Medicina Legum. Materiali tardo romani e formae dell’ordinamento giuridico, Bari 2009, xv-239. di Federico Pergami.
“Verum quoniam principalis providentiae est omne malum inter initia opprimere et serpentem morbum legum medicina resecare
”[1]: con queste parole, tratte da una costituzione dell’anno 452, conservata negli atti conciliari calcedonensi, l’imperatore Marciano attribuiva all’ordinamento giuridico il compito di reprimere il male del diffuso dissenso religioso che agitava, in quello stesso torno di tempo, ampia parte dell’Impero e che avrebbe potuto compiutamente realizzarsi, in conformità alle istanze sinodali, recependo le regole ortodosse della Chiesa cattolica, cui le leggi avrebbero dovuto ispirarsi.
Proprio la locuzione “medicina legum”, contenuta nel provvedimento marcianeo, è utilizzata da Elio Dovere per dare titolo ad una raccolta di scritti che riuniscono otto saggi dedicati allo studio dell’ordinamento romano della tarda antichità (Medicina legum. Materiali tardo romani e formae dell’ordinamento giuridico, Bari 2009, xv-247).
Dico subito che appare troppo modesto l’esito cui ritiene di essere pervenuto l’Autore con la pubblicazione dell’opera qui segnalata, nella quale, riduttivamente, egli afferma di avere raccolto un”aggregato di documenti, un mosaico di problemi, qualche opzione interpretativa, taluni tentativi di soluzioni”[2]: si tratta, in realtà, del risultato di un impegno scientifico e didattico cui l’Autore attende, con assidua cura, da oltre venticinque anni e che rappresenta un contributo importante nella ricostruzione della realtà normativa dei secoli oggi non infrequentemente definiti protobizantini.
In tale settore di ricerca sono pure impegnati gli studiosi che, nella proficua sinergia con l’Accademia Romanistica Costantiniana , si occupano da tempo della pubblicazione della “Prima Serie” dei Quaderni per una Palinegenesi delle costituzioni tardo imperiali, dedicati all’individuazione di riferimenti normativi nelle opere letterarie dei secoli IV e V[3], nella consapevolezza che il fenomeno giuridico del tardo Impero, lungi dall’esaurirsi nella raccolta delle edictales generalesque constitutiones che il programma teodosiano mirava a realizzare, vada ricercato anche in una serie di manifestazioni della volontà imperiale estranee alle raccolte giuridiche ufficiali.
Elio Dovere spinge convincentemente oltre la sua ricerca, in una duplice e reciprocamente interdipendente prospettiva: per un verso, egli estende il campo d’indagine al di là del tradizionale confine posto dalla ricerca romanistica, d’ordinario identificato con la pubblicazione del corpus giustinianeo e, per altro verso, utilizza un “serbatoio di notizie”[4], rappresentato da una serie di fonti estranee allo strumentario ordinario del giusantichista, quali gli atti conciliari, le storie ecclesiastiche, gli epistolari dei Padri della Chiesa e, in genere, tutto quel materiale storiografico e documentario che si rivela particolarmente proficuo per le ricerche finalizzate ad una corretta comprensione del fenomeno giuridico tardoantico.
- Una prima efficace esemplificazione dell’utilità del metodo utilizzato dall’Autore è rappresentato dalla lettura dei sei libri in lingua greca dell’ Historia ecclesiastica[5], scritta sul finire del VI secolo da Evagrio Scholastichós di Epifania, al cui accurato racconto Dovere dedica due saggi della raccolta (“La “Storia” di Evagrio Scolastico per la storia del diritto, 3-17 e “Tracce di prassi costituzionale nella narratio storiografica di Evagrio, 49-87).
All’opera evagriana Dovere attribuisce il merito di rappresentare “quella continuità storiografica che è indispensabile per la proficuità della ricerca di chi indaga su un arco di anni non brevissimo[6]”, privilegiandone la qualità documentaria e l’attendibilità del relativo materiale, rispetto alle meno perspicue narrazioni di Giovanni di Antiochia e di Giovanni Malala[7], soprattutto sulla scorta della specifica qualificazione giuridica dell’autore, che, dopo essersi dedicato alla professione legale, aveva raggiunto il rango di questore e, successivamente, di ex praefectis[8].
In apertura del libro secondo, Evagrio pone particolare attenzione alla vicenda dell’elevazione alla porpora imperiale di Marciano, da cui è possibile trarre riferimenti giuspubblicistici di rilevante significato, nella prospettiva ricostruttiva in cui si muove l’Autore.
Anzitutto, la narratio consente di verificare l’emersione di una aperta ostilità manifestata da Valentiniano III nei confronti del collega, nel momento dell’accesso al potere del successore di Teodosio II , come è testimoniato dalle inscriptiones delle costituzioni imperiali del primo biennio di governo comune dell’Impero[9], formalmente intestate al solo titolare della pars Occidentis: tale evidenza documentale consente utili riflessioni, non esclusivamente circoscritte al dato meramente prosopografico, ma testimonia quella che suggestivamente Dovere definisce “difettosa legittimità costituzionale” nella vicenda della successione alla porpora imperiale[10], di fronte ad una prassi, consolidatasi nella seconda metà V secolo, attestante una pacifica condivisione delle modalità di trasmissione del potere fra i due Augusti.
Il racconto dello Scolastico offre, inoltre, la favorevole opportunità di verificare il ruolo esercitato dal Senato nelle vicende relative all’accesso marcianeo al potere, perfettamente coerente con la presenza delle componenti istituzionali nella formazione delle leges generales coeve[11]. Di ciò si ha agevole conferma, esaminando la Novella 5, emanata nell’anno 455[12]: la vicenda, come è noto, prende le mosse dalla controversia insorta a proposito del testamento della vedova Ipazia, che aveva disposto un lascito a favore del presbitero Anatolio, qui Anatolium presbyterum instituit heredem. Il caso era stato sottoposto all’esame del tribunale imperiale, da parte del giudice inferiore, perché fosse risolto il dubbio sul contrastante tenore di tre provvedimenti legislativi anteriori, di cui lo stesso Marciano specifica la paternità: in una prima costituzione, infatti,Valentiniano, Valente eGraziano avevano vietato agli ecclesiastici e a coloro qui continentium se volunt nuncupari, di ricevere lasciti testamentari o donazioni da vedove; in una seconda disposizione, attribuita a Valentiniano II, Teodosio e Arcadio, si disponeva il contrario, contra heac e in una terza, infine, dopo una grave lacuna nel testo, si sarebbe parlato congiuntamente di vedove e diaconesse[13].
