La patologia negoziale nella tarda antichità di Federico Pergami
Il tema della patologia degli atti negoziali nell’esperienza giuridica romana, cioè dell’improduttività degli effetti del regolamento di interessi fra i privati, è stato elaborato, come è noto, in mancanza di una concezione matura del Negozio giuridico come categoria astratta e utilizzando invece la categoria dell’inutilità dell’atto: premessa la rilevanza di ogni azione umana che si concretizzasse in un negozio giuridico, se questo serviva effettivamente a produrre effetti giuridici, era efficace e veniva qualificato utile, pur se invalido, mentre se il negozio giuridico era inefficace, veniva qualificato inutile.
Era questo, del resto, il pensiero di Antonio Guarino, per il quale, infatti, “in nessuna epoca del diritto romano si formò mai una consistente dottrina, una compiuta teoria generale del negozio giuridico in quanto tale” con la conseguenza che si attuò, in relazione al delinearsi dei concetti di validità e di efficacia del negozio, una lenta e mai soddisfacentemente completa progressione: su tali concetti prevalse quello, “più semplicistico e approssimativo”, dell’utilità giuridica del negozio[1]: il negozio efficace proseguiva l’autore, “pur potendo essere, al limite, anche talvolta invalido, era, pertanto, qualificato utile; il negozio inefficace (valido o invalido che fosse) era invece qualificato inutile, inane, nullius momenti”[2]. Analogamente, Vincenzo Giuffrè, nel censurare la tradizionale attitudine degli storici del diritto a ragionare in termini di invalidità e di inefficacia e pur nella consapevolezza che “l’aspetto della patologia negoziale è quello più ingarbugliato nelle fonti antiche”, afferma che i Romani, per lungo tratto, ragionarono semplicemente nel senso che un negozio, se riusciva a produrre i suoi effetti, era “utilis”, mentre se non ne produceva era “inutilis”[3].
- Ho avuto modo di sottolineare[4] come tali conclusioni abbiano avuto il merito di scardinare la rigida impostazione elaborata dalla dottrina, più o meno recente, ma pressoché univoca, in base alla quale, per ius civile, l’unica alternativa possibile è quella tra atto negoziale valido ed efficace, che dispiega –per questo- regolarmente i propri effetti e, viceversa, atto nullo, cioè quello, poiché vulnerato ab initio, irrimediabilmente inefficace e improduttivo, per tale motivo, di qualsiasi efficacia[5].
Una rigidità concettuale nient’affatto coerente con la vastissima gamma di espressioni e con la varietà di significati con cui il linguaggio della giurisprudenza indica il complesso fenomeno della mancata produzione di effetti nel settore negoziale, ricondotto, in sostanza, alla rigida alternativa fra una totale improduttività dell’atto, la nullità appunto, in contrapposizione ad una meno rilevante sanzione sul piano giuridico, a motivo della relativa capacità del regolamento di interessi annullabile di incidere sull’ordinamento.
Le ragioni di tale fenomeno risiedono essenzialmente nel fatto che la dottrina tradizionale, formatasi tra la fine dell’800 ed i primi anni del secolo successivo, operava, a proposito della tematica, utilizzando, quale modello operativo, le categorie e gli schemi elaborati dalla Pandettistica ed ereditati come tali dalla dogmatica dei diritti positivi[6] sacrificando inevitabilmente, la metodologia interpretativa della giurisprudenza e costringendo, in quegli schemi dogmatici, una realtà estremamente variegata e fluida ed una riflessione teorica che ad essa aveva cercato di adeguarsi[7]. L’impostazione, in chiave pandettistica, del problema della patologia degli atti negoziali, si trova riflessa, in modo paradigmatico, nei risultati delle complesse ricerche del Windscheid, il quale, nel suo commentario alle Pandette, parlava, in generale, di invalidità (Ungültigkeit) con riguardo all’atto che “non risponde a tutti i requisiti del diritto…ossia quello al quale il diritto non accorda la forza di produrre quella conformazione dei rapporti, cui esso intende… Il concetto della invalidità, quindi, è più ristretto di quello di inefficacia (Unwirksamkeit)”, perché, proseguiva l’autore, “un negozio giuridico può essere inefficace, anche senza che da un suo difetto resti paralizzata la sua potenza”[8]. La rigida impostazione sistematica emergeva con ancora maggiore nettezza a proposito della più significativa ed importante contrapposizione che, nel quadro dell’istituto dell’invalidità, induceva il Windscheid a distinguere fra la nullità (Nichtigkeit) e l’annullabilità (Anfechtbarkeit), nel senso che, precisava l’autore, “un negozio giuridico è invalido in guisa che non produce l’effetto giuridico a cui mira, proprio come se mai fosse stato concluso…o un negozio giuridico è invalido in guisa che genera bensì l’effetto giuridico a cui mira, ma questo si appalesa inetto a produrre od a conservare quello stato di fatto che gli corrisponde”[9].
A tale insegnamento, come ho sopra accennato, si era uniformata, recependone il rigoroso schematismo dogmatico, la dottrina romanistica che aveva affrontato, fra la fine del secolo XIX e l’inizio del successivo, il tema della improduttività degli atti negoziali.
Illuminanti di quel metodo e di quella impostazione, sono, del resto, le parole con cui Vittorio Scialoja, apriva, nel suo corso sul negozio giuridico, il capitolo dedicato al fenomeno della invalidità: “Il primo nostro compito è di stabilire alcune categorie in astratto, fissando anche una terminologia”[10]. Proposito che l’autore si prefiggeva di realizzare, individuando una generale categoria di invalidità, comprendente, in prima linea, il negozio nullo, concepito come quello in cui il difetto che lo vizia “arriva al massimo grado, ossia è tale che del negozio giuridico relativamente agli effetti che esso sarebbe destinato normalmente a produrre, noi non abbiamo altro che l’apparenza, senza la sostanza”: nullità, dunque, come equivalente di incapacità di produrre effetti, senza escludere, con questo, l’esistenza di una fattispecie concreta operante nella realtà. Non a caso, infatti, lo studioso escludeva recisamente l’equiparazione del negozio nullo al negozio inesistente, poiché -egli sosteneva- essendo anche i negozi nulli dei fatti, “l’apparenza molte volte non solo esiste, ma può produrre gravissimi effetti giuridici, sebbene indirettamente”.[11]
Anche il Betti partiva da un concetto latissimo di inefficacia, intesa come inidoneità del negozio a spiegare almeno “in guisa durevole” tutti gli effetti suoi propri e identificata con il concetto espresso dai Romani con il termine “inutilis”, ma era poi indotto, con un ritorno alla tradizionale bipartizione ed un sostanziale abbandono di una visione che privilegiasse la nozione romana di “utilitas”, a distinguere tra invalidità ed inefficacia in senso stretto, a seconda che, nella concreta fattispecie negoziale, mancasse -o fosse comunque viziato- taluno dei presupposti o degli elementi essenziali della categoria cui esso apparteneva oppure intervenissero circostanze estrinseche, tali da impedire la produzione degli effetti tipici[12].
L’invalidità così intesa veniva, a sua volta, a distinguersi nelle categorie della nullità e dell’annullabilità. Vero è che il Betti avvertiva che questa suddivisione era connaturata alla dogmatica moderna e, in quanto tale, non immediatamente utilizzabile nel diritto romano, il cui ordinamento giuridico non conosceva azioni di annullamento e non concepiva che un negozio giuridico, di per sé valido, potesse essere posto nel nulla e tradursi in atto improduttivo di effetti: ma la dicotomia riemergeva sotto altro profilo, quando l’Autore ammetteva che si dovesse tuttavia riconoscere che un problema pratico, analogo a quello risolto nei sistemi giuridici moderni attraverso l’istituto dell’annullamento, si presentava anche per il diritto romano, segnatamente nella contrapposizione fra ius civile e ius honorarium, il cui sistema attribuiva al pretore i mezzi e gli strumenti idonei a paralizzare l’efficacia di un negozio che sarebbe stato valido secondo i rigorosi principi civilistici[13].
- Tale tendenza, del resto, è riflessa nelle opere manualistiche, sia italiane che straniere, nelle quali, pur talvolta sottolineando la pluralità di espressioni con cui la giurisprudenza romana ha qualificato i casi di improduttività giuridica degli atti negoziali invalidi, non emergono indagini specificamente finalizzate a delineare e a distinguere il possibile differente significato che tali locuzioni, in genere accomunate fra loro in modo indifferenziato, possono avere singolarmente assunto nel concreto e sfaccettato delinearsi del fenomeno giuridico dell’invalidità negoziale nell’esperienza giuridica romana.
