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi
[1] DE MARTINO, Storia della costituzione romana, 4/1, Napoli 19742, 505 s.
[2] CERAMI, Potere e ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, Torino 19963, 207; DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, 291 ss.
[3] PALAZZOLO, Processo civile e politica giudiziaria nel Principato, Torino 19912, 29 ss.; ARCARIA, Senatus censuit. Attività giudiziaria e attività normativa del Senato in età tardoimperiale, Milano 1992, 41 ss.; SOLIDORO MARUOTTI, Aspetti della “giurisdizione civile” del “praefectus urbi” nell’età severiana, in Labeo 39 (1993), 174 ss.
[4] Da ultimo, in argomento, DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico, 301.
[5] Vedi, ancora, DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico, 300.
[6] Le differenti modalità di intervento imperiale nel sistema processuale della tarda antichità erano state sinteticamente individuate dal Kaser: “Der Kaiser wird in Privatrechtssachen auf dreierlei Weise tätig: indem er entweder über appellationes entscheidet oder Rechtssachen, die ihm von seinen Beamten durch relatio (consultatio) oder von den rechtssuchenden Parteinen durch supplicatio vorgetragen Werden“ (KASER-HACKL, Das römische Zivilprozessrecht, München 19962, 540.
[7] Sui giudici vice sacra iudicantes, PERGAMI, Rilievi in tema di cognitio vice sacra, in Minima Epigraphica et Papirologica, 9, (2006), 353 ss.
[8] BETHMANN-HOLLWEG, Der Civilprozess des gemeinen Rechts in geschichtlicher Entwicklung. Der römische Civilprozess, 3, Bonn 1866 (rist. Aalen 1959), 92 ss. e 338 ss.; ANDT, La procédure par rescrit, Paris 1920, 16 ss.; WISSOWA, Supplicationes, in PWRE 38/1 (1931 rist. 1960), coll. 942 ss.; PADOA SCHIOPPA, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, 1, Milano 1966, 21 nt. 29; ORESTANO, L’appello civile in diritto romano, Genova 1952, 197 ss.; PIELER, Studien zur Gerichtsorganisation des Imperium Romanum. Kaisergericht und Kaiserliche Gerichtsorgane von Augustus bis Justinian, Wien 1981, 56 ss.; KASER-HACKL, Das römische Zivilprozessrecht, 432 s.
[9] NASTI, L’attività normativa di Severo Alessandro. I. Politica di governo, riforme amministrative e giudiziarie, Napoli 2006, 26 s. e 27 nt. 5.
[10] BERTOLINI, Appunti didattici di diritto romano. Il processo civile, III, Torino 1915, 203 s.; WENGER, Institutionen des römischen Zivilprozessrecht, München 1925 (che cito nella traduzione italiana, a cura di R. Orestano, Milano, 1938), 307; M.A. DE DOMINICIS, Riflessi di costituzioni imperiali del Basso Impero nelle opere della giurisprudenza postclassica, s.l., 1955, 82 ss.; LITEWSKI, Die römische Appellation in Zivilsachen, 1, in RIDA 12 (1965), 410 ss.; ID., Origine del divieto di appellare contro le sentenze del prefetto del pretorio, in RISG 99 (1972), 269 ss.; ID., La supplicatio contre le sentence rendue par le préfet du prétoire, in AG 185 (1973), 3 ss.; PURPURA, Ricerche sulla supplicatio avverso la sentenza del prefetto del pretorio, in AUPA 35 (1974), 225 ss.; BASSANELLI SOMMARIVA, L’imperatore unico creatore ed interprete delle leggi e l’autonomia del giudice nel diritto giustinianeo, Milano 1983, 94 nt. 73.
[11] KASER-HACKL, Das römische Zivilprozessrecht, 511.
[12] PURPURA, Ricerche sulla supplicatio, 231 s.
[13] LITEWSKI, La supplicatio, 8; ID., Die römische Appellation, 1, 410 ss.
[14] BERTOLINI, Appunti didattici, 204 nt. 1.
[15] GAUDEMET, Recensione Pergami, L’appello nella legislazione del tardo Impero, Milano 2000, in Latomus 60 (2001), 759.