Tralasciando i gravi e complessi problemi che si pongono all’interprete nell’esatta identificazione delle tre disposizioni normative[14] e quelli, meno dibattuti ma pure importanti, relativi al ruolo svolto nella vicenda dal tribunale imperiale[15], interessa mettere in luce come le evidenze della narratio di Evagrio trovino significativo riscontro nella precisazione che, all’atto della convalida della disposizione testamentaria, mea auctoritate firmavi, scrive Marciano, l’imperatore deliberasse alla presenza del Senato, a documentale conferma della centralità dell’assemblea nell’esercizio dell’attività giurisdizionale affidata al supremo tribunale[16]. Infatti, l’imperatore, dopo un’approfondita indagine sulla volontà dell’autore dei contrastanti interventi normativi, inspicientibus et aestimantibus nobis latori animum ed un attento esame della disposizione testamentaria, oltre che a seguito di una valutazione dei contrapposti interessi in gioco, ne aveva confermato la piena validità, al cospetto dell’assemblea senatoria, che aveva contribuito a risolvere il dubium interpretativo sottoposto all’imperatore da parte del giudice inferiore in ordine all’applicabilità della norma giuridica da utilizzare nel caso concreto: amplissimo senatu praesente tractaret pietas mea et dubium videretur[17].
La circostanza è particolarmente significativa per confermare, in coerenza con la lettura del racconto evagriano effettuata dall’Autore, il ruolo di centralità del Senato nell’attività legislativa del V secolo, considerando che la novella ha una portata più ampia rispetto alla vicenda particolare e all’esigenza contingente sottoposta all’esame dell’imperatore: essa, infatti, pur prendendone spunto, enuncia una regola di carattere generale, con la quale la cancelleria imperiale intendeva ribadire la validità delle disposizioni di ultima volontà e delle donazioni da parte di vedove, diaconesse e vergini dedicate a Dio a favore della Chiesa, di luoghi dedicati al culto di martiri, chierici, monaci e poveri[18].
- Analogamente accurata, quale strumento di ricostruzione della realtà storico-normativa degli anni teodosiani, è considerata da Dovere l’Historia ecclesiastica di Socrate scolastico di Costantinopoli[19], la cui narrazione assurge a privilegiato osservatorio soprattutto per la specifica competenza giuridica dell’autore, acquisita grazie allo svolgimento della professione forense nella capitale d’Oriente (“Stabilizzazione ordinamentale: spunti in Socrate Scholastikós: 19-47).
In generale, Dovere introduce l’ipotesi di una correlazione sistematica fra la narrazione ecclesiastica e la compilazione teodosiana, supportata da una serie di elementi argomentativi di sicuro fondamento.
Anzitutto, va detto che, nel programmare la riedizione della sua historia, Socrate affermava di esserne stato sollecitato da un personaggio di nome Teodosio[20], cui la narratio sarebbe stata anche dedicata, che Dovere propone di identificare con il funzionario incaricato della redazione del Codice Teodosiano, il vir spectabilis, comes e magister memoriae di C.Th. 1.1.5, ricordato anche nella successiva costituzione del 435 (C.Th. 1.1.6.2) e nella novella di Teodosio dell’anno 438 (Nov. Theod. 1.7: Theodosius vir spectabilis, comes sacri nostri consistorii).
Risultano, inoltre, particolarmente significativi, perché rilevanti non esclusivamente sul piano cronologico, i capisaldi della narratio di Socrate, il cui racconto, nelle esplicite intenzioni del suo autore, è avviato dall’anno 306[21], come pure avevano pure stabilito le costituzioni programmatiche del Teodosiano[22].
Del pari, la determinazione dello scolastico di fissare nell’anno 439 il momento conclusivo della narrazione, consente a Dovere di individuare nella pubblicazione del Teodosiano lo specifico riferimento alla definitiva stabilizzazione fra componenti religiose e civili, che Socrate considera realizzata alla metà del quinto secolo d.C., in singolare coincidenza con l’entrata in vigore della raccolta normativa, che aveva recepito analoghe esigenze unitarie, specialmente sotto il profilo normativo.
Per lo storico del diritto, il problema relativo all’unità o meno dell’Impero sotto il profilo legislativo, emblematicamente cristallizzato nell’espressione orosiana “commune imperium divisis tantum sedibus”[23] riveste un’importanza centrale nella ricostruzione della realtà normativa della tarda antichità, perché intimamente connesso a quello dei rapporti fra le due partes Imperii e del valore delle costituzioni imperiali contenute nel Codice Teodosiano, sotto il particolare profilo della relativa sfera di applicazione[24]. Come è noto, resta vivo, sul punto, un acceso dibattito fra gli studiosi dell’età tarda[25], divisi fra coloro che ritengono che ogni costituzione imperiale, indipendentemente dall’attribuzione e dalla formale paternità, avesse vigore in tutto l’Impero[26] e chi, al contrario, ritiene che -quantomeno a partire da una fase avanzata dello sviluppo normativo tardoantico- vigesse un vero e proprio dualismo legislativo[27]: era questa, del resto, l’ipotesi ricostruttiva avanzata da Gaudemet, il quale riteneva che, dopo la spartizione delle cariche imperiali conseguenti all’avvento al potere dei fratelli Valentiniano e Valente[28], si sarebbe realizzata in maniera definitiva una divisione dell’Impero e che, di conseguenza, sotto il profilo normativo, “le partage législatif divient habituel”[29].