Al contrario, va detto che anche la dottrina più autorevole considera pacifico, tanto da non doversi ampiamente soffermare sul tema, che il fenomeno dell’invalidità negoziale degli atti giuridici nell’esperienza del diritto romano e quello, specularmente connesso, della loro eventuale possibile sanatoria, debba ricollegarsi, risolvendosi più o meno consapevolmente, nella duplice prospettiva riflessa nella contrapposizione fra sistema civilistico e pretorio, alle moderne categorie dogmatiche della nullità e dell’annullabilità, così come delineate dalla elaborazione della Pandettistica e recepite dal sistema del diritto positivo: con l’inevitabile conseguenza pratica che, per ius civile, un atto giuridico poteva presentarsi perfettamente valido e produttivo degli effetti ad esso ricollegati dall’ordinamento oppure totalmente ed irrimediabilmente privo di effetti giuridici, mentre un eventuale recupero della fattispecie poteva esclusivamente attuarsi, in ipotesi, mediante i rimedi pretori approntati a tal fine dall’ordinamento onorario[14].
- Lo sfaccettato e multiforme articolarsi della realtà del sistema giuridico romano in tema di patologia degli atti negoziali è riflesso nella varietà del dato terminologico, ricavabile dall’esame delle fonti che, anche ad una prima e sommaria valutazione esteriore, evidenziano l’assenza di un impianto sistematico e la difficoltà di attribuire alle diverse espressioni un significato unitario ed univoco[15].
Una simile considerazione muove dalla constatazione che la mancata produzione di effetti giuridici di un atto negoziale è indicata con una gamma amplissima ed eterogenea di termini, non organizzati in una precisa e coerente struttura classificatoria[16].
Fra questi, spiccano: corrumpere[17], effectum non habere[18], frustra facere[19], imperfectum esse, inane esse[20], inefficax esse[21], infectum esse, infirmare(i)[22], inutile esse[23], irritum esse[24], locum non habere, nihil agere (facere)[25], non consistere (subsistere)[26], non contrahi[27], non esse[28], non intellegi[29], non iure fieri, non posse[30], non recte fieri, non valere[31], non videri factum[32], nullas vires habere[33], nullius momenti esse[34], nullum effectum habere, nullum esse[35], pro non facto haberi ac si factum non esse[36], pro nihilo esse, pro nihilo haberi, ratum non esse, ratum non haberi[37], vitiosum esse (vitiari)[38].
- In un precedente lavoro[39], avevo sostenuto la necessità di approfondire l’indagine in una duplice prospettiva che, muovendo da una ricerca di carattere terminologico, superasse un rigido schematismo dogmatico, per giungere ad esaminare il significato delle varie espressioni che indicano, in generale, l’improduttività degli effetti giuridici di un atto negoziale, per verificare, in secondo luogo, l’eventuale esistenza, nel concreto atteggiarsi del pensiero e della riflessione della giurisprudenza romana, di un principio di conservazione degli effetti di un negozio, pur in presenza di situazioni che ne inficino, per qualche ragione, la validità.
Muovendo dai due passi giurisprudenziali riportati nel Digesto che, pressochè unanimemente, sono stati considerati, specialmente il primo, i capisaldi di una riflessione generale sulla validità e sull’invalidità degli atti negoziali nell’esperienza giuridica del diritto romano e tali da rappresentare la pacifica attestazione di un principio di irrecuperabilità dei negozi, ritenuti per qualche ragione, improduttivi di effetti giuridici per l’ordinamento, D. 50.17.29 di Paolo (Quod initio vitiosum est, non potest tractu temporis convalescere) e 50.17.210 di Licinio Rufino (Quae ab initio inutilis fuit institutio, ex postfacto convalescere non potest), ho ipotizzato una diversa ricostruzione del fenomeno della patologia negoziale nel diritto romano, in particolare, cercando di superare la consoldita opinione in base alla quale l’espressione vitiosus di D. 50.17.29, al pari di inutilis, impiegata in D. 50.17.210, riferita ad un atto giuridico, conciderebbe con il moderno concetto di nullità, intesa quale totale improduttività di effetti del regolamento negoziale.
Ho sostenuto tale ipotesi, rilevando, anzitutto, che nella Palingenesia del Lenel, il passo contenente l’affermazione dell’insanabilità della iniziale invalidità del negozio, del quale, peraltro, non è indicata la natura, è collocato successivamente ad altri tre frammenti, uno dei quali proveniente dai Frammenti Vaticani (Fr. Vat. 1) [40], l’altro riportato da D. 18.1.27[41] ed un terzo estratto da D. 26.8.3[42]. I primi due passi (Fr. Vat. 1 e D. 18.1.27) concernono, entrambi, gli effetti della compravendita di beni, rispettivamente, realizzate da una donna e da un pupillo senza l’auctoritas tutoris o in forza di auctoritas interposta da un falsus tutor; il terzo frammento (D. 26.8.3), invece, afferma la validità di un negozio per il quale l’auctoritas tutoris sia stata espressa in maniera informale, con la semplice dichiarazione di approvare id quod agitur.
Esaminata la connessione fra i due frammenti, ho evidenziato come, più che soffermarsi sulle ragioni che possono avere indotto Proculo e Celso, il cui pensiero era condiviso da Paolo, ad ammettere, nel caso di specie e sia pure in diversa prospettiva, la validità del possesso in capo al compratore (possessio pro emptore) e Giuliano addirittura a prospettare l’usucapibilità del bene[43], importa piuttosto rilevare che la mancanza di auctoritas tutoris oppure il suo rilascio a ministero di un soggetto non legittimato a farlo -vuoi nel caso di acquisto di un bene di una donna, riferito nel passo di apertura della Collezione Vaticana, vuoi per l’ipotesi del bene di un pupillo, oggetto del corrispondente testo raccolto nel Digesto-, non inficiava immediatamente, almeno da un certo momento dello sviluppo del pensiero giuridico della giurisprudenza, la compravendita fra le parti, quantomeno sotto quel particolare profilo che, per il diritto romano, ne costituiva l’effetto tipico, cioè la trasmissione, da parte del venditore, della pacifica disponibilità della cosa (possessionem tradere), la garanzia per l’evizione (ob evictionem se obligare) et purgari dolo malo[44], a fronte del pagamento del prezzo da parte dell’acquirente (nummos accipientis facere debet)[45].
Nel pensiero giuridico romano, dunque, quantomeno all’epoca di Paolo, a cui, come detto, va riferito l’insieme dei passi considerati e di cui fa parte anche il frammento raccolto in D. 50.17.29, da cui ho preso le mosse, la mancanza di una valida interposizione dell’auctoritas da parte del tutore non impediva, tanto nel caso di alienazione effettuata da una donna, quanto nell’ipotesi di vendita da parte del pupillus, che la compravendita producesse ugualmente il suo effetto tipico, rappresentato dal trasferimento del possesso della res, in forza del quale essa poteva dirsi validamente compiuta e realizzata.
Ho così ipotizzato che Paolo, con l’espressione “vitiosus”, riferita all’atto traslativo della res del pupillo o della donna, in quanto avvenuta sine tutoris auctoritate vel falso tutore auctore, intendesse sottolineare come neppure il decorso del tempo, elemento in sè idoneo, in astratto, a far acquistare la proprietà del bene comportasse, nella fattispecie considerata, l’effetto di far usucapire la res, non potest tractu temporis convalescere, non già per il difetto del titolo, chè la compravendita, nella prospettiva del ius civile, aveva realizzato gli effetti voluti dalle parti, bensì per la mancanza della buona fede in capo all’acquirente.
In questo quadro ricostruttivo, dunque, l’espressione vitiosus appare riferita all’atto traslativo che, lungi dall’essere totalmente improduttivo di effetti, si era validamente compiuto, con l’unico limite, quantomeno nella riflessione giurisprudenziale di Paolo, dell’inusucapibilità del bene, anche dopo il decorso il tempo necessario per il suo verificarsi proprio a motivo dell’assenza di buona fede in capo all’acquirente della res[46].
Così pure dall’analisi del passo di Licinio Rufino D. 50.17.210 (Quae ab initio inutilis fuit institutio, ex postfacto convalescere non potest) è possibile ricavare che la massima inserita nelle Regulae iuris del giurista non era, in origine, l’enunciazione di un principio assoluto, ma semmai l’espressione di una regola particolare, inerente la sola istituzione di erede ed è, pertanto, difficile immaginare, in mancanza di sicuri riscontri testuali, che tale frammento, unitamente a D. 50.17.29, costituisse il caposaldo di una riflessione sulla validità e sull’invalidità, in generale, degli atti giuridici romani[47].