[16] BASSANELLI SOMMARIVA, La legislazione processuale di Giustino I (9 luglio 518-1 agosto 527), in SDHI 37 (1971), 180 nt. 100; EAD., L’imperatore, 94 s.
[17] Sul contenuto della costituzione, KASER-HACKL, Das römische Zivilprozessrecht, 511 e nt. 62.
[18] ZILLETTI, Studi sul processo civile giustinianeo, Milano 1965, 243; PURPURA, Ricerche sulla supplicatio, 252; KASER-HACKL, Das römische Zivilprozessrecht, 511. Contra, LITEWSKI, La supplicatio, 13 s.
[19] FRANCIOSI, Riforme istituzionali e funzioni giurisdizionali nelle Novelle di Giustiniano, Milano 1988, 46 ss. (ove bibliografia).
[20] BASSANELLI SOMMARIVA, L’imperatore, 81 ss. e 116.
[21] Contra, LITEWSKI, La supplicatio, 25, per il quale il prefetto non avrebbe potuto rifiutarsi di dare corso alla procedura della supplicatio a seguito dell’invito rivoltogli dall’imperatore.
[22] BETHMANN-HOLLWEG, Der römische Civilprozess, 3, 90 ss.; 294 ss.; 322 ss.; LÉCRIVAIN, Relatio, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, Paris 1877; KIPP, Consultatio, in PWRE IV/1 (1900 rist. 1958), coll. 1142 s.; HEUMANN-SECKEL, Consultatio, in Handlexicon zu den Quellen des römischen Rechts, Iena 1907 (rist. 1971); BERTOLINI, Appunti didattici, 185 ss.; ANDT, La procédure par rescrit, 10 ss.; WENGER, Institutionen des römische Zivilprozessrecht (= Istituzioni di diritto processuale romano), 304 s.; BERGER, Consultatio, in Encyclopedic Dictionary of roman law, Philadelphia 1953; GAUDEMET, L’empereur interprète du droit, in Festschrift für Ernst Rabel, 2, Tübingen 1954, 175 ss. (ora in Études de droit romain, 1, Napoli 1979, 381 ss.); SCHERILLO, Consultatio, in NNDI 4 (1959), 357 s.; LITEWSKI, Consultatio ante sententiam, in ZSS 86 (1969), 227 ss.; ID., Die römische Appellation in Zivilsachen, 4, in RIDA 15 (1968), 262 ss.; DUPONT, Constantin et les constitutions impèriales, in Studi in onore di Edoardo Volterra, 1, Milano 1971, 558 ss.; MILLAR, The Emperor in the Roman world (31 B.C. – A.D. 337), Ithaca 1977, 328 ss.; PALAZZOLO, Processo civile e politica giudiziaria, 97 ss.; KASER-HACKL, Das römische Zivilprozessrecht, 613 ss.; MAGGIO, Note critiche sui rescritti postclassici. 1, Il c.d. processo per rescriptum, in SDHI 66 (1995), 285 ss.; ARCARIA, Referre ad principem. Contributo allo studio delle epistulae imperiali in eta classica, Milano 2000, 166 ss. Per gli sviluppi dell’istituto in età giustinianea, vedi, in particolare, BASSANELLI SOMMARIVA, L’imperatore, 72 ss. e 105 ss.
[23] DE MICHELI, La relatio-consultatio nel regime delle impugnazioni tra il IV e il V secolo d.C., in AAC 14, Napoli 2003, 323.
[24] KIPP, Consultatio, 1143; DE MARINI, La giustizia nelle province agli inizi del Basso Impero, 2, L’organizzazione giudiziaria di Costantino, in Studi Urbinati 34 (1965-66), 215; LITEWSKI, Consultatio, 230 s.; GIGLIO, L’epistola di Marco Aurelio agli Ateniesi, in AAC 4, Perugia 1981, 549 ss.; VOCI, Note sull’efficacia delle costituzioni imperiali. 1. Dal Principato alla fine del IV secolo, in Studi in onore di Cesare Sanfilippo, 2, Milano 1982, 635 (ora in Studi di diritto romano, 2, Padova 185, 296). Ma, vedi ora, in senso critico, ARCARIA, Referre ad principem, 177 ss.