La dottrina prevalente, come rileva Lucio De Giovanni nella sua recente monografia sulla realtà giuridica dell’età tardoantica, si è orientata a favore di tale ultima ipotesi ricostruttiva, sostenendo che “le costituzioni emanate in una pars Imperii, pur essendo formalmente intestate a tutti gli Augusti regnanti, non valevano meccanicamente anche nell’altra pars”[30].
Sulla delicata questione, la lettura che Dovere propone dell’opera dello Scolastico, offre importanti spunti di riflessione a favore di una coesione e di una compattezza dell’Impero, anche sotto il profilo legislativo, che armonizzano con i dati che si possono ricavare anche per gli anni precedenti la pubblicazione del Teodosiano: valga qui il perspicuo racconto di Ammiano Marcellino, a proposito della gestione del potere da parte degli imperatori Valentiniano e Valente, che Gaudemet, come s’è visto, considerava in certo senso emblematica e dalla quale è possibile ricavare elementi idonei a corroborare la posizione di supremazia del fratello maggiore sul giovane sovrano designato alla capitale orientale e, in ultima analisi, il consolidato accentramento nella mani del primo del potere legislativo[31]. Infatti, quando, nel corso del 365, scoppia la grave crisi determinata dall’usurpazione di Procopio, Valentiniano vorrebbe correre in aiuto del fratello, ma, come scrive Ammiano ardens ad redeundum eius impetus molliebatur consiliis, suadentium et orantium ne interneciva minantibus barbaris exponeret Gallia, neve hac causatione provincias desereret egentes adminiculis magnis[32]: sono, dunque, le ragioni della difesa dell’Occidente contro le minacce dei popoli germanici a prevalere sulle sollecitazioni della solidarietà dinastica, motivate efficacemente dallo storico: hostem suum fratrisque solius esse Procopium, Alamannos vero totius orbis Romani[33].
Una visione, dunque, in duplice senso unitaria: in primo luogo, poichè egli avverte nell’usurpazione di Procopio un evento che non interessa esclusivamente Valente e l’Oriente, ma lui stesso e tutto l’Impero[34], ma soprattutto, e per altro verso, in quanto l’imperatore d’Occidente considera la minaccia degli Alamanni un pericolo non esclusivamente circoscritto alle province sottoposte alla sua giurisdizione, ma per tutto l’Impero.
Altrettanto rilevanti sono le ulteriori indicazioni che lo storico ci fornisce a proposito della supremazia di Valentiniano, nel momento in cui l’imperatore, pressato dalla volontà dell’esercito, decide di associare alla porpora imperiale il fratello, con l’intento di averlo participem quidem legitimum potestatis, sed in modum apparitoris morigerum[35] oppure quando, a proposito della divisione dei comites, lo storico precisa che al seguito di Valentiniano, cuius arbitrio res gerebatur, rimasero Giovino e Dagalaifo[36] oppure, infine, nel momento in cui, all’atto della divisione del palatium, Ammiano sottolinea come essa avvenne ut potiori placuerat[37].
Non meno significativa è, sotto tale specifico profilo, la vicenda della gestione del potere, all’atto dell’elevazione di Graziano. Ammiano Marcellino mostra chiaramente come tale iniziativa vada attribuita a Valentiniano, nel quadro di una situazione confusa, determinatasi a causa di una malattia da cui era stato colpito, che aveva scatenato le ambizioni e gli intrighi dei capi militari e degli ambienti di corte: Graziano, del resto, viene presentato come compartecipe dell’intero potere imperiale, ut patris patruique collega[38].
Tali rilievi, ovviamente, non possono non avere avuto riflessi decisivi sull’attività normativa. Va segnalato subito il grave squilibrio fra la produzione legislativa della pars Occidentis rispetto a quella orientale: delle oltre quattrocento costituzioni emanate nel dodicennio di comune governo, poco più di una settantina, circa un quarto, per il luogo di emanazione che figura nella subscriptio e per la carica del destinatario, si possono, in prima approssimazione, ritenere di provenienza orientale. E’ evidente come non possa considerarsi verosimile ipotizzare che il governo dell’Oriente presentasse un così esiguo numero di problemi rispetto all’Occidente da richiedere un impegno normativo tanto ridotto, né che la burocrazia imperiale fosse tanto meno incline ad interventi normativi per risolverli.
Il divario, poi, si fa ancora più netto ove si consideri che la maggior parte dei provvedimenti attribuiti alla cancelleria di Valente ha un carattere strettamente limitato ad un ambito locale , il che, tra l’altro, spiega perchè siano stati emanati per una sola parte dell’Impero. E non si tratta, per un buon numero, neppure di norme di portata generale, anche se territorialmente ristretta, ma piuttosto di istruzioni e disposizioni che si possono qualificare di natura amministrativa e spesso di carattere contingente[39].
Tali considerazioni, coerenti con le conclusioni –di portata più generale- avanzate da Dovere, consentono di affermare che, a partire dalla seconda metà del IV secolo, l’unità dell’Impero sia rimasta sostanzialmente intatta e che il fulcro del governo, sotto il profilo legislativo, abbia poggiato sull’imperatore occidentale, mentre in Oriente il sovrano abbia svolto una funzione marginale e, tutto sommato, limitata, specialmente nei primi anni dell’assunzione del potere, quando era assorbito dall’intensa attività militare a difesa dei confini dell’Impero.
Circostanza tanto più significativa se correlata alle analoghe conclusioni che si possono trarre per un periodo più vicino alla pubblicazione del Teodosiano, segnatamente per gli anni del governo di Arcadio edOnorio , come anche il racconto di Orosio, già sopra richiamato[40], consente di confermare: “Arcadius Augustus, cuius nunc filius Theodosius Orientem regit, et Honorius frater eius, qui nunc respublica, innititur, quadragesimo secundo loco commune imperium divisis tantum sedibus tenere copererunt”[41].
- Il tema delle modalità di accesso al potere imperiale e dei profili costituzionali ad esso connessi, costituiscono l’oggetto di un altro importante contributo della raccolta, dedicato all’esame di una prassi del rifiuto del potere da parte dei designati alla porpora, già affermatasi nell’età del Principato (“Formae di rifiuto del principato e consensus in età tardo antica, pagg. 89-110) [42].