- L’esame di un importante testo che si occupa della disciplina della patologia degli atti negoziali in età tardoantica offre utili elementi a conferma della ipotizzata ricostruzione di una concezione della nullità non incompatibile con l’esistenza, sul piano giuridico, di un atto negoziale.
Si tratta della Novella Teodosiana 9 dell’anno 439 (Nov. Theod., Ne curialis praedium alterius conducat aut fideiussor conductoris existat), parzialmente riportata nel Codice di Giustiniano nel titolo De legibus et constitutionibus principum et edictis (1.14.5).
Il testo, che la dottrina ha particolarmente studiato in relazione ai criteri di interpretazione del diritto nell’epoca tardoimperiale[48], si apre con la netta condanna -persino enfatizzata, come vedremo, nel testo giustinianeo- contro gli espedienti utilizzati dai cittadini per aggirare il contenuto precettivo della norma giuridica, mediante il fraudolento utilizzo di capziosi criteri ermenuetici dei verba dei testi legislativi[49]:
Nov. Theod. 9 pr.: Non dubium est in legem committere eum, qui verba legis amplexus contra legis nititur voluntatem: nec poenas insertas legibus evitabit, qui se contra iuris sententiam scaeva praerogativa verborum fraudulenter excusat.
L’occasione dell’intervento normativo, premessa la censura dell’interpretazione meramente letterale delle norme, ove utilizzata per raggiungere a qualunque costo il risultato che l’ordinamento si prefigge di evitare[50], muove dalla volontà di ribadire il divieto, introdotto da una costituzione di Graziano, Valentiniano e Teodosio dell’anno 382, C.Th. 12.1.89, con la quale la cancelleria imperiale aveva vietato l’amministrazione di beni altrui da parte dei curiali, pena la confisca degli stessi e la contestuale deportazione[51]:
C.Th. 12.1.89: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Floro p(raefecto) p(raetori)o. Si quis procurationem facultatum suarum curiali crediderit esse mandandam, totius dignitatis exceptione depulsa patrimonium eius quod crediderat curiali proscribtio fiscalis invadat. Ille vero, qui immemor libertatis et generis infamissimam suscipiens vilitatem existimationem suam servili obsenducatione damnaverit, deportationis incommodo subiugetur. Dat. X kal. Nov. Constant(ino)p(oli) Antonio et Syagrio conss.
La Novella Teodosiana intende censurare l’abitudine, evidentemente invalsa nella prassi, di aggirare tale divieto mediante la stipulazione fraudolenta (in fraudis) di contratti di locazione, sebbene la norma di riferimento avesse già specificamente previsto un espresso divieto in relazione alla locatio conductio: conductionem namque speciem esse procurationis certissimum est.
In ogni caso, per evitare qualunque dubbio intepretativo, ribadisce il generale divieto per i curiali di condurre in locazione fondi altrui (hac perpetuo lege valitura sancimus conducendi quoque fundos alienos licentiam curialibus amputari):
Nov. Theod. 1
Curiales ne ad procurationem rerum alienarum accederent, cautum est providentissima sanctione, cuius in fraudem conducendi eos sibimet usurpare licentiam sublimitatis tuae suggestione conperimus. Quos licet pristinae legis laqueis inretiri cernamus -conductionem namque speciem esse procurationis certissimum est- adtamen ne sub fraudis suae velamine legis lateant contemptores neve eis fucata suae calliditatis excusatio relinquatur, hac perpetuo lege valitura sancimus conducendi quoque fundis alienos licentiam curialibus amputari, locatas res fisci viribus vindicari.
Non solo: a rafforzare la valenza giuridica della disposizione in esame, la Novella esclude qualsiasi tipo di tutela in campo processuale: la stipulazione di simili atti giuridici, infatti, non attribuisce ai contraenti alcuna azione (conductor itaque locatori vel contra locator conductori contra hanc legem nulla tenebitu actione: § 2), precisando che è pure vietata la prestazione di garanzie personali[52]:
Nov. Theod. 4: Sed quo omne fraudis semen per hanc legem curilibus radicitus amputetur, nec fidem suam pro conductoribus fundorum interponere concedimus curiales. Cur enin conductio prohibetur, si conductionis periculum vel sollicitudo permittitur? Secundum praedictam itaque regulam, quam ubique servari factum lege prohibente censuimus, certum est nec stipulationem eiusmodi tenere nec mandatum ullius esse momenti nec sacramentum admitti nec actionem quilibet pacto adversus eum fideiussorem conpetere locatori, Florenti p(arens) k(arissime) a(tque) a(mantissime). Inlustris itaque et magnifica auctoritas tua providentissime constituta edictis propositis ad omnes provincias pereferri parecipiat.
- In tale contesto si colloca la disposizione di gran lunga più significativa sul piano giuridico, contenuta nel corpo della Novella (segnatamente nella seconda parte del secondo e nel terzo paragrafo) ed estrapolata, non a caso, dai compilatori giustinianei (C. 1.14.5 del 439)[53], relativa alle sanzioni che, nonostante l’insistito accento sul divieto, conseguono alla stipula di atti giuridici fraudolenti in violazione del comando nomativo:
Nov. Theod. 2: Nullum enim pactum, nullam conventionem, nullum contractum inter eos videri volumus subsecutum, qui contrahunt lege contrahere prohibente. 3. Quod ad omnes etiam legum interpretationes tam veteres quam novellas trahi generaliter imperamus, ut legis latori quod fieri non vult tantum prohibuisse sufficiat, cetera quasi expressa ex legis liceat voluntate colligere: hoc est, ut ea quae lege fieri prohibentur, si fuerint facta, non solum inutilia, sed pro infectis etiam habeantur, licet legis lator fieri prohibuerit tantum nec specialiter dixerit inutile debere esse quod factum est. Sed et si quid fuerit subsecutum ex eo vel ob id quod interdicente factum est lege, illud quoque cassum atque inutile esse praecipimus.
Prendendo spunto dal regime del caso concreto, la Novella elabora un principio generale, particolarmente significativo in considerazione dell’allora recente entrata in vigore del Codice Teodosiano, che si prefigge lo scopo di evitare interpretazioni fraudolente tanto delle veteres quanto delle novellae leges, nel senso che la disposizione proibitiva doveva essere applicata nel senso più ampio possibile, con conseguenze sanzionatorie automatiche, anche per il caso in cui non fosse espressamente prevista la sanzione[54], sia sul piano sostanziale che sul piano processuale[55].
Nel caso in esame, la sanzione consisteva nella nullità del contratto posto in essere dalle parti, in violazione del divieto normativo: in sostanza, si considerava improduttivo di effetti il regolamento di interessi effettivamente concluso fra i contraenti: illud quoque cassum atque inutile esse praecipimus.
In sostanza, importa specialmente sottolineare che la Novella dichiarava nullo un atto che era stato effettivamente stipulato fra le parti e si poneva in contrasto con la rigida alternativa tra validità ed inesistenza che, nella tradizionale impostazione della patologia degli atti negoziali, aveva informato, come s’è detto, tutta la riflessione della giurisprudenza di età classica.
Un effetto, a ben vedere, nient’affatto innovativo in età tardoantica, se letto nel quadro delle proposte riflessioni sulla possibilità, rivelata in particolare dal passo di Paolo sopra riportato (D.50.17.29), che l’atto vulnerato e la relativa nullità, lungi dal coincidere con la sua giuridica inesistenza e la conseguente improduttività di effetti, possa riguardare atti esistenti e, ove non colpiti dalla sanzione, perfettamente idonei a dispiegare gli effetti titpi ad essi riconnessi.
Da tali riflessioni sembra, dunque, emerge la possibilità di corroborare quanto ipotizzato a proposito della riflessione relativa al diritto classico e di escludere, come pure autorevolmente sostenuto, che il testo della Novella Teodosiana 9 in esame rappresenti una “svolta concettuale e normativa” [56]: al contrario, essa consente di delineare un armonico sviluppo fra il regime classico e quello teodosiano, peraltro attestato anche in età giustinianea (C. 1.14.5), nel cui alveo è possibile ribadire come la rigida alternativa tra negozio giuridico valido ed efficace, in contrapposizione al negozio inidoneo ab initio a produrre effetti giuridici, in quanto nullo, tradizionalmente posta a sostegno della teoria dell’invalidità nell’esperienza romana, meriti una differente lettura, più aderente all’insegnamento delle fonti.