[25] ORESTANO, L’appello civile, 295; GAUDEMET, Constitutions constantiennes relatives à l’appel, in ZSS 98 (1981), 54 (ora in Droit et société aux derniers siècles de l’Empire romain, Napoli 1992, 74); BASSANELLI SOMMARIVA, La legislazione processuale di Giustino, 162 ss.
[26] DE MICHELI, La relatio-consultatio, 328 ss.
[27] LITEWSKI, Consultatio, 242.
[28] Sulla disciplina del processo d’appello elaborata dalla giurisprudenza tardoclassica, vedi PERGAMI, L’appello nella legislazione del tardo Impero, Milano 2000, 11 ss.
[29] GOTOFREDO, Codex Theodosianus cum perpetuis commentariis, Lipsia 1740 (rist. Hildesheim-New York 1975), ad C.Th. 11.30.1; SPAGNUOLO VIGORITA, Aspetti e problemi del processo fiscale in età costantiniana, in AAC 11, 160 e nt. 62; DE MARINI AVONZO, Lezioni di storia del diritto romano, Padova 1999, 286; DE MICHELI, La relatio-consultatio, 333.
[30] GOTOFREDO, Codex Theodosianus, ad C.Th. 11.30.8; GAUDEMET, Constitutions constantiniennes, 67 s. (ora in Droit et société, 97); SPAGNUOLO VIGORITA, Aspetti e problemi del processo fiscale, 168 s.; DE MICHELI, La relatio-consultatio, 337.
[31] Vedi, in argomento, GAUDEMET, Constitutions constantiniennes, 65 (ora in Droit et société, 85) ; DE MARINI, La giustizia nelle province agli inizi del Basso Impero, 214 nt. 149. Per il PADOA SCHIOPPA, Ricerche sull’appello, 22, invece, i termini relatio ed opinio sarebbero sinonimi.
[32] DE MICHELI, La relatio-consultatio, 338.
[33] PADOA SCHIOPPA, Ricerche sull’appello, 87.
[34] GAUDEMET, Constitutions constantiniennes, 54 (ora Droit et société, 74); LITEWSKI, Consultatio, 227 e, più di recente, CUNEO, La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante (337-361), Milano 1998, 162.
[35] LITEWSKI, Consultatio, 250.
[36] Si legga CTh. 11.30.8 che, richiamando a sua volta la costituzione di apertura del titolo (CTh. 11.30.1), fissava i termini per lo svolgimento delle formalità di trasmissione degli atti al tribunale imperiale.
[37] CTh. 11.30.4.
[38] GOTOFREDO, Codex Theodosianus, ad C.Th. 11.29.6.
[39] GAUDEMET, Constitutions constantiniennes, 54 (ora in Droit et société, 74) ; LITEWSKI, Consultatio, 227 e 251; BASSANELLI SOMMARIVA, L’imperatore, 73 s.; EAD., La legislazione processuale di Giustino, 163; ARCARIA, Referre ad principem, 169 e 225; MAGGIO, Note critiche sui rescritti postclassici, 300 ss.
[40] PALAZZOLO, Potere imperiale ed organi giurisdizionali nel II secolo d.C. L’efficacia processuale dei rescritti imperiali da Adriano ai Severi, Milano 1974, 52 ss. (ove bibliografia); MAROTTA, La “legislazione imperiale” in età severiana, in SDHI 67 (2001), 498 ss.
[41] In argomento, PERGAMI, Rilievi in tema di cognitio vice sacra, 353 ss.
[42] Suffragano l’ipotesi che la consultatio ante sententiam non avesse introdotto un’autonoma competenza del tribunale imperiale anche fonti extragiuridiche, segnatamente le Relationes di Simmaco, dal cui esame emerge l’idea che la controversia, emesso il rescritto imperiale, venisse restituita al funzionario imperiale, che aveva avviato la procedura di consultazione, a cui era rimessa la decisione finale (Rell. 19, 39, 40, 48, 49). Sulle Relationes di Simmaco relative alla consultatio ante sententiam, vedi PERGAMI, Amministrazione della giustizia e interventi imperiali nel sistema processuale della tarda antichità, Milano 2007, 51 ss. (ove bibliografia).