Anche in questo caso, le fonti documentarie non tradizionali offrono testimonianze preziose di un rifiuto esplicito del potere nell’epoca successiva a quella del Principato, nella quale l’assunzione del trono veniva considerata come manifestazione di ineludibile abnegazione personale, accettata esclusivamente per spirito di servizio e con finalità di natura etica, espressione della volontà divina, nel superiore interesse dello Stato: a tale compito si sottoponevano i sovrani designati, incuranti dei gravi e complessi compiti che il governo dell’Impero avrebbe comportato.
Valgano a questo proposito le perspicue parole dei Panegirici latini a proposito dell’elevazione alla porpora imperiale di Costantino[43] e di Teodosio I[44], il racconto ammianeo sull’elevazione di Giuliano[45], la narrazione di Simmaco quanto a Valentiniano I[46] e il libro delle cerimonie di Costantino Porfirogenito a proposito dell’investitura di Anastasio I[47]. A corroborare le analitiche osservazioni di Dovere, puntualmente critiche nel segnalare la natura non pedissequamente tralatizia rispetto all’età del Principato della prassi costituzionale di una volontà abdicativa dei sovrani all’atto della designazione alla porpora imperiale, militano, quanto all’elevazione di Valentiniano I, oltre alle evidenze messe in luce dall’Autore, alcuni frammenti della Storie di Ammiano Marcellino: quando, infatti, alla morte di Gioviano, l’esercito proclamò il comandante degli Scutari nuovo imperatore, egli, pur consapevole dell’importanza dell’incarico, immediatamente intese sottolineare come la designazione non fosse stata da lui né voluta né sperata (“Exulto, provinciarum fortissimi defensores, et prae me fero semperque laturus sum, nec speranti nec adpetenti moderamina orbis Romani mihi ut potissimo omnium vestras detulisse virtutes”: Amm. Marc., Rer. Gest., 26,2,6) e che l’accettazione dell’incarico, frutto dell’ispirazione della divinità celeste (“numinis adspiratione celesti electus est”: 26,1,5), costituiva una decisione vantaggiosa più per lo Stato che per il sovrano (“Et quia nullo renitente hoc e re publica videbatur”: 26.1.5), il quale aveva disinteressatamente deciso di servire la cosa pubblica per fronteggiare la magnitudo urgentium negotiorum che caratterizzava quella stagione di governo dell’Impero (26.4.3)[48].
- All’opera del vescovo Vittore di Tunnuna[49], cronologicamente ricompresa fra la morte di Teodosio e il regno di Giustiniano e ritenuta di speciale rilevanza nella ricostruzione del fenomeno giuridico nell’età posteriore alla pubblicazione della raccolta teodosiana, sono dedicati due successivi contributi dell’Autore (“Riferimenti giuridici nei Chronica di Vittore di Tunnuna”: pagg. 135-159 e “Percorsi della legittimità imperiale: il chirografo di Anastasio”: pagg.197-238).
Nel primo dei due articoli, Dovere mette in evidenza il frequente, seppure non sempre tecnicamente pertinente, richiamo che l’ecclesiastico effettua ad una terminologia rilevante sotto il profilo giuspubblicistico, fra i quali, merita, in particolare, di essere menzionato, in relazione alle vicende relative all’anno 529, il riferimento ad una lex generalis, d’ordinario identificata con l’editto dell’anno 527, conservato in C.Iust. 1.1.5. Con argomentazione serrata e convincente, l’Autore, “correggendo un fraintendimento cronologico”, ipotizza che la norma richiamata dal Tunnunese sia la più tarda costituzione 6 h.t., emanata nell’anno 533, come dimostrerebbero i diffusi riferimenti all’unum de Trinitae passum[50] effettuati dal cronografo: trinitas enim mansit trinitas et postquam unus ex trinitate deus verbum homo factus est[51].
Il secondo contributo arricchisce le conoscenza dello storico del diritto sulle vicende relative all’accesso del potere dell’imperatore Anastasio I.
Il racconto dell’anno 491 narra che, prima di essere elevato alla porpora imperiale, il silenziario designato avesse dovuto consegnare al vescovo di Costantinopoli Eufemio, un lettera di impegno formale, contenente la solenne promessa di mantenere atteggiamenti inequivocabilmente orientatia difesa dell’ortodossia dei canoni del Concilio di Calcedonia, il chirographum Chalcedonense: “Anastasium silentiarium…imperatorem designat…coactus est, Euphemio Constantinopolitano episcopo insistente, scritpo promettere nihil sinistrum contra apostolicam fidem et synodum Chalcedonense agere. Chirographum Euphemius episcopus susciti et in archivio ecclesiae reposit[52].
Quella che Dovere definisce una sorta di “condizione sospensiva potestativa”[53], necessaria al completamento del percorso del candidato alla successione di Zenone, non costituisce esclusivamente una preziosa notizia sotto il profilo normativo, pure estremamente rilevante ai fini della ricognizione dei profili giuspubblicistici dell’accesso al potere alla fine del V secolo d.C., ma consente di delineare il ruolo centrale svolto dal patriarca orientale anche in relazione alle vicende politiche che avevano interessato l’Impero romano in quello stesso torno di tempo: l’imposizione al principe, da parte del vescovo di Costantinopoli, di un impegno alla professione di fede conciliare, infatti, costituisce un documento, in certo senso, emblematico dei rapporti e della reciproca intima connessione fra le vicende dell’ imperium e quelle della catholica ecclesia, alla cui ricostruzione mira, sotto vari profili, il contributo dell’Autore.
- Proprio ad indagare il ruolo che i vescovi hanno gradualmente assunto nell’amministrazione e nella burocrazia civile è dedicato il contributo di Elio Dovere dal titolo “Auctoritas episcopale, ruolo ecclesiale e funzioni civili “ (pagg. 111-134).