Secondo la disposizione teodosiana, infatti, la sanzione della nullità contro il regolamento di interessi concluso in violazione della norma di legge (nullum enim pactum, nullam conventionem, nullum contractum inter eos videri volumus subsecutum, qui contrahunt lege contrahere prohibente: Nov. Theod. 9.2) colpiva un negozio giuridico che, sino a quel momento, era perfettamente idoneo a produrre gli effetti giuridici che l’ordinamento ricollegava alla fattispecie: anzi, era proprio a motivo della validità dell’atto, della sua utilità giuridica, seppure illecita, che la cancelleria imperiale si era determinata ad intervenire con esmplare rigore per caducarne definitivamente gli effetti.
Patrocinante avanti alle Magistrature Superiori
Professore presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi
[1] GUARINO nell’ultima edizione del suo Diritto privato romano, Napoli 200112, 339.
[2] GUARINO, Diritto privato romano cit., 341.
[3] GIUFFRE’, Il diritto dei privati nell’esperienza romana, Napoli 19882, 155.
[4] PERGAMI, “Quod initio vitiosum est non potest tractu temporis convalescere”. Studi sull’invalidità e sulla sanatoria degli atti negoziali nel sistema privatistico romano, Torino 2012, 2 ss.
[5] SCHULZ, Prinzipien des römischen Rechts, München 1934 (trad. it. a cura di V. ARANGIO-RUIZ, I principi del diritto romano, Firenze 1946), 66: “Un negozio giuridico è valido o nullo: la nullità relativa è ignota al diritto classico”.
[6] Per i rapporti fra Pandettistica e tradizione civilistica, restano fondamentali i lavori di A.B. SCHWARZ, Zur Entstehung des modernen Pandektensystem, in ZSS 47 (1921), 578 ss.; P. KOSHAKER, Europa und das römischen Rechts, München-Berlin, 1953, 254 ss.; R. ORESTANO, Introduzione allo studio storico del diritto romano, Torino 1961, 103 ss.; F. WIEACKER, Privatrechtsgeschichte der Neuzeit, Göttingen 1967, 348 ss, nonchè la sintesi in M. BRUTTI, Invalidità, in ED 22 (1972), 560 ss.
[7] In questo senso, si leggano le efficaci pagine del BRUTTI, Invalidità cit., 561: “Tale metodo (scil.: della Pandettistica) serve a manipolare i dati testuali e si differenzia nettamente dai modi di procedere della giurisprudenza romana”. A tale proposito, vedi G. GANDOLFI, I testi romani sul trattamento della conversione attraverso il filtro della Pandettistica, AAC 4 (1981),
[8] WINDSCHEID, Lehrbuch des Pandektenrechts, Frankfurt 1862, 423 (tr. It., Diritto delle Pandette, a cura di C. FADDA e P.E. BENSA, I, Torino 1930, 264). Il tema dell’invalidità degli atti negoziali era già stato affrontato, con particolare riferimento alla eterogeneità delle espressioni utilizzate dai giuristi romani per indicare il fenomeno dell’improduttività degli atti giuridici, in un precedente lavoro dal titolo: Die Lehre des Code Napoléon von der Ungültigkeit der Rechtsgeschäfte, Düsseldorf 1847, 290. Per un’impostazione in chiave pandettistica del tema della patologia degli atti negoziali, cfr. anche KARLOWA, Das Rechtsgeschäft und seine Wirkung, Berlin 1877, (rist. anast. 1968), 116 ss.; WENDT, Lehrbuch der Pandekten, Jena 1888, 164 ss.; F. REGELSBERGER, Pandekten, I, Liepzig 1893, 541 ss. Per originalità di indagine, finalizzata a contrastare la rigida sistematica delle trattazioni pandettistiche, si segnala, nello stesso torno di tempo, il lavoro di S. SCHLOSSMANN, Zur Lehre vom zwange. Eine civilistiche Abhandlung, Leipzig 1874, 7 ss., per il quale i concetti di Nichtigkeit e di Anfechtbarkeit indicherebbero, rispettivamente, fattispecie giuridicamente irrilevanti e atti negoziali improduttivi o solo parzialmente produttivi di effetti giuridici.
[9] WINDSCHEID, Diritto delle Pandette cit., 265 s., sulla scia degli autorevoli precedenti del PUCHTA, Pandekten, Leipzig 1838, 105 ss. e del SAVIGNY, System des heutigen Römischen Rechts, 4, Berlin 1841, 536 ss.
[10] SCIALOJA, Negozi giuridici. Corso di diritto romano, Roma 1893, 233 (che cito nella terza ristampa, con prefazione di S. RICCOBONO, pubblicata a Roma).
[11] SCIALOJA, Negozi giuridici cit, 234.
[12] BETTI, Istituzioni di diritto romano, 1, Padova 1942, 175 ss.
[13] BETTI, Istituzioni cit., 179.
[14] ARANGIO-RUIZ, Istituzioni di diritto romano, Napoli 198314, 97 s. Così, anche BIONDI, Istituzioni di diritto romano, Milano 1972 (ristampa inalterata della IV edizione), 218 ss.
[15] Si leggano, con specifico riferimento alla mancanza di un disegno sistematico nelle fonti, le pagine del WINDSCHEID, Die Lehre des Code Napoleon von der Ungültigkeit cit., 290 e di GRADENWITZ, Die Ungültigkeit obligatorischer Rechtsgescäfte, Berlin 1887, 6 ss.
[16] Sottolinea questo profilo SCIALOJA, Negozi giuridici cit., 233.
[17] D. 8.1.11; 45.1.72 pr.
[18]D. 16. 1.8.12; 23.3.12 pr.; 29.1.29.1; 37.4.19; 38.1.13 pr.; 39.1.5.1; 44.7.55; C.I. 7.43.5.
[19] D. 13.7.40 pr.; 13.7.40.1; 17.2.14; 20.1.1; 21.2.31; 23.2.62 pr.; 23.3.69.9; 24.1.53 pr.; 26.3.7 pr.; 28.2.1; 28.6.7;
30.109 pr.; 31.7.14; 31.67 pr.; 33.3.5; 42.5.30; 46.1.48 pr.; 46.1.65; 49.1.23.1; C.I. 2.4.21; 2.4.32; 2.4.34; 4.35.20 pr.; 4.38.4; 4.46.2.1; 5.42.3.2; 5.46.3; 8.15.1;
[20] D. 10.4.18; 12.5.8; 16.1.8.9; 22.3.12; 24.1.39; 24.3.42.2; 28.5.82.1; 37.4.19; 40.12.24.2; 44.7.11; 46.3.95.2; 50.8.2; C.I. 8.32.2; Val e Gall. Cod Greg. 4.11.2; Gai. Inst. 2.224;
[21] D. 4.8.11.5; 34.2.2; 34.4.14.1; 40.16.3; 49.8.2 pr.; C.I. 2.3.19; C.I. 6.36.2.1;
[22] D. 12.6.23.2; 23.1.8; 24.1.11.10; 24.1.32.21; 28.3.4; 28.7.15; 30.108.9; 35.2.66.1; 40.4.29; 50.17.112.
C.I. 7.4.2 ; 7.8.2.
Gai., Inst. 2.131; 2.145; 2.151.
Cons. 1.10; 19.19.
Ulp. Fr. 23.1; 24.19.
[23] D. 2.14.21.2; 2.14.27.9; 2.14.28.2; 7.1.51; 7.6.1.1; 7.8.14.1; 7.9.1.7; 7.9.4; 8.3.19; 8.4.18.1; 9.4.42 pr.;10.2.39.2; 12.1.9.4; 12.1.41; 13.4.2.6; 13.5.1.4; 15.4.1.5; 15.4.2.2; 17.1.29.1; 20.6.1.1; 21.2.31; 26.4.10.1; 26.7.39.9; 26.8.7; 28.2.8; 28.2.30; 28.5.4.2; 28.5.35 pr.; 28.5.38.3; 28.5.50; 28.7.4 pr.; 28.7.16; 29.2.97; 29.7.2.4; 30.18; 30.19 pr.; 30.19.1; 30.24.1; 30.34.11; 30.65 pr.; 30.68.3; 30.82 pr.; 30.82.2; 30.82.5; 30.91.1; 30.108.4; 30.112 pr.; 30.126 pr.; 31.34 pr.; 31.37; 31.76.4; 31.88.13; 32.8.1; 33.2.5; 33.5.13.7; 33.8.6.1; 33.8.12; 34.1.14.3; 34.3.25; 34.4.14.1; 34.7.1 pr.; 35.1.79.3; 35.1.82; 35.1.86.1; 35.2.1.16; 35.2.30.8; 35.2.49 pr.; 35.2.51; 35.2.65; 36.1.78; 36.2.8; 37.11.6; 38.1.24; 39.1.2; 39.2.11; 39.2.32; 39.2.38 pr.; 39.6.17; 40.4.18.1; 40.4.39; 40.5.24.10; 40.5.34.2; 40.7.4.1; 43.5.1.3; 45.1.1.1; 45.1.1.5; 45.1.34; 45.1.38.1; 45.1.46.2; 45.1.46.3; 45.1.56.1; 45.1.61; 45.1.83.5; 45.1.83.7; 45.1.87; 45.1.110 pr.; 45.1.126.2; 45.1.128; 45.1.130; 45.1.141.7; 45.3.1.5; 45.3.9.1; 45.3.10; 45.3.11; 45.3.21; 45.3.22; 45.3.26; 45.3.38; 45.3.98.7; 46.1.65; 46.4.8 pr.; 46.8.8.2; 48.10.6 pr.; 49.1.17.1;
Fr. Vat. 56; 98;
Paul Sent. 1.18.4; 4.1.8; Paul fr. De form. Fab. Fol I vers. § 7 e 8;
Gai. Inst. 2.118; 2.121; 2.123; 2.147; 2.196; 2.198; 2.212; 2.218; 2.220; 2.229; 2.232; 2,235; 2.238; 2.241, 2.244;
2.261; 2.269; 3.97; 3.97a; 3.98; 3.99; 3.100; 3.102; 3.103; 3.104; 3.176; 3.158;
C.I. 4.36.1 pr.; 5.28.7; 5.45.2; 6.25.5 pr.; 6.42.2; 6.42.28; 8.25.5; 8.38.1; 8.38.2; 8.38.3; 8.38.4; 8.38.4; 8.38.5;
[24] D. 2.15.8.17; 4.4.44; 12.6.59; 16.1.7; 18.1.52; 18.5.10 pr.; 19.1.11.6; 24.1.3.4; 24.1.31.4; 24.1.32.19, 24.1.32.20; 26.7.39.5; 27.9.14; 28.3.1; 28.3.6.5; 28.3.6.6; 28.3.6.7; 28.3.6.8; 28.3.7; 28.5.38.4; 28.6.41.2; 28.6.41.7; 29.1.27; 29.1.36.3; 29.3.2.1; 29.5.10 pr.; 31.76.9; 31.77.5; 31.81; 38.16.1 pr.; 39.5.31 pr.; 40.5.30.17; 40.9.25; 40.15.2.2; 44.3.10.1; 48.2.18; 48.11.8.1; 49.14.8;
Fr. Vat. 265; 294.1; Severo Consul. 1.6; Alex Consul. 1.8;
C.I. 2.3.8 (=Consul. 9.11); 2.40.4; 4.38.9; 4.44.1; 5.16.7; 5.42.3.2; 6.24.7; 6.39.2.1; 6.50.8 pr.; 7.11.4; 7.27.3; 7.45.6;
7.58.3;
Gai. Inst. 2.146; 2.147;
Paul Sent. 4.8.2a;
Ulp. Fr. 23.1; 23.4;
[25]D. 3.5.5.8; 4.2.21.4; 8.1.15 pr.; 8.3.3.3; 8.3.34 pr.; 8.4.18 pr.; 13.7.2; 17.2.75; 18.1.57.3; 18.1.64; 18.4.1; 18.5.1; 18.5.7 pr.; 19.2.52; 20.1.34 pr.; 24.1.5.3; 24.1.9 pr.; 24.1.11.9; 24.1.49; 26.8.9.2; 26.10.3.13; 27.6.3; 27.9.7.3; 28.7.20.1; 29.2.13 pr.; 29.2.13.1;29.2.25.11; 29.2.25.14; 29.2.30.4; 29.2.75; 29.2.92; 29.7.6 pr.; 33.5.9.1; 33.5.16; 33.5.18; 36.1.9.3; 37.10.3.3; 39.1.14; 39.5.13; 40.9.16.1; 40.9.20 pr. (=Gai., Inst. 1.37) 41.1.37.4; 41.1.37.6; 42.5.12 pr.; 44.7.1.12; 45.1.58; 45.1.83.1; 45.1.137.1; 45.2.16; 45.3.1.1; 45.3.16.1; 46.1.21.2; 46.4.8.4; 48.10.29; 49.14.7; 49.17.18.1; 49.17.18.2; Gai. Inst. 2.30; Gai. Inst. 3.86; Gai. Inst. 3.114; Gai Inst. 3.117; Fr. Vat. 263; C.I. 1.18.5; C.I. 6.31.4; C.I. 7.48.1; Ulp. Fr. 1.18.
[26] D. 5.1.11; 8.4.4; 13.6.1.2; 18.1.44; 23.2.2; 23.3.3; 30.34 pr.; 30.39.2; 30.41.2; 31.67 pr.; 32.40.pr.; 40.13.4; 41.3.21; 45.1.35 pr.; 45.1.108.1; 46.3.72.4; 50.17.45 pr.; 50.17.129.1; 50.17.178; Ep. Cod Greg. 8.2; C.I. 1.18.8 C.I. 3.1.7; C.I. 3.3.1; C.I. 3.38.7; C.I. 4.22.5; C.I. 4.36.1; C.I. 4.38.4; C.I. 4.38.10; C.I. 4.65.23; C.I. 5.70.2.1; C.I. 7.2.11; C.I. 8.16.6; C.I. 8.23.1; C.I. 9.19.1; Gai. Inst. 1.61; Gai. Inst. 2.123; Gai Inst. 2.187; Gai. Inst. 4.78; Ulp. Fr. 22.12; Diocl. Cons. 6.17; Paul. Sent. 5.25.6a;
[27] D. 18.1.35.2; 18.4.7; 19.2.20 pr.; 19.2.25 pr.; 19.4.1.3; 20.1.1.4; 23.2.22; 23.2.35; 23.2.60.8; Gai. Inst. 1.59.
[28] D. 4.8.32; 4.38.2; 12.1.18 pr.; 12.1.18.1; 12.1.20; 18.2.14.3; 20.2.5.2; 23.2.27; 23.2.42.1; 23.2.63; 23.2.66 pr.; 23.3.68; 24.1.3.1; 26.2.30; 28.2.2; 28.4.1.1; 28.5.2.1; 36.1.79.1; 40.9.17 pr.; 40.13.2; 40.4.31; 40.7.4.1; 48.19.2.2; 50.17.107; Gai. Inst. 1.46; C.I. 5.3.5;
[29] D. 18.1.8 pr.; 18.1.55; 22.6.10; 24.1.26 pr.; 46.1.21.2; 50.17.110.2; C.I. 5.62.4 pr.;