Premesso il pacifico riconoscimento di privilegia ai membri della chiesa cattolica e l’assunzione di un rilevante ruolo assunto all’interno dell’organizzazione amministrativa da parte dei suoi rappresentanti, Dovere esemplifica, con accurata esegesi, le numerose evidenze documentali, idonee a testimoniare un formale riconoscimento di potestates laiche ai vescovi: ne sono prova la costituzione di Onorio dell’anno 409 sul ruolo svolto dai pastori della Chiesa in materia carceraria (C.Th. 9,3,7); quella dell’anno 418, con cui Teodosio II attribuiva ai vescovi il compito, originariamente attribuito ai prefetti, di scegliere i paralabani (C.Th. 16,2,43) o ancora gli interventi legislativi relativi alla residuale ma significativa funzione esercitata dagli ecclesiastici nel caso di redemptio ab hostibus in materia successoria (C.I. 1,3,28) e per l’ipotesi di esposti nei confronti di patroni o domini (C.Th. 5,9,2 dell’anno 412) [54].
A tale proposito, particolare attenzione è posta all’istituto dell’ Episcopalis audientia, dalla cui disciplina l’Autore trae il convincimento che, nel settore giurisdizionale, i vescovi non abbiano assunto una pubblica funzione giudicante, mantenendo invece una, seppure preminente, posizione nel quadro della gerarchia ecclesiastica, mai trasfusasi nel settore civile.
E’ noto che il tema della giurisdizione laica dei vescovi nella realtà processuale della tarda antichità, è oggetto di vivace discussione in dottrina, soprattutto a causa della non univoca individuazione della natura e dei limiti di tale competenza. Tale dibattito è riflesso nel contrasto fra il contenuto di due costituzioni, entrambe attribuite a Costantino, la prima delle quali, conservata nel Codice Teodosiano[55] ed emanata nel 318, configura, infatti, l’episcopalis audientia come un giudizio arbitrale fra due parti in contesa; l’altra, emanata nell’anno 333 e raccolta nella Collectio Sirmondiana[56], farebbe al contrario pensare ad un’attribuzione ai tribunali ecclesiastici di competenze giurisdizionali originarie ed esclusive[57].
Le fonti offrono lo spunto per ulteriori approfondimenti, seppure con esiti parzialmente dissonanti rispetto alle conclusioni cui giunge Dovere, dando evidenza di una reciproca influenza fra l’ordinamento ecclesiastico e quello civile, nonché, per quanto qui particolarmente interessa, di una rilevanza, anche nel settore laico, delle decisioni vescovili. Mi riferisco, anzitutto, al noto caso del vescovo Cronopio, che, come si ricava dal testo della costituzione imperiale che ne tramanda le vicende, C.Th. 11,36,20 dell’anno 369[58], era stato dapprima giudicato e successivamente deposto (ex antistite) da un sinodo di settanta vescovi (in septuaginta episcoporum iudicium): contro tale decisione, che era stata ratificata da un tribunale laico (in tuo iudicio), il vescovo aveva proposto appello, ottenendo la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza (et eam sententiam provocatione suspendit) [59] .
Senza potermi soffermare in questa sede sui dubbi che il tenore poco felice della costituzione suscita sia in relazione alle ragioni di inammissibilità dell’appello (a qua non oportuit provocare), sia con riguardo alla natura del provvedimento con cui si concludeva l’intervento del tribunale imperiale (argentariam multam quam huiusmodi facto sanctio generalis inponi)[60], mette conto qui di rilevare come il tribunale laico avesse sottoposto a riesame la decisione del sinodo che, quantomeno in relazione alla specifica materia religiosa, era considerato un organo del sistema giurisdizionale statale, la cui decisione poteva essere sottoposta ad una revisione, nel caso esaminato, addirittura in senso favorevole al condannato, da parte dell’imperatore. E che non dovesse trattarsi di un caso isolato nel quadro dell’attività giurisdizionale dell’età tarda, si ricava dal seguito del provvedimento: l’imperatore, infatti, rilevando che contro la decisione sfavorevole al vescovo recalcitrante non era ammessa alcuna impugnazione, a qua non oportuit provocare, disponeva l’irrogazione a suo carico di una multa argentaria, da devolvere agli indigenti (hoc autem non fisco nostro volumus accedere, sed his qui indigent fideliter erogari): una sanzione che non rappresentava una novità nel panorama del sistema sanzionatorio della cognitio extra ordinem e che veniva irrogata, come stabiliscono le precedenti disposizioni contenute nello stesso titolo, le cc. 15 e 16 h.t., per tutte le ipotesi di impugnazioni proposte ab exsecutione vel a praeiudicio, alle quali le doglianze di Cronopio venivano, a tutti gli effetti, equiparate[61].
Infine, non mi pare irrilevante osservare, per un verso, come la costituzione si chiuda con una frase generalizzante, finalizzata ad estenderne l’applicazione a tutte le cause ecclesiastiche (Quod in hac causa et in ceteris ecclesiasticis fiat) e, per altro verso, che i compilatori, nel riportare la costituzione nel titolo De episcopalis audientia et de diversis capitulis, quae ad ius curamque et reverentiam pontificalem pertinent, abbiano analogamente eliminato ogni riferimento al caso concreto sottoposto all’esame del tribunale imperiale, disponendo che il precetto normativo trovasse applicazione per tutte le decisioni sinodali (C.I. 1.4.2 = 7.65.4a) [62].
Ulteriori testimonianze relative all’influenza delle decisioni vescovili nel settore laico, si possono rinvenire in due documenti, reciprocamente connessi, cronologicamente collocabili nella seconda metà del quarto secolo, nel momento della massima virulenza della lotta che aveva visto contrapposti Damaso e Ursino.
Il primo documento, conservato fra le epistulae extra collectionem di Ambrogio, testimonia la richiesta, formulata nell’anno 378 dal sinodo romano, presieduto da Damaso, affinchè l’imperatore Graziano, sul presupposto della frequente inosservanza delle decisioni ecclesiastiche da parte dei vescovi, riconoscesse la loro esecutività anche nell’ordinamento civile[63].
Analogo contenuto ha la coeva costituzione di Graziano e Valentiniano II, raccolta esclusivamente nella Collectio Avellana, indirizzata al vicario di Roma Aquilino, che accoglie integralmente le reiterate istanze dei vescovi, finalizzate ad ottenere un intervento imperiale che rivestisse di potere coercitivo una pronuncia che, nella sostanza, ne era priva: in particolare, il provvedimento impone la convocazione a Roma di fronte ai prefetti del pretorio della Gallia e dell’Italia, di coloro che, condannati da un sentenza emanata dallo stesso Damaso, volessero illecitamente mantenersi nella chiesa o per quanti, convocati dal tribunale ecclesiastico, non si fossero costituiti in giudizio, rimanendo contumaci: quicumque iudicio Damasi…si iniuste voluerit ecclesiam retentare vel evocatus ad sacerdotale iudicium per contumaciam non adesse…ad urbem Romam…perveniat[64].
L’episodio assume ai nostri fini speciale rilevanza, poiché testimonia la renitenza degli ecclesiastici a sottomettersi volontariamente alle decisioni sinodali e conferma che i casi dei vescovi recalcitranti alle decisioni ecclesiastiche erano frequentemente sottoposti all’esame del tribunale imperiale, chiamato ad emanare provvedimenti di esclusione dalla comunità ecclesiale[65].
- Il saggio che l’Autore intitola “Il Codex Theodosianus come identità e appartenenza (pagg. 161-195) è, in realtà, una vera e propria monografia: qui Dovere condensa le meditate riflessioni sul ruolo di centralità svolto dall’”evento Teodosiano” nella prospettiva di una visione globale dell’Impero, la cui importanza era avvertita in entrambe le sue partes e che la raccolta normativa, mediante un rigoroso progetto classificatorio del materiale legislativo, mirava a compiere. Una costruzione davvero unitaria, peraltro -avverte opportunamente l’Autore- non si sarebbe potuta raggiungere se non si fossero tenute nel debito conto le istanze religiose provenienti dalle comunità ecclesiali, che tanta parte avevano avuto nella realizzazione dell’opzione unitaria: ius principale e catholica lex, dunque, quali elementi fondanti la nuova realtà non soltanto normativa, ma anche religiosa, politica, costituzionale e sociale che, alle soglie del V secolo, caratterizzava la vita dei cittadini romani.
“Il corpus Theodosiani”, afferma conclusivamente Dovere, “nel cui interno si attribuiva un’adeguata cura sistematica alla catholica ecclesia, grazie all’estrema novità del suo valore ufficiale…si atteggiava a solida malta per le varie componenti del mondo-greco romano. Esso, segno rassicurante di identità forte e offerta di appartenenza certa, si proponeva come rappresentazione di un diritto unitario vigente all’interno di un impero che, a maggior ragione, si tentava di definire organico nella contingenza più alta della contemporanea politica normativa”[66].
- Il giudizio lusinghiero sul lavoro di Elio Dovere non è dettato da intenti elogiativi di maniera, che pure sarebbero giustificati da una lunga consuetudine di studio e di comuni interessi scientifici, ma dalla precisa consapevolezza di essere di fronte ad un’opera importante nell’avanzamento qualitativo dei nostri studi, esemplare sotto il profilo del metodo e del rigore scientifico.
Come è emerso dalla breve “lettura”, il volume, documentatissimo, come Elio Dovere ci ha da tempo abituati, è il frutto fecondo della fedeltà ad un settore di studi che l’Autore allontana con nettezza dalla considerazione di rappresentare esclusivamente “questioni disciplinarmente di frontiera”[67] e si traduce in uno strumento indispensabile per una più corretta e completa conoscenza del fenomeno giuridico a Roma: per raggiungere tale obiettivo, Dovere muove dalla prospettiva privilegiata della realtà normativa della tarda antichità, particolarmente adatta per valorizzare “l’importanza della Storia: quella degli uomini e dunque quella dei sistemi del loro vivere sociale”[68].
Milano
[1] ACO 2,3,2,91 (350), 20.
[2] Dovere, Medicina legum, ix.
[3] Sotto la direzione di Manlio Sargenti sono stati pubblicati i seguenti volumi: Silli, Testi costantiniani nelle fonti letterarie, Milano 1983; Sargenti-Siola, Normativa imperiale e diritto romano negli scritti di S. Ambrogio. Epistulae, De officiis, Orationes funebres, Milano 1991; Navarra, Riferimenti normativi e prospettive giuspubblicistiche nelle Res Gestae di Ammiano Marcellino, Milano 1994, Pietrini, Religio e ius Romanorum nell’epistolario di Leone Magno, Milano 2002.
[4] Così, De Bonfils nella Prefazione del volume (viii).
[5] Ed. Bidez-Parmentier, The ecclesiastical History of Evagrius with the Scolia, London 1898 (rist. an. Amsterdam 1964).
[6] Dovere, Medicina legum, 5.
[7] In questo senso, Jones, The Later Roman Empire, 284-602, I, Oxford 1964 (trad. It. E. Petretti, Il Tardo Impero Romano, 284-602, I, Milano 1973, 275): “Per il rimanente siamo ridotti alla malfida narrazione di Giovanni Malala, di Giovanni di Antiochia”.
[8] Evagr., Hist. Eccl., 6,24.
[9] Evagr., Hist. Eccl., 2,1.
[10] Amarelli, Trasmissione, Rifiuto, Usurpazione, Napoli 19932, 15 ss.
[11] Cfr. C.Iust., 1.14.8: “Humanum ese probamus, si quid de cetero in publica vel in privata causa emerserit necessarium, quod formam generalem et antiquis legibus non insertam exposcat, ida b omnibus antea tam proceribus nostri palatii quam gloriosissimo coetu vestro, patres conscripti, tractari et, si universi tam iudicibus quam vobis placuerit, tunc allegata dictari et sic ea denuo collectis omnibus recenseri et, cum omnes consenserit, tunc demum in sacro nostri numinis consisto rio recitari, ut universo rum consensus nostrae serenitatis auctoritate firmetur. Scitote igitur, patres conscritpti, non aliter in posterum legem a nostra clementia promulgandam, nisi supra dicta forma fuerit observata. Bene enim cognoscimus, quod cum vestro consilio fuerit ordinatum, id ad beatitudinem nostri imperii et ad nostram gloriam redundare”.
[12] La novella marcianea è opportunamente citata dall’autore, Dovere, Medicina legum, 72 nt. 72.
[13] Il Mommsen (Codex Theodosianus, 2, Leges Novellae ad Theodosianum pertinentes, Berolini 1905 (rist. 1990), ad h.l., individua i provvedimenti richiamati dalla Novella con le costituzioni 20, 27 e 28 C.Th. 16.2
[14] In argomento, De Giovanni, Il libro XVI del Codice Teodosiano. Alle origini della codificazione in tema di rapporti fra Stato e Chiesa, Napoli 1980, 64 nt. 38; Barone Adesi, Il ruolo sociale dei patrimoni ecclesiastici nel Codice Teodosiano, in BIDR 22 (1980), 236; Id., Dal dibattito cristiano sulla destinazione dei beni economici alla configurazione in termini di persona delle venerabiles domus destinate piis causis, in AAC 9 (1993), 251 ss.; Martini, Su alcuni aspetti della “testamenti factio” passiva dei clerici, in AAC 9 cit., 326 ss.
[15] Voci, Il diritto ereditario romano nel Tardo impero, 1, Le costituzioni del IV secolo, in IVRA 29 (1978), 21 (ora in Studi di diritto romano, Padova 1985, 201); Vincenti, La partecipazione del Senato all’amministrazione della giustizia nei secoli III-VI d.C. (Oriente e Occidente), Padova 1992, 109 ss.; Arcaria, Note sulla pretesa scomparsa della giurisdizione d’appello senatoria in età postclassica, in AAC 11 (1996), 108.
[16] Per qualche evidenza del problema, Federico Pergami, La competenza giurisdizionale dell’imperatore nel processo di età tardo antica, in Studi Senesi, CXX, 2008, 427 ss.
[17] E’ controverso in dottrina se l’episodio configuri un’ipotesi di consultatio ante sententiam: in argomento rinvio a Kaser-Hackl, Das römische Zivilprozessrecht, München 19962, 361 ss. e 425 ss.
[18] “Donationibus etiam vel qualibet liberali tate tam viduarum quam diaconissarum sive virginum, quae deo dicatae sunt, vel sanctimonialium quaecumque in ecclesiam vel martyrium vel clericum vel monachum vel pauperes conlata fuerint, pari robore firma esse praecipio, Palladi p(arens) k(arissime) at(que) a(mantissime). Inlustris igitur et magnifica auctoritas tua ea, quae generali legis huius sanctione decrevi, edictis ex more propositis ad omnium notizia faciat pervenire.
[19] All’epoca dell’originaria stesura del contributo (presentato all’XI Convegno Internazionale dell’Accademia Romanistica Costantiniana del 1993, con il titolo Stabilizzazione giuridica e acquisizione culturale del Teodosiano: spunti in Socrate skolastikós, pubblicato in AAC 11 [1996], 593 ss.), l’Autore non aveva potuto avvalersi dell’edizione critica di Hansen (coll. Širinjan), Sokrates Kirchengeschichte, Berlin 1995.
[20] Socr., Hist. Eccl., 2.1 pr.
[21] Socr., Hist. Eccl., 1,2.
[22] C.Th. 1.1.5: “Cunctas colligi constitutiones decernimus, quas Constantinus inclitus et post eum divi principes nosque tulimus”; C.Th. 1.1.6: “Omnes edictalesque constitutiones…quas divus Constantinus posterioresque principes ac nos tulimum”.
[23] Oros., Hist. adv. Pag., 7,36,1.
[24] Recenti considerazioni sul punto in De Bonfils, Commune imperium divisis tantum sedibus: i rapporti legislativi fra le partes Imperii alla fine del IV secolo, in AAC 13 (2001), 107 ss.
[25] Già oltre mezzo secolo fa, Gaudemet scriveva che “le débat est ouvert depuis longtemps” (Le partage législatif au Bas-Empire d’après un ouvrage récent, in SDHI [1955], 319), mentre, recentemente, anche De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, 346 ss. dà conto del “dibattito suscitato da questa problematica” (ibid., nt. 95). Ampia ed aggiornata rassegna bibliografica in Lepore, Un problema ancora aperto: i rapporti legislativi tra Oriente ed Occidente nel tardo Impero romano, in SDHI 66 (2000), 343 ss.
[26] Al riguardo, Pietrini, Sui rapporti legislativi fra Oriente e Occidente, in SDHI 64 (1998), 519 ss., la quale, per sostenere la tesi dell’unità, parla di “principi costituzionali” (ibid. 520), sulla scia dell’Honorè, The making of the Theodosian Code, in ZSS 103 (1986), 177 e, più di recente, Dovere, Corpus Theodosiani: segno di identità e offerta di appartenenza, in Vetera Christianorum, 44 (2007), 80 , ma già in Ius principale e catholica lex, Napoli 19992, 121 ss.
[27] A favore di tale ipotesi, da ultimo, vedi De Bonfils, Commune imperium divisis tantum sedibus cit., 107 ss., ove bibliografia, nonché, dello stesso autore, CTh. 12.1.157-158 e il prefetto Flavio Mallio Teodoro. Appunti per un corso di lezioni, Bari 1994, 29 ss.
[28] Ammanio Marcellino scrive significativamente: “Et post heac cum ambo fratres Sirmium introissent, diviso palatio, ut potiori placuerat, Valentinianus Mediolanum, Constantinopolim Valens discessit” (Rer. Gest., 26,5,4).
[29] Gaudemet, Partage législatif cit., 322.
[30] Così, De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico cit., 347.
[31] Sull’argomento, per tutti, De Bonfils, Ammiano Marcellino e l’imperatore, Bari 1986, 13 ss.
[32] Amm. Marc., Rer. Gest., 26.5.12.
[33] Amm. Marc., Rer. Gest., 26.5.13.
[34] Vanno inquadrate in questo contesto le misure imperiali nel settore militare con la nomina di Equitio a magister militum e l’incarico di provvedere alla difesa delle Pannonie contro eventuali iniziative dell’usurpatore: Amm. Marc., Rer. Gest., 26.5.11
[35] Amm. Marc., Rer. Gest., 26.4.3.
[36] Amm. Marc., Rer. Gest., 26.5.2.
[37] Amm. Marc., Rer. Gest., 26.5.4.
[38] Amm. Marc., Rer. Gest., 27.6.12.
[39] Una breve esemplificazione in Federico Pergami, Rilievi sul valore normativo delle costituzioni imperiali nel tardo Impero romano: Oriente e Occidente nella legislazione di Valentiniano I e Valente, in Il diritto romano canonico quale diritto proprio delle comunità cristiane dell’Oriente Mediterraneo (IX Colloquio Internazionale Romanistica Canonistico), Roma 1994, 137 ss. Vedi, anche, La legislazione di Valentiniano I e Valente, Milano 1993, xxiv ss.
[40] Cfr., supra, nt. 23.
[41] Su tale periodo storico, specialmente, De Bonfils, Commune imperium divisis tantum sedi bus: i rapporti legislativi fra le partes Imperii alla fine del IV secolo, cit., 107 ss. Per qualche riflessione, Federico Pergami, Considerazioni sui rapporti legislativi fra Oriente e Occidente: unità normativa o partage législatif ? in corso di stampa negli Studi in onore di Antonino Metro.
[42] In argomento, fondamentale il richiamo ad Amarelli, Trasmissione, rifiuto, usurpazione, cit., 95 ss.
[43] Pan. Lat. 7,8,2.
[44] Pan. Lat. 12,11,1.
[45] Amm. Marc., Rer. Gest., 20.4.15.
[46] Symm., Or., 1,7, 15 ss.
[47] Const. Porphyr., De caerim., 1,92.
[48] Le vicende della presentazione all’esercito e della proclamazione dell’imperatore, sono oggetto di approfondita analisi in De Bonfils, Ammiano Marcellino e l’imperatore, 23 ss.
[49] L’edizione è quella di Placanica, Vittore di Tunnuna, Chronica. Chiesa e Impero nell’età di Giustiniano, Firenze 1997.
[50] Vict. Tunn., Chr. a. 529.
[51] C.Iust., 1.1.6.6, ma vedi anche il successivo paragrafo 7: “Recusantes et negantes dominum nostrum Iesum Christum filium dei et deum nostrum incarnatum et cruci adfixum unum esse sanctae et consubstantialis trinitatis”.
[52] Vict. Tunn., Chr. a. 491.
[53] Dovere, Medicina legum cit., 221.
[54] Vedi, però, la differente versione giustinianea del provvedimento, raccolta in C.I. 8,51,2.
[55] C.Th. 1,27,1.
[56] Coll. Sirm. 1.
[57] L’istituto è oggi esaminato da De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico cit., 264 ss., ove ampia bibliografia.
[58] C.Th. 11,36,20: Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus. Quoniam Chronopius ex antistite idem fuit in tuo, qui fuerat in septuaginta episcopo rum ante, iudicio e team sententiam provocatione sospendi, a qua non oportuit provocare, argentariam multam, quan huiusmodi facto sanctio generalis intoni, cogatur expendere. Hoc autem non fisco nostro volumus accedere, sed his qui indigent fideliter erogari. Quod in hac causa et in ceteris ecclesiaticis fiat.
[59] Si è specialmente occupata del provvedimento, Bianchini, Caso concreto e “lex generalis”. Per uno studio della tecnica e della politica normativa da Costantino a Teodosio II, Milano 1979, 58 ss. Vedi, anche, della stessa autrice, Caso concreto e norma generale fra IV e V secolo: verifica di un’ipotesi, in Atti del II seminario romanistico gardesano, Milano 1980, 517 ss. (ora in Temi e tecniche della legislazione tardo imperiale, Torino 2008, 27 ss.).
[60] Ancora Bianchini, Caso concreto e “lex generalis” cit., 67 ss.
[61] Richiamo, sul punto, la bibliografia riportata nel mio L’appello nella legislazione del tardoIimpero, Milano 2000.
[62] Sul punto, per qualche interessante spunto in questa direzione, resta attuale Solazzi, Ancora glossemi e interpolazioni nel Codice Teodosiano, in SDHI 13-14 (1947-1948), 207 e 215 (ora in Scritti di diritto romano, 5, Napoli 1963, 51 e 59).
[63] Ambr., Ep. Extr. Collect. 7 § 9 (Relatio Romani concilii ad Gratianum et Valentinianum Imperatores directa, ed. Zelzer, Sancti Ambrosii Opera. Epistula ed Acta, in CSEL 82.3, Wien 1982, 191 ss.): Quia igitur vestrae iudicio tranqullitatis probata est innocentia memorati fratris nostri damasi, integritas praedicta est, Isaac quoque ipse ubi ea quae detulit probare non potuit, meritorum suorum sortem tulit, quaesumus clementiam vestram, ne rursus in plurimis causis videamus onerosi, ut iubere pietas vestra dignetur, quicumque vel eius vel nostro iudicio qui catholici sumus fuerit condemnatus atque iniuste voluerit ecclesiam retinere vel vocetus a sacerdotali iudicio per contumaciam non adesse…Romae necessario vel ad eos quos Romanus episcopus iudices dederit contendere sine dilatione iubeatur.
[64] Coll. Avell., 35,13,11.
[65] Sullo specifico episodio, Girardet, Der Staat im Dienst der kirchlichen Gerichtsbarkeit, in AAC 11 (1996), 265 ss. Dello stesso autore, Kaisergericht und Bishofsgerichits: Studien zu den Anfängen des Donatistenstreites (313-315) und zum Prozess del Athanasius von Alexandrie (328-346), Bonn 1975, pag. 18 nt. 90 e pag. 89 ss.
[66] Dovere, Medicina legum cit., 192 s.
[67] Dovere, Medicina legum cit., x.
[68] Così, Dovere, Medicina legum cit., xi, nel dedicare il libro al figlio Giorgio.