[30] D. 1.7.24; 1.7.37.1; 1.10.1; 1.10.2; 1.11.1.1; 1.14.4; 1.16.9; 1.18.5; 1.19.3.1; 1.21.2 pr.; 1.21.2.1; 1.21.5; 2.1.5; 2.1.13.1; 2.4.6; 2.4.10.8; 2.4.13; 2.8.2.1.; 2.14.28 pr.; 2.14.27 pr.; 2.14.34; 3.3.42 pr.; 3.5.5.14; 4.8.7 pr.; 4.8.32.21; 4.8.51; 7.8.14 pr.; 8.1.2; 8.1.11; 8.3.14; 8.3.19; 10.3.27; 12.1.9.4; 12.6.26.1; 13.5.7.1; 14.6.18; 17.2.16.1; 17.2.29.2; 17.2.30; 18.1.6 pr.; 18.1.34.7; 18.1.42; 18.1.62 pr.; 18.1.73; 19.2.44; 20.1.11.3; 20.3.1; 20.3.1.2; 20.6.8.5; 22.1.17.3; 23.1.14; 23.2.5; 23.2.12.1; 23.2.12.2; 23.2.14 pr.; 23.2.28; 23.2.36; 23.2.38; 23.2.39 pr.; 23.2.40; 23.2.45 pr.; 23.2.49; 23.2.51; 23.2.55.1; 23.2.62.2; 23.3.9.1; 23.3.28; 23.3.59.1; 23.3.66; 23.3.67; 23.4.5; 23.4.6; 23.4.16; 23.4.18; 23.5.1.1; 23.5.2; 23.5.3.1; 23.5.5; 23.5.9.3; 23.5.9.11; 23.5.13.1; 24.1.3.3; 24.1.3.9; 24.1.7.8; 24.2.4; 24.2.6; 24.3.22.7; 26.1.1.2; 26.1.6.1; 26.1.6.4; 26.1.18; 26.2.12; 26.2.20 pr.; 26.5.4; 26.5.8 pr.; 26.5.20 pr.; 26.5.21.1; 26.8.1 pr.; 26.8.5.2; 26.8.7 pr.; 26.8.7.2; 26.8.9.1; 26.8.9.3; 26.8.9.4; 26.8.18; 27.9.5.4; 27.9.5.5; 27.9.5.8; 27.9.8 pr.; 27.10.12; 27.10.17; 28.1.6 pr.; 28.1.11; 28.1.14; 28.1.15; 28.1.16 pr.; 28.1.17; 28.1.18 pr.; 28.1.31 (=Paul. Sent. 12.9); 28.3.4; 28.3.19 pr.; 28.6.1.3; 28.6.6; 28.6.2.1; 28.6.48.1; 28.7.21; 28.7.25; 28.7.27.1; 29.1.15 pr.; 29.2.1; 29.2.2; 29.2.3; 29.2.15; 29.2.27; 29.2.30.1; 29.2.30.2; 29.2.32 pr.; 29.2.32.1; 29.2.32.2; 29.2.45.3; 29.2.46; 29.2.63; 29.2.69; 29.2.90 pr.; 29.7.2.4; 29.7.6 pr.; 29.7.6.3; 30.39.9; 30.55; 30.95; 30.114.3; 30.114.9; 30.114.11; 30.116.1; 30.116.2; 31.31; 31.69.2; 31.82.2; 32.1 pr.; 32.1.2; 32.2; 32.6.1; 33.2.34.1; 33.5.16; 34.9.12; 35.1.37; 36.1.57; 36.1.78; 38.2.29 pr.; 38.4.7; 38.4.8; 38.9.1.1; 39.1.5.1; 39.5.1.5; 39.3.17.3; 39.5.7 pr.; 39.5.23.1; 40.1.8 pr.; 40.1.9; 40.1.13; 40.2.10; 40.2.18 pr.; 40.4.33; 40.5.15; 40.9.4; 40.9.5.2; 40.9.12.1; 40.9.12.2; 40.9.12.7; 40.9.21; 40.9.22; 40.9.27.1; 41.1.54 pr.; 41.2.29; 41.2.30.1; 41.6.1.2; 42.1.9; 42.1.55; 42.1.62; 44.7.11; 45.1.38.17; 45.1.70; 45.1.103; 45.1.126.2; 45.3.9 pr.; 45.3.19; 46.1.34; 46.1.42; 46.1.47 pr.; 46.1.56.1; 46.1.70.4; 46.1.71 pr.; 46.2.3; 46.3.14.8; 46.3.15; 46.3.22; 46.4.4; 46.4.8.3; 46.4.13.5; 46.4.13.10; 46.4.22; 46.8.7; 48.2.18; 48.2.20; 48.16.1.10; 48.22.2; 49.14.8; 49.17.18.3; 50.7.5.1; 50.7.16; 50.17.5; 50.17.11; 50.17.110.2; 50.17.141.1; 50.17.174.1;
Gai. Inst. 1.24; 1.25; 1.59; 1.63; 1.104; 1.121; 1.146; 1.153; 1.179; 1.184; 2.38; 2.80; 2.84; 2.87; 2.96; 2.113; 2.184;
2.220; 2.230; 2.231; 2.236; 2.239; 2.270; 2.287; 2.288; 2.289; 3.43; 3.95; 3.104; 3.105; 3.106; 3.113; 3.119; 3.171;
3.175; 3.181; 4.4; 4.108; 4.124; 4.153; 4.187;
Fr. Vat. 6; 45; 47; 47a; 49; 51; 80; 99; 146; 208; 211; 212; 282; 283; 294.1; 317;
Paul. Sent. 1.1.4; 1.1.6; 1.1.7; 1.1a.12; 1.1a.23; 1.2.1; 1.6a.1; 1.6b.1; 1.12.3; 1.13a.2; 1.19.2; 2.3.15; 2.10; 2.13.3;
2.13.4; 2.17.10; 2.19.3; 2.19.6; 2.19.7; 2.19.8; 2.20.1; 2.23.3; 2.26.10; 2.26.17; 2.26.29; 3.4a.8; 3.4a.11; 3.6.2, 3.6.5;
3.6.12; 4.1.13; 4.1.1; 4.1.14; 4.12.2; 4.12.6; 4.12.9; 4.12.12; 4.13.3; 4.14a; 5.1.1; 5.1.8; 5.1a.11; 5.4.2; 5.4.12; 5.5a.6;
.5a.7; 5.17.1;
Ulp. Fr. 1.17; 1.20; 8.8a; 10.3; 11.16; 11.17; 11.22; 19.6; 20.3; 20.4; 20.5; 20.7.10; 20.7.13; 20.7.14; 20.13; 22.4.5;
22.6; 22.8; 22.29; 23.9; 24.15; 24.16. 24.17; 24.20; 24.22; 24.24; 25.7; 25.8; 25.10; 25.11; 25.13;
C.I. 2.3.3; 2.3.15; 2.3.25; 2.4.13.2; 2.4.26; 2.55.1; 2.12.10; 2.25.1; 3.32.3 pr.; 3.37.2 pr.; 3.44.2; 3.44.4; 3.44.9;
4.26.10.1; 4.26.12; 4.27.1 pr.; 4.29.7; 4.29.14; 4.35.12; 4.36.1 pr.; 4.36.1.2; 4.38.7; 4.49.11; 4.51.4; 4.51.6; 4.52.2;
4.57.5 pr.; 4.65.23; 5.4.4; 5.5.2; 5.7.1.6; 5.12.7; 5.12.12; 5.12.22; 5.16.11; 5.16.18; 5.16.20; 5.23.2; 5.29.3; 5.42.3.1;
5.52.9; 5.53.3; 5.71.3; 5.71.4; 5.71.8; 6.2.6; 6.3.1; 6.23.3.1; 6.23.4 pr.; 6.24.1; 6.24.8; 6.24.10; 6.26.2; 6.27.1; 6.27.3;
6.30.5; 6.30.7; 6.30.11; 6.31.4; 6.35.4; 6.36.5; 6.42.9; 6.37.13; 6.42.26; 6.54.7; 6.59.4; 7.1.3; 7.2.9; 7.4.5; 7.10.4;
7.11.2; 7.12.1 pr.; 7.12.2 pr.; 7.16.10; 7.16.26; 7.16.33; 7.16.39; 7.20.1; 7.32.5; 7.50.1; 7.57.3; 7.60.3; 8.1.2; 8.13.6;
8.15.4; 8.15.6; 8.15.7; 8.23.1.1; 8.27.1; 8.38.6; 8.41.6; 8.46.3; 8.50.4 pr.; 8.53.10; 8.53.14; 8.53.17.1; 8.53.21; 9.2.9
pr.; 9.9.5; 9.9.15 pr.; 9.47.2; 10.47.1.
Fr. Dosith. 11.12.15;
Ulp. Coll. 6.2.2; 6.2.3;
[31] D. 2.1.15; 2.11.4.4; 2.14.7.5; 2.14.7.14; 2.15.8.20; 4.4.16.3; 4.8.17.3; 4.8.17.5; 4.8.21.4; 4.8.32.16; 5.2.8.5; 5.2.8.16; 5.2.28; 7.8.14 pr.; 8.1.11; 8.1.15 pr.; 8.4.2; 8.4.7 pr.; 8.15.2; 8.15.3; 8.16.3; 8.20.1; 10.2.27; 12.6.53; 12.6.54; 16.1.1; 17.2.65.10; 18.1.63; 18.1.14; 18.1.16 pr.; 18.1.18 pr.; 18.1.38; 18.1.72 pr.; 18.5.1; 22.5.14; 23.3.12 pr.; 23.3.29; 23.4.4; 23.5.13.4; 24.1.1; 24.1.3.1; 24.1.3.6; 24.1.3.10; 24.1.5 pr.; 24.1.5.1; 24.1.5.2; 24.1.31.1; 24.1.32.13; 24.1.49; 24.1.56; 24.1.56; 24.1.66; 26.1.6.4; 26.2.9; 26.5.8.1; 26.5.10; 26.7.12.1; 26.8.1.1; 27.9.1.4; 27.9.7.5; 27.10.17; 28.1.8 pr.; 28.1.18 pr.; 28.1.20.10; 28.2.7; 28.2.9.1; 28.2.14.1; 28.2.19; 28.2.31; 28.4.1 pr.; 28.4.1.5; 28.5.27.1; 28.5.50 pr.; 28.5.52 pr.; 28.5.63.1; 28.6.1.3; 28.6.2.1; 28.6.2.4; 28.6.10 pr.; 28.6.10.7; 28.6.16.1; 28.6.41.3; 28.6.43 pr.; 29.1.13.2; 29.1.13.3; 29.1.23; 29.1.26; 29.2.17 pr.; 29.7.5; 29.7.7 pr.; 29.7.8.6; 29.7.9; 30.12.3; 30.41.4; 30.49.4; 30.109 pr.; 30.112.3; 30.113.3; 30.113.5; 31.66.6; 32.1.1; 32.3.4; 32.36; 32.37 pr.; 33.4.1.13; 34.3.8.4; 34.4.3.6; 34.7.1 pr.; 34.9.12; 35.1.96 pr.; 38.1.36; 38.2.12.5; 39.5.15; 39.6.27; 40.4.29; 40.4.61.2; 40.5.46 pr.; 40.5.46.3; 40.9.14.5; 40.9.20; 41.3.27; 41.3.42; 42.1.59.3; 43.5.1.3; 45.1.17; 45.1.44; 45.1.123; 45.1.141.7; 48.10.15.1; 48.18.1.15; 48.18.9.1; 48.19.38.6; 48.22.7.22; 49.1.19; 49.8.2.1; 50.17.23; Gai. Inst. 2.119; Gai Inst. 2.144; Gai. Inst. 2.218; Gai Inst. 2.270 a; Gai Inst. 2.281; Gai, Inst. 3.131; Gai Inst. 4,44; C.I. 5.16.5; C.I. 5.16.7; C.I. 6.13.9; C.I. 6.21.9; C.I. 6.36.1 pr.; C.I. 6.37.4; C.I. 6.37.10; C.I. 6.37.15; C.I. 7.2.5; C.I. 7.11.5; C.I. 8.27.8; C.I. 9.6.6.2; C.I. 9.20.4; Paul. Sent. 2.26.9; Paul. Sent. 3.4b.3; Ulp. Fr. 1.21; Ulp. Fr. 22.16; Ulp. Fr. 28.6; Ulp. Fr. 24.11a; Ulp. Fr. 25.9;
[32] D. 2.8.6; 2.8.8.1; 12.2.33; 18.1.57; 24.1.35; 24.2.3 pr.; 28.1.22.3; 29.2.25.1; 36.2.30; 40.11.1; 41.3.33.5; 42.1.60; 50.17.93; 50.17.189; Paul. Sent. 2.13.4; Gai. Inst. 2.127;
[33] D. 9.2.40; 10.3.14.2; 18.1.35.2; 28.5.46; 35.1.79.4; 43.26.12 pr.; 45.1.73.1; 46.1.70.5; 49.8.2.1; 49.14.46.7; 50.17.181; C.I. 2.3.6; C.I. 7.64.2; Gai., Inst. 2.144; Gai.Inst. 2.244; Gai. Inst. 3.140; Gai. Inst. 4.44.
[34] D. 1.14.3; 2.11.14; 2.12.1.1; 2.15.8.17; 2.15.8.23; 3.4.6.1; 4.2.22; 16.1.1.7 pr.; 17.2.3.3; 18.1.38; 18.7.4; 20.1.34.1; 22.1.3; 23.1.16; 23.2.30; 24.1.3.4; 24.1.3.10; 24.1.3.13; 24.1.5.5; 24.1.7.6; 24.1.32.14; 24.1.32.34; 24.1.32.35; 26.1.6.1; 26.5.8.1; 26.8.5.2; 26.8.5.3; 26.8.7.2; 28.2.13.2; 28.2.14.2; 28.3.1; 28.5.35.1; 28.5.49.2; 28.6.48.1; 29.1.15.1; 29.7.3.2; 29.7.14 pr.; 30.101.1; 30.102; 30.108.9; 33.4.1.9; 34.3.13; 35.1.83; 34.6.1; 36.2.25.1; 37.4.20 pr.; 37.14.16; 39.1.5.4; 40.4.17 pr.; 40.4.61 pr.; 41.3.21; 41.3.71.2; 42.1.54 pr.; 42.4.7.3; 42.8.22; 44.7.31; 45.1.26; 45.1.27 pr.; 45.1.29.1; 45.1.137.6; 45.1.141.8; 45.3.1.3; 45.3.1.4; 45.3.18.2; 45.3.36; 46.4.5; 46.4.8 pr.; 46.4.13.1; 49.17.14.1; 50.17.77; F.V. 295; F.V. 338; Paul Sent. 1.1.4a; Paul. Sent. 2.14.1; Paul. Sent. 3.4b.2; Paul. Sent. 3.6.13; fr. De iure fisci 8; C.I. 5.17.3.3; C.I. 6.21.11; C.I. 8.34.4; C.I. 8.38.4;
[35] D. 2.2.1.2; 4.2.21.3; 4.3.7.8; 4.4.16.1; 4.8.7.1; 4.8.19 pr.; 4.8.32; 5.1.2 pr.; 5.1.74.2; 6.1.40; 7.5.11; 7.8.14.1; 9.4.27 pr.; 10.2.41; 12.1.9.4; 12.1.9.6; 12.3.4.1; 12.7.5 pr.; 13.7.40 pr.; 17.1.1.4; 17.1.6.3; 17.1.12.14; 17.1.22.3; 17.1.54 pr.; 17.2.29.2; 17.2.57; 17.2.70; 18.1.2.1; 18.1.7; 18.1.9; 18.1.9.2; 18.1.11.1; 18.1.15 pr.; 18.1.22; 18.1.34.1; 18.1.37; 18.1.41.1; 18.1.57.1; 18.4.19; 18.6.8 pr.; 19.2.25 pr.; 19.5.6; 23.3.12.pr.; 23.3.43 pr.; 23.3.69.4; 23.5.12.1; 24.1.32.24; 24.1.32.25; 24.1.32.27; 24.1.46; 24.1.52 pr.; 26.5.10; 26.8.1; 27.9.5.14; 28.1.19; 28.6.41.3; 28.3.5; 28.3.11; 28.5.2.1; 29.2.5.2; 30.75.1; 34.3.28.13; 35.1.3; 35.2.22.4; 37.5.10.1; 37.14.24; 39.5.26; 39.5.29.2; 39.6.35.5; 40.12.24.3; 41.2.10.2; 41.3.27; 41.4.2.16; 45.1.19; 45.1.25; 45.1.26; 46.1.70.4; 50.17.107; C.I. 4.38.2;
[36] D. 5.16.20; 11.1.19; 18.1.55; 22.1.29; 24.1.5.4; 24.2.11 pr.; 26.8.2; 28.1.22.4; 28.5.9.5; 28.5.9.6; 29.2.25.3; 29.7.2.1; 29.7.6.4; 30.54 pr.; 34.8.1; 34.8.2; 34.8.4 pr.; 40.6.1; 40.16.3; 46.4.13.6; 48.10.14.1; 50.17.3; 50.17.135; Gai.Inst. 2.195; C.I. 2.4.21; C.I. 5.16.20; C.I. 6.24.1; C.I. 7.11.3; C.I. 9.23.4.
[37] D. 2.14.28 pr.; 2.14.28.2; 2.15.8 pr.; 4.8.18; 4.8.21.11; 12.2.3.4; 12.2.3.5 pr.; 13.6.17 pr.; 20.6.7 pr.; 24.2.9; 26.7.47 pr.; 26.8.4; 28.7.28; 29.1.16; 32.41.8; 39.5.31.4; 50.17.170; 50.17.188 pr.;
C.I. 4.46.2.1; 8.38.2;
[38] D. 2.8.6; 20.1.25; 22.1.20; 28.2.3.2; 28.2.14 pr.; 28.5.51 pr.; 33.8.6.1; 43.5.1.3; 45.1.1.1; 45.1.1.5; 50.17.29; 50.17.77; C.I. 7.39.1.1; Paul. Sent. 3.4a.13.
[39] PERGAMI, Quod initio vitiosum est non potest tractu temporis convalescere cit., 37 ss.
[40] F.V. 1 : <Qui a muliere> sine tutoris auctoritate sciens res mancipi emit vel falso tutore autore quem scit non esse, non videtur bona fide emisse; itaque et veteres putant et Sabinus et Cassio scribunt. Labeo quidam putabat nec pro emptore eum possedere, sed pro possessore, Proculus et Celso pro emptore, quod est verius: nam et fructus suos facit, quia scilicet voluntate dominae percipit et mulier sine tutoris auctoritate possessionem alienare potest. Iulianus propter Rutilianam constitutionem eum, qui pretium muliebri dedisset, etiam usucapire et si ante usucapionem offerta mulier pecuniam, desinere eum usucapire.
[41] D. 18.1.27 : Qui a quolibet rem emit, quam putat ipsius esse, bona fide emit: at qui sine tutoris auctoritate a pupillo emit, vel falso tutore auctore, quem scit tutorem non esse non videtur bona fide emere, ut et Sabinus scripsit.
[42] D. 26.8.3 : Etiamsi non interrogatus tutor auctor fiat, valet auctoritas eius, cum se probare dicit quod agitur: hoc est enim auctorem fieri.
[43] Sulle posizioni possessorie indicate nel testo dei Frammenti Vaticani, vedi, B. ALBANESE, Le situazioni possessorie nel diritto privato romano, Palermo 1985, 91 ss.
[44] Parla di “esecuzione della prestazione qualificante di possessionem tradere e di ob evictionem se obligari”, il FERCIA, Il contratto annullabile e la sua “ombra”: invalidità, processo e autonomia privata tra storia e sistema, in “Actio in rem” e “Actio in personam”. In ricordo di M. Talamanca (cur. L. Garofalo), Padova 2011, 568.
[45] CRISTALDI, Il contenuto dell’obbligazione del venditore nel pensiero dei giuristi dell’età imperiale, Milano 2007, 13, per il quale “occorre tuttavia ricordare che l’assenza di un obbligo per il venditore romano di trasferire la ‘proprietà’ della cosa venduta appare tuttavia, di per sé, in contrasto con una serie di circostanze, le quali sembrerebbero invece orientare l’interprete proprio nella direzione opposta a quella tracciata dalla dottrina”.
[46] Sulla necessità del requisito della bona fides per la possessio ad usucapionem, B. ALBANESE, Le situazioni possessorie nel diritto privato romano cit., 97 ss. (in particolare 99 nt. 359, ove –a tale fine- sono espressamente citati F.V. 1 e D. 18.1.27).
[47] Ho trovato conforto nelle parole di Giuffrè, nella recensione critica al mio volume “Quod initio vitiosum est non potest tractu temporis convalescere”. Studi sull’invalidità e sulla sanatoria degli atti negoziali nel sistema privatistico romano, Torino 2012, in IVRA 62 (2014), 401, in particolare 409: “Certamente gli squarci dei due giuristi, nel contesto loro originario, risolvevano soltanto due (diversi) casi pratici (che tra l’altro non conosciamo nei loro particolari). E usavano terminologie allusive, se si vuole espressive, ma mai consolidatesi nell’uso tecnico. Anche questo è convincente”.
[48] Specialmente Garbarino, Aspetti e problemi dell’interpretazione del diritto dopo l’emanazione del Codice Teodosiano (Osservazioni su Nov. Theod. 9 e Nov. Marc. 4), in Nozione, formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, Napoli 1997, 259 ss.
[49] Per il significato di contrarietà alle leggi (il “contra voluntatem legis” della novella), è istruttivo un noto passo di Paolo, D. 1.3.29, tratto dal l. sing. ad legem Cinciam: “Contra legem facit, qui id facit quod lex prohibet, in fraudem vero, qui salvis verbis legis sententiam eius circumventet”. In argomento, oltre ai classici lavori di BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano 1949, 153 ss. e di ARCHI, La donazione, Milano 1960, 13 ss., il lavoro di FASCIONE, Fraus legi. Indagini sulla concezione della frode alla legge nella lotta politica e nella esperienza giuridica romana, Milano 1983, 192 ss.
[50] Sull’interpretatio ex verbis e sui collegamenti fra la novella di Teodosio e la riflessione ulpianea (D. 1.3.30), ancora FASCIONE, Fraus legi cit., 199 s., ove bibliografia.
[51] Il testo è riportato anche nel titolo De decurionibus et filiis eorum et qui decuriones habentur quibus modis a fortuna curiae liberentur, 10.30, del Codice Giustinianeo, c. 34: Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Floro pp. Si quis procurationem facultatum suarum curiali crediderit esse mandandam, totius dignitatis exceptione depulsa gravissimaa plectetur. Ille vero, qui immemor libertatis et generis infamissimam suscipiens vilitatem existimationem suam servili obsenducatione damnaverit, tradatur exilio. Dat. X k. Nov. Constantinopoli Antonio et Syagrio conss. Rispetto alla versione teodosiana, la confisca è sostituita con una gravissima poena per il proprietario dei beni e la deportazione con l’esilio (tradatur exilio). In argomento, si veda anche C. 4.65.30: Curialis neque procurator neque conductor alienarum rerum nec fideiussor aut mandator conductoris existat. Alioquin nullam obligationem neque locatori neque conductori ex huiusmodi contractu competere sancimus.
[52] Su tale profilo, in particolare, si sofferma l’Interpretatio: Nullus curialium in fiscali vel in privato agro conductor accedat nec pro aliquo conductore fideiussor existat. Quod si quis curialem in agro suo susceperit conductorem aut pro alio conductore fideiussorem acceperit curialem, actionem suam noverit in omnibus vacuari. Nam et ager ipse, qui a possessore curiali conductus est, fisci viribus vindicentur. Curialis vero pro supra scriptis condicionibus, etiamsi cautionem emiserit, non teneatur.
[53] C. 1.14.5: Impp. Theodosius et Valentinianus AA. Florentio pp. Non dubium est in legem committere eum, qui verba legis amplexus contra legis nititur voluntatem: nec poenas insertas legibus evitabit, qui se contra iuris sententiam scaeva praerogativa verborum fraudulenter excusat. Nullum enim pactum, nullam conventionem, nullum contractum inter eos videri volumus subsecutum, qui contrahunt lege contrahere prohibente. Quod ad omnes etiam legum interpretationes tam veteres quam novellas trahi generaliter imperamus, ut legis latori, quod fieri non vult, tantum prohibuisse sufficiat, cetera quasi expressa ex legis liceat voluntate colligere: hoc est ut ea quae lege fieri prohibentur, si fuerint facta, non solum inutilia, sed pro infectis etiam habeantur, licet legis lator fieri prohibuerit tantum nec specialiter dixerit inutile esse debere quod factum est. Sed et si quid fuerit subsecutum ex eo vel ob id, quod interdicente factum est lege, illud quoque cassum atque inutile esse praecipimus. Secundum praedictam itaque regulam, quan abique servari factum lege prohibente censuimus, certum est nec stipulationem eiusmodi tenere nec mandatum ullius esse momenti nec sacramentum admitti. D. vi id. April. Constantinopoli Theodosio A. xvii et Fest conss.
Per il FASCIONE, Fraus legi cit., 198 nt. 31: “La costituzione originariamente riguardava i praedia dei curiales e il divieto di ammettere i curiali all’amministrazione dei beni altrui. Il testo, evidentemente, è stato sezionatodai giustinianei per trarne il principio generale in ordine alla fraus legi”.
[54]Scrive al riguardo FASCIONE (Fraus legi cit., 201): “Nel § 1, essi hanno dettato i canoni di comportamento tanto dell’estensore quanto, e soprattutto, dell’interprete, in mod da chiarire che è sufficiente al legislatore avere espresso il desiderio di proibire un certo negozio che intende raggiungere determinati fini, perché questo debba ritenersi, se fatto, nullo, anche se ciò non è stato detto espressamente. In questo caso infatti è ammesso dedurre la nullità dell’atto, non esplicitamente comminata, dalla volontà del legislatore da cui si trae quella sanzione come se fosse stata detta espressamente”.
[55] Sull’equiparazione, che la Novella opererebbe, fra leges imperfectae, minus quam perfectae e perfectae, sono fondamentali le osservazioni del BAVIERA, Leges imperfectae, minus quam perfectae e perfectae, in Scritti Giuridici 1, Palermo 1909, 224 ss. In argomento, anche MASI, Il negozio utile o inutile in diritto romano, in RISG 93 (1959-1962), 63 ss.; DI PAOLA, Contributi ad una teoria della invalidità e dela inefficacia in diritto romano, Milano 1966, 94 ss.
[56] RAGGI, La restitutio in integrum nella cognitio extra ordinem. Contributo allo studio dei rapporti tra diritto pretorio e diritto imperiali in età classica, Milano 1965, 276: “In questo modo si esce dai limiti della tradizionale alternativa tra inesistenza e validità…ed è significativo che tale svolta concettuale e normativa trovi le proprie condizioni di possibilità sulla scia della diffusione del principio di nullità contra legem: un principio, cioè, ch’è proprio e tipico…della normativa imperiale”.
Patrocinante avanti alle Magistrature Superiori
Professore presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi