Federico Pergami – Sistema giudiziario e funzionari imperiali nel processo romano della tarda antichità
- Nel panorama della letteratura specialistica, mancava uno studio monografico che, attraverso una ricognizione dell’utilizzo dell’espressione iudex nelle fonti giuridiche e letterarie di età tardoantica, delineasse il ruolo dei funzionari imperiali investiti di poteri giurisdizionali nel sistema della cognitio extra ordinem: anche la migliore dottrina, infatti, nelle indagini sul processo di età tarda, ha costantemente privilegiato la ricostruzione dei singoli istituti e lo studio della loro disciplina positiva, omettendo di indagare, se non episodicamente[1], la funzione dell’organo giudicante, che –nella tarda antichità- a motivo delle intrinseche caratteristiche strutturali del processo cognitorio, aveva assunto una posizione di centralità nel corretto svolgimento della vicenda processuale.
Il progressivo consolidarsi della struttura burocratica dell’Impero, infatti, dove pure si profila un sempre più spiccato accentrarsi del potere giurisdizionale nella persona dell’imperatore, già teorizzato in epoca severiana in base al principio di un trasferimento del potere dal popolo al principe di omne suum imperium et potestatem (D. 1.4.1 pr.) e dove l’imperatore esercita le funzioni di supremo titolare del potere giurisdizionale, il ruolo dei funzionari imperiali che esercitavano le funzioni giudicanti in luogo del sovrano assume una diversa e, per certi aspetti, più pregnante rilevanza: se, infatti, nel Principato, e anche prima, già nella Repubblica, la configurazione e l’attribuzione di una competenza giurisdizionale agli organi sottoposti al potere imperiale poteva individuarsi nell’istituto della iurisdictio mandata, con cui i magistrati o promagistrati giusdicenti trasferivano ai loro legati una porzione della potestas iudicandi[2], nella realtà processuale tarda, il carattere episodico del conferimento di una iurisdictio mandata e il legame quasi personale fra mandante e mandatario venivano a scolorirsi, per assumere la configurazione di un legame funzionale tra il sovrano, titolare del potere, e il funzionario a cui venivano attribuite funzioni giurisdizionali, quale connotato permanente della carica, nella prospettiva della moderna concezione pubblicistica della rappresentanza organica [3].
Bene ha fatto, dunque, il giovane Stefano Barbati, forte di una consolidata esperienza nel settore, attestata da precedenti contributi anticipatori[4], ad affrontare un tema così rilevante per una corretta conoscenza del fenomeno processuale della tarda antichità (S. Barbati, Studi sui “iudices” nel diritto romano tardo antico, Facoltà di Giurisprudenza dell’Università cattolica, sede di Piacenza, Milano 2012, 1-705).
- Il volume, particolarmente ponderoso, dopo una premessa introduttiva, finalizzata alla individuazione delle finalità dell’opera (“Introduzione e finalità dell’indagine”: pp. 1-64), si compone di due parti: la prima, incentrata sull’esame delle fonti giuridiche e formata da quattro capitoli (cap. 1: “I iudices come complesso dei funzionari giusdicenti”: pp. 67-130; cap. 2: “I iudices quali governatori provinciali”: pp. 131-222; cap. 3: “I iudices quali funzionari diversi dai governatori provinciali”: pp. 223-245; cap. 4: “Problemi esegetici su fonti di interpretazione incerta”: pp. 247-367); la seconda parte, invece, è dedicata alle altre fonti, letterarie (cap. 1: “I iudices nelle fonti letterarie: pp. 371-513) ed ecclesiastiche (cap. 2: “Le fonti ecclesiastiche”: pp. 515-607). Chiude la monografia un lungo capitolo di osservazioni conclusive (“Conclusioni: pp. 609-672), nonché gli indici delle fonti (pp. 673-696) e degli autori (pp. 697-705).
- La padronanza dei testi, non solo giuridici, da parte di Barbati emerge in limine, già nella parte introduttiva del lavoro, dove l’autore preliminarmente affronta il problema etimologico del sostantivo iudex, che, nelle testimonianze extragiuridiche, ricorre in un duplice e, per certi versi, intrinsecamente contraddittorio, significato: per un verso, quale espressione connaturata al concetto di iustitia, come si ricava da un passo di Ammiano Marcellino (Amm. Marc., Rer. Gest. 30.4.9: “iudicum fidem, quorum nomen ex iustitia natum est”)[5], da un editto della prima metà del sesto secolo attribuito al prefetto del pretorio Cassiodoro (Cass., Variae 11.40.1: “nomen ipsum iudicis dicatum videatur esse iustitiae”[6], nonché da un più tardo frammento di Isidoro di Siviglia (Isid., Etym., 9.4.14 = 18.15.6), nel quale si legge, infatti, che “non est autem iudex, si non est in eo iustitia [7], ma che pure, per altro verso e contemporaneamente, attribuisce al iudex un secondo e diverso significato, che richiama invece la funzione di ius dicere (“iudex dictus quasi ius dicens populo”: Isid., Etym., 9.4.14=18.15.6) o di iudicare (“iure autem disceptare est iuste iudicare”: ibid.). In esito a tale rilievo ricostruttivo, che consente di attribuire al iudex del processo cognitorio poteri “sia giusdicenti, sia giudicanti” e che -a dire dell’autore-, “riflette dunque a pieno i tratti fondanti del magistrato-funzionario della cognitio, con cui essa identifica il iudex, coerentemente alla situazione giuridica del tempo in cui è elaborata” [8], Barbati, quanto alle fonti giuridiche, previo attento e prudente esame della dottrina, anche risalente[9], delinea il ruolo svolto dai funzionari imperiali, cui risultano attribuiti, nel quadro di una articolata struttura burocratica, minuziosamente descritta, ampie funzioni “giusdicenti” [10], cioè administrationis iure nella nota definizione datane da Zenone in un provvedimento del 479 (C. 1.49.1).
- Nel capitolo d’esordio della prima parte del lavoro, Barbati individua ed elenca diligentemente i testi delle costituzioni di natura processuale che qualificano come iudices il complesso dei funzionari muniti di competenza giurisdizionale, offrendo un quadro ricostruttivo ampio ed esauriente: peraltro, nello svolgimento di tale attività, l’autore si avvede immediatamente della circostanza che tale rassegna, lungi dal potersi esaurire nel perimetro dell’indagine che egli si era prefisso, impone, proprio a motivo del riconosciuto valore generale dei provvedimenti esaminati, incursioni in settori che coinvolgono, in generale, i principi informatori dell’intero sistema processuale tardoantico: costituisce esempio illuminante di tale riflessione la costituzione di esordio, individuata da Barbati in un provvedimento dell’imperatore Costantino.
Si tratta della costituzione di apertura del titolo De iudiciis, CTh. 2.18.1 (=C.3.1.9), un’ epistula indirizzata nell’anno 321 al praefectus urbi Massimo:
Imp. Constantinus A. ad Maximum. Iudicantem oportet cuncta rimari et ordinem rerum plena inquisitione discutere, interrogandi ac proponendi adiciendique patientia praebita ab eo: ut, ubi actio partium limitata sit, contentiones non occorsu iudicis, de satietate altercantium metas compresserint, saepius requiratur et crebra interrogatione iudicis frequentetur, ne quid novi resideat, quod adnecti allegationibus in iudiciaria contentione conveniat, cum ad alterutrum hoc proficiat, sive definienda sit causa per iudicem sive ad nostram scientiam referenda. Nec ad nos mittatur aliquid, quod plena instructione indigeat.
Il provvedimento, seppure formalmente indirizzato al solo prefetto urbano, doveva originariamente essere rivolto anche ad altri funzionari dotati di poteri giurisdizionali, come si ricava dall’intonazione generale e dall’uso del plurale (ad nos) e offre a Barbati l’occasione di prendere posizione su un profilo di rilevante importanza nel quadro del sistema processuale della tarda antichità, cioè l’applicazione del principio dispositivo con riguardo alla proposizione di nuovi mezzi istruttori nel corso del giudizio, con particolare riferimento all’esistenza di un principio che autorizzasse il giudice ad in intervento suppletivo, avente funzioni vicarie rispetto ad eventuali insufficienze o debolezze dell’impianto probatorio predisposto dalle parti.
Sull’autorità di due specialisti del settore, quali Fausto Goria [11]e Salvatore Puliatti[12], Brambati, ritiene che il testo in esame imponga “all’organo giudicante di chiedere alle parti tutti i chiarimenti necessari e di suggerire loro eventuali nuove prove di cui proporre l’acquisizione, senza tuttavia abilitarlo né ad assumere d’ufficio prove né a sostituirsi ai contendenti nell’attività volta a definire sia il thema probandum sia il thema decidendum”: una valutazione negativa in ordine ad un eventuale potere di integrazione istruttoria di natura officiosa, dunque, che porta l’autore a concludere con nettezza nel senso che “non è chi non veda come una simile configurazione procedurale sia assolutamente consentanea al principio dispositivo, che si può dire superato unicamente quando il giudice può disporre mezzi istruttori d’ufficio e la sua decisione non è limitata dall’oggetto delle domande e delle eccezioni proposte dalle parti” [13].
Il tema dell’esistenza o meno di un potere suppletivo del giudice nella fase dell’istruzione probatoria del processo tardoantico è intimamente connesso con quello relativo alla possibilità per le parti di integrare e modificare l’impianto delle prove in un momento successivo alla proposizione della domanda o addirittura in un grado successivo del giudizio: Barbati, al riguardo, rafforza il pensiero della dottrina più autorevole, che intravede, per l’età costantiniana, una regime rigorosamente restrittivo in materia, che troverebbe la sua origine nell’ editto di Diocleziano dell’anno 294 (C. 7.62.6) [14].
A ben vedere, però, l’esame dell’importante provvedimento dioclezianeo in tema di processo[15], lascia margini per una meno rigida interpretazione della costituzione di Costantino in esame: l’editto, infatti, nei due paragrafi di apertura, consente di intravedere un’articolazione complessa dello svolgimento del giudizio, con deduzioni e produzioni istruttorie anche successive al momento di proposizione della domanda. In particolare, il primo paragrafo, sul presupposto che tale principio sia utile per la piena attuazione della iustitia, che costituisce, afferma l’imperatore, il votum del suo governo, prevede che, anche in gradi successivi al primo, le parti possano integrare le allegazioni che fossero state inizialmente omesse, in agendo negotio minus se adlegasse litigator:
C.7.62.6.1: Si quid autem in agendo negotio minus se adlegasse litigator crediderit, quod in iudicio acto fuerit omissum, apud eum qui de appellatione cognoscit persequatur, cum votum gerentibus nobis aliud nihil in iudiciis quam iustitiam locum habere debere necessaria res forte transmissa non excludendo videatur.
A rafforzare tale indirizzo, Diocleziano, nel secondo paragrafo, autorizza espressamente le parti a chiedere l’ammissione di nuovi testimoni, qualora siano utili all’accertamento della verità, veritatem possit ostendere: Si quis autem post interpositam appellationem necessarias sibi putaverit esse poscendos personas, quo apud iudicem qui super appellatione cognoscet veritatem possit ostendere, quam existimabit occultam, hocque iudex fieri prospexerit, sumptus isdem ad faciendi itineris expeditionem praebere debebit, cum id iustitia ipsa persuadeat ab eo haec recognosci, qui evocandi personas sua interesse crediderit.
Indipendentemente dalla natura innovativa o meno di tali regole processuali, su cui la dottrina non è concorde[16], si può ritenere, con buon fondamento, che l’editto di Diocleziano dell’anno 294 costituisca la prima esplicita statuizione normativa in cui esse venivano affermate e la conferma della possibilità dell’introduzione, durante lo svolgimento del processo, di elementi nuovi e diversi rispetto a quelli offerti in apertura del dibattimento: un regime perfettamente coerente con le caratteristiche generali del processo della cognitio extra ordinem e, in particolare, con la larga discrezionalità che caratterizzava l’attività dei giudici, come peraltro Brambati bene mette in evidenza proprio in relazione alla costituzione costantiniana 2.18.1 in esame.
- Analoga esigenza di estendere il campo di indagine rispetto alla identificazione dei giudici nel processo cognitorio è opportunamente avvertita dal Barbati anche in relazione alla seconda costituzione esaminata, anch’essa di Costantino.
Si tratta della nota c. 11 CTh. 11.30, indirizzata al prefetto urbano Massimo ed emanata a Sirmio il 12 gennaio 321, che, per il suo intrinseco valore generale, conviene riportare per esteso:
Imp. Constantinus A. ad Maximum. Post alia: Nemo in refutationem aliquid congerat, quod adserere intentione neglexerit. Quod quidem saepe fit industria, si quod quis probari posse desperet, in praesenti disceptatione dissimulet, certus se esse revincendum, si commenticia et ficta suggesserit. Propter quod cogi etiam singulos oportebit ad proferenda in iudicio universa quae ad substantiam litigii proficere arbitrantur, atque ea ratione urgeri, ut sciant sibi ex auctoritate legis istius non licere refutatoriis tale aliquid ingerere, quod aput iudicem non ausi fuerint publicare. Nam si plena, ut iubemus, adsertio per litigatorem in iudiciis exeratur et integra instructio in consulti ordinem conferatur, stabit ratum ac fidele, quod iudicia nostra rescribserint neque ullus querimoniae locus dabitur nec occasio supplicandi, ut convelli labefactarique iubeamus quae ad ralationem eius sanximus, qui neque vera neque universa suggessit. Omnes igitur partium allegationes acta universa scribturarumque exempla ommiun dirigantur. Quod cum universos iudices tum praecipue sublimitatem tuam, qui cognitionibus nostram vicem repraesentas, servare conveniet. Sane etiam ex eo querimoniae litigantium oriuntur, quod a vobis, qui imaginem principalis disceptationis accipitis, appellationum adminicula respuuntur. Quod inhiberi necesse est. Quid enim acerbius indigniusque est, quam indulta quempiam potestate ita per iactantiam insolescere, ut despiciatur utilitas provocationis, opinionis edito denegetur, refutandi copia respuatur? Quasi vero appellatio ad contumeliam iudicis, non ad privilegium iurgantis inventa sit vel in hoc non aequitas idicantis, sed litigantis debeat considerari utilitas. Dat. Prid. Id. Ian Sirmio Crispo II et Constantino II CC. conss.
Il testo normativo offre all’autore l’occasione per affermare, in stretta correlazione con quanto sostenuto a proposito della precedente costituzione costantiniana (CTh. 2.18.1), che il provvedimento, in duplice e reciprocamente interdipendente prospettiva, attesterebbe, per un verso, una nuova configurazione generale del processo di impugnazione; per altro verso, conterrebbe il divieto di proporre, “almeno davanti al tribunale imperiale…domande, eccezioni e mezzi istruttori nuovi” [17].
L’esame della costituzione e, più in generale della normativa costantiniana in tema di impugnazioni, consente, a mio avviso, qualche ulteriore approfondimento: anzitutto, va detto come essa sia stata utilizzata dal Gaudemet quale appiglio testuale per sostenere l’esistenza di una forma particolare di impugnazione al tribunale imperiale, che Costantino avrebbe introdotto sul modello della consultatio ante sententiam, l’appellatio more consultationis o per consultationem[18].
In realtà, ad una attenta lettura, emerge anzitutto come la costituzione in esame non riguardi il processo d’appello, neppure nella pretesa forma dell’appello more consultationis, bensì la diversa procedura della consultatio ante sententiam.
A ben vedere, ciò appare chiaro, oltre che dal suo generale contesto, dalla circostanza che lo strumento di soluzione del caso sottoposto alla decisione imperiale viene qualificato come un rescritto: nell’ipotesi di consultatio ante sententiam[19], infatti, era questa la forma del provvedimento con cui l’imperatore risolveva i dubbi che gli erano sottoposti dal funzionario imperiale in relazione alla norma da applicare al caso concreto, mentre il giudizio di appello si concludeva con una sentenza[20].
E’ pur vero che nel seguito del testo si accenna anche all’appello, ma esclusivamente per stigmatizzare l’atteggiamento ostruzionistico che i giudici, anche di rango superiore, come lo stesso praefectus urbi, cui la disposizione si rivolge, assumono per evitare la rapida conclusione dei processi e che si concreta, nel caso, nel rifiuto di emettere l’opinio e di rilasciarne copia alle parti[21].
Per tale motivo, ritengo che le due parti del provvedimento imperiale vadano tenute distinte, poichè hanno diversa importanza e differenti finalità e non credo possibile dedurre, dal discorso sulle impugnazioni nella seconda parte, che anche nella prima si abbia di mira il processo d’appello o addirittura scorgere, come vuole appunto il Gaudemet, nell’espressione “in consulti ordinem” la prova che si trattasse di appello more consultationis.
In realtà, la costituzione considera l’ipotesi di una consultatio ante sententiam proposta da un funzionario imperiale al tribunale supremo e si riconnette al testo con cui, in apertura del titolo del Teodosiano in cui la costituzione è collocata (De appellationibus et poenis earum et consultationibus), la cancelleria disciplinava espressamente il procedimento a cui le parti e i giudici dovevano attenersi si in civili negotio cognitis utrisque actionibus (CTh. 11.30.1)[22], per il caso di un dubbio che il funzionario avesse manifestato sull’applicabilità della norma al caso concreto, mediante l’invio degli atti all’imperatore con una relatio: se nella costituzione di esordio si stabilisce che il giudice doveva comunicare alle parti l’exemplum consultationis e che le parti avevano la possibilità di opporvi le preces refutatoriae, nel testo in esame (CTh. 11.30.11), si precisa che tali refutatoriae non possono contenere o invocare argomenti nuovi o diversi rispetto a quelli introdotti in apertura del processo (si noti l’espressione intentio con cui la cancelleria imperiale indica tale momento processuale): quod aput iudicem non ausi fuerint publicare.
Il provvedimento imperiale si riferiva, dunque, esclusivamente alle modalità di svolgimento della consultatio ante sententiam, senza fare riferimento, nemmeno implicito, ad un caso di impugnazione della sentenza al giudice superiore.
Nel testo, dunque, non si parla di appello ma, al contrario, si specifica che, se tali disposizioni verranno osservate, la decisione imperiale, definita come quod iudicio nostro rescribserint, potrà risultare ferma e definitiva: era questo il rescritto con cui l’imperatore rispondeva al funzionario imperiale che gli aveva sottoposto una consultatio ante sententiam e non la sentenza del tribunale imperiale pronunciata in grado d’appello.
Se, dunque, di rescritto imperiale si trattava, come il tenore letterale dei testi consente fondatamente di ritenere, la costituzione 11 CTh. 11.30 non offre alcun elemento da cui ricavare un indirizzo restrittivo in tema di integrazioni istruttorie in un momento successivo all’introduzione della domanda: infatti, se è pur vero che nella disposizione normativa emerge il divieto di proporre nelle refutationes gli argomenti che non fossero stato introdotti con l’intentio, tale divieto non si riferisce all’appello, tantomeno ad un preteso appello more consultationis o per consultationis: in realtà, doveva trattarsi di una disposizione di carattere generale, dettata dalla necessità di una “concentrazione” dei tempi processuali, senza alcun specifico riferimento al giudizio di secondo grado o al divieto di nuove deduzioni in questa fase del giudizio.
E’ possibile che, se rigorosamente applicata, la norma abbia avuto riflessi anche sul giudizio di appello, impedendo, a più forte ragione, che in questo si potessero introdurre deduzioni o prove, se già respinte in primo grado: ma non credo possibile che da tale provvedimento normativo possa dedursi una disciplina restrittiva, sfavorevole alla introduzione di nova nei vari gradi di giudizio in cui poteva articolarsi il processo cognitorio, anche considerando il contenuto della sopra richiamata costituzione di apertura del titolo De iudiciis (CTh. 2.18.1), né, tantomeno, una rigorosa coerenza dell’ordinamento e un sicuro inquadramento sistematico delle norme del Teodosiano, in assenza di notizie sul collegamento e sull’eventuale coordinamento anche nella loro originaria formulazione e nella prassi processuale anteriore alla pubblicazione della raccolta legislativa.
- Il secondo capitolo della prima parte è dedicato, nelle esplicite intenzioni dell’autore, all’esame dei provvedimenti imperiali in cui l’espressione “iudices” è identificata con i governatori delle province, sia per l’attività svolta nell’ambito processuale (§3), sia per quella estranea all’amministrazione della giustizia, quale l’aggiornamento delle liste del censo (§2), di cui si ha traccia esplicita nel provvedimento di Valentiniano e Valente dell’anno 371 (CTh. 13.10.7).
Quanto all’identificazione di iudex con il governatore provinciale, assume speciale rilevo l’editto costantiniano del 331, raccolto in CTh. 1.16. 6 e 7, nel quale è documentata la sinonimia fra la titolatura di praeses e l’espressione iudex. Anche in questo caso, la portata normativa della disposizione non è limitata alla mera indagine lessicale: se letta in un contesto più generale, la disposizione consente di attestare l’introduzione, nel sistema processuale della tarda antichità, di una funzione diversa, da quella usualmente attribuita a tali funzionari imperiali.
Il provvedimento sancisce, infatti, che ai prefetti del pretorio era possibile rivolgersi, oltre che nell’ambito dello svolgimento della ordinaria attività giurisdizionale, che –nel caso- sarebbe stata relativa alla impugnazione di una sentenza di primo grado in ipotesi di soccombenza, anche per i casi in cui il governatore provinciale non si fosse pronunciato sugli abusi compiuti dai suoi officiales durante lo svolgimento de giudizio. Ciò risulta, con ancora maggiore chiarezza, dalla poco precedente costituzione dell’anno 328, inserita nel medesimo titolo De officio rectoris provinciae, c. 4[23], in cui la cancelleria imperiale stabilisce, per il caso in cui non abbiano reagito all’insolenza di personaggi influenti o non abbiano deciso controversie nelle quali essi avevano avuto parte, che i governatori delle province possano rivolgersi al tribunale dei prefetti del pretorio (o, addirittura, a quello imperiale: …ad nos aut certe ad gravitatis tuae scientiam referre), quo provideatur, qualiter publicae disciplinae et laesis minoribus consulatur[24].
In analoga rilevante prospettiva, si pone l’esame di un altro importante provvedimento, la c. 10 CTh. 1.16, che Barbati ricollega “all’obbligo del iudex di esercitare pubblicamente la giustizia civile e penale” [25].
Anche tale disposizione deve essere collocata in un contesto più ampio rispetto al confine nel quale è collocata nel volume in esame: anzitutto, essa va unita alla coeva c. 4 CTh. 9.3, De custodia reorum, praelata l’8 settembre dell’anno 365[26], di cui costituisce parte di un unico intervento normativo; in secondo luogo, deve essere sottolineato come l’intervento normativo nel suo complesso affronti temi di rilevante carattere per una più corretta comprensione del fenomeno processuale tardo: la disposizione, infatti, offre rilevanti spunti di riflessione sul problema, ancora oggetto di fervido dibattito dottrinale, relativo alla natura, accusatoria o inquisitoria, del processo penale della cognitio extra ordinem, che pure Barbati, seppure in altro e differente contesto, dimostra di conoscere[27].
Il tema in discussione non è relativo alla possibilità, neppure messa in discussione, che il processo penale possa prendere l’avvio anche da un denuncia presentata da un privato cittadino, bensì attiene alle vicende del successivo sviluppo del giudizio, con particolare riferimento ai poteri attribuiti al giudice durante l’istruttoria: le fonti tarde consentono di ipotizzare, con buon fondamento, che, ancora nel IV secolo, pur di fronte ad un graduale generalizzarsi dell’inquisitio[28], il giudice, nella fase di istruzione probatoria, rimesse vincolato alle prove offerte dalla parte, offrendo elementi a favore della conservazione, anche in epoca tarda, di una struttura accusatoria del processo, che ancora ne caratterizzava l’impianto e ne influenzava lo svolgimento[29].
Il provvedimento costantiniano in esame si inserisce coerentemente nel quadro di una simile ipotesi ricostruttiva: se, infatti, la c. 10 CTh. 1.16, vieta ai giudici di accettare ulteriori elementi di accusa dopo la conclusione del pubblico dibattimento, postquam se receperint, la c. 4 CTh. 9.3 esclude la valida costituzione del rapporto processuale, cui sarebbe conseguito l’assoggettamento dell’accusato al carcere, se non effettuato mediante il rispetto delle formalità tipiche del processo accusatorio: in codice publico sollemnia incribtionis impleta sint.
- Di particolare interesse è il terzo capitolo della prima parte, in cui Barbati individua le ipotesi in cui le fonti tendono a distinguere, nel quadro degli addetti all’amministrazione della giustizia, le funzioni esercitate dai iudices rispetto a quelle dei rectores provinciarum, specialmente attraverso l’esame di tre costituzioni imperiali: CTh. 15.1.15 di Valentiniano e Valente, in cui si stabilisce che iudices et rectores provinciarum non possono erigere nuove opere pubbliche prima di avere restaurato quelle esistenti[30]; CTh. 12.1.85 = C. 10.32.33, relativa al divieto, rivolto ad omnes iudices provinciarumque rectores, di proseguire nella prassi di frustare i decurioni e i maggiorenti delle città, nonché, seppure per implicito, CTh. 16.10.10 di Teodosio, da cui si ricava una differente sanzione pecuniaria irrogata ai iudices (quindecim pondo auri) rispetto a consulares, correctores, praesides (quaternas…illorum similem normam aequali sorte dissolvant).
L’attenta esegesi dei tre provvedimenti consente all’autore di concludere nel senso che il “differente registro semantico…nonostante i preposti delle province rientrassero a pieno titolo fra i giudici, vuole indicare che il disposto non si applica soltanto ai governatori provinciali…L’esplicita divisio conferma, a contrario, come abitualmente per iudices si intendessero per l’appunto i governatori provinciali e, anzi, gli autori delle norme in questione avvertono l’esigenza di opporre ai iudices i rectores provinciarum proprio al fine di chiarire agli operatori che i divieti…non concernevano i governatori provinciali”[31].
- La parte della monografia in cui le doti di Brambati emergono con maggiore chiarezza e nella quale si ricava una visione “d’insieme” del quadro dei funzionari imperiali investiti di compiti giurisdizionali, è senz’altro il capitolo quarto, con cui si chiude la prima parte del lavoro: esso è dedicato all’esame delle fonti che mostrano, sono le parole dell’autore, “una notevole ambiguità per l’individuazione dei iudices” e in cui “si staglia con nettezza la problematica della vaghezza di buona parte delle lingua legislativa di epoca tarda”[32].
E’ qui, infatti, che l’identificazione delle varie categorie di iudices viene proposta non quale risultato di un’indagine meramente lessicale dei testi, bensì quale frutto di un’interpretazione sistematica delle raccolte ufficiali, segnatamente in relazione al titolo in cui le disposizioni imperiali sono contenute, oltre che –seppure con maggiori margini di incertezza- in forza di un esame palingenetico dei provvedimenti esaminati.
Sotto il primo profilo, l’indagine prende le mosse dalla legislazione in materia fiscale, l’esame della cui copiosissima produzione normativa consente di isolare i provvedimenti normativi relativi alla riscossione dei tributi concernenti l’annona, destinati all’arca prefettizia che, coerentemente al quadro generale di ripartizione delle competenze giurisdizionali, attribuiscono ai rectores provinciarum il potere di exigere l’annona e i ceteri tituli, qui pertinent ad arcam eminentissimae praefecturae (CTh. 10.19.6 di Arcadio ed Onorio dell’anno 398, ma già nella costantiniana CTh. 11.1.3, nella quale gli esattori di qualificano come universi iudices, da intendere quali funzionari preposti alla procedura di accertamento dei tributi, alla cui esazione avrebbero provveduto i rectores provinciarum).
Di una identificazione dei iudices indicati nelle costituzioni in materia di riscossione dei tributi con i governatori delle province, si ha peraltro testimonianza, seppure indiretta, anche in relazione alla annona militare e alla collatio lustralis, entrambe destinate alle casse prefettizie.
Quanto alla prima ipotesi, ciò è provato soprattutto dalla costituzione CTh. 11.7.16, ancora di Arcadio ed Onorio, emanata nell’anno 401, nella quale gli exactores militaris annonae, sono identificati con i governatori, anche a motivo dell’ambito provinciale in cui attuavano la materiale riscossione del tributo[33], destinato al sostentamento degli eserciti (CTh. 11.7.16, ancora di Arcadio ed Onorio, emanata nell’anno 401).
In relazione, invece, alla collatio lustralis, finalizzata a tassare i negotiatores, rileva -in particolare- un provvedimento dell’anno 403, CTh. 12.6.29, con cui Onorio, richiamando una precedente disposizione del 399 (CTh. 13.1.17) dedicata alle modalità di riscossione dell’aurum negotiarorum, come pure il tributo era chiamato, punisce il giudice che ometta il controllo sulle operazioni di incasso: ciò fa pensare, nella fondata ipotesi del Barbati, peraltro sostenuta da autorevole dottrina sin dal Gotofredo, che tale incarico sia stato affidato al governatore provinciale, cui pure, come s’è visto, spettavano poteri di controllo sull’arca prefettizia a livello cittadino.
- La parte relativa all’individuazione dei iudices attraverso la palingenesi delle costituzioni imperiali si segnala per originalità ed autonomia argomentativa, considerando che l’indagine è svolta sulla legislazione fiscale di Arcadio ed Onorio, priva ancora di una organica sistemazione in dottrina[34].
L’autore prende le mosse da una serie di provvedimenti imperiali, destinati a regolare le modalità di riscossione dei tributi a favore dell’erario imperiale, segnatamente con riguardo alle sacrae largitiones e alla res privata: quanto all’incasso dei tituli largitionales, la ricostruzione della disposizione di Onorio del 27 febbraio 401, smembrata, nella versione a noi nota fra Codice Teodosiano (CTh. 1.10.7) e Codice Giustinianeo (C. 1.32.1) e preceduta dall’esame congiunto delle due epistulae indirizzate al praefectus praetorio per Italiam et Africam, Valerio Messalla (CTh. 1.5.12 e 13), consente all’autore, nel tentativo di identificare i giudici competenti in materia fiscale, di formulare una nuova ipotesi ricostruttiva: della disposizione onoriana esisterebbe una seconda versione, identificata nell’epistola indirizzata ad Adriano, successore nella carica di prefetto del pretorio per l’Italia e l’Africa (CTh. 1.10.6). In base all’identità di contenuto fra le due disposizioni normative, entrambe destinate ad imporre ad ogni indictio fiscale, seppure con diversa enfasi, l’invio di due palatini in ciascuna provincia per sollecitare l’esazione da parte dei giudici, a cui è rivolto il compito, previo controllo dell’attività degli stessi palatini contro eventuali abusi (per singulas provincias palatini dirigantur, ita ut singulorum librarum auri adiutores per singulos multa constringat, si legis nostrae definitiones neglexerit) di inviare alle sacrae largitiones l’oro riscosso, Barbati ipotizza un’identificazione fra i iudices, che nella c. 7 CTh. 1.10, debbono inviare sine ulla dilatione, ad officium palatinum…aurumque exactum ad sacrae largitiones, con i rectores, cui, in CTh. 1.10.6, è pure affidato il compito di vigilare sull’attività di esazione da parte dei palatini (“…ad hoc enim tantum videntur emitti, ut rectoribus vigilanter immineant”).
Anche in relazione alla res privata, l’identificazione fra rectores e iudices emerge dalla ricostruzione palingenetica della legislazione onoriana in materia fiscale: la prima parte disposizione normativa, che è raccolta nel titolo De his quae ex publica collatione illata sunt non usurpandis del Teodosiano, CTh. 12.9.3 (=C. 10.75.3), prevede la punizione, gravissima severitate, per i giudici che stornino dalla res privata fondi ad necessitates alias. Il provvedimento, che si apre con un post alia, che ne connota la sua incompletezza, è conservato, in versione più ampia –contenente anche la prescrizione di esigere i canoni per la concessione in godimento delle terre della res privata (Per omnes provincias patrimonialium fundorum ab ordinariis iudicibus canon exigatur, et quidquid exactum fuerit, dirigatur)- anche nel Codice Giustinianeo (C. 11.65.5): il tenore del provvedimento supera, nell’interpretazione dell’autore, la precedente attribuzione dei poteri di riscossione ai rationales e attesta il definitivo trasferimento ai governatori delle province dei compiti di esazione dei canoni della res privata.
- La seconda parte della monografia, del pari molto ponderosa, è dedicata all’esame delle fonti letterarie, segnatamente l’Historia Augusta, le Res Gestae di Ammiano Marcellino, le Relationes di Simmaco e le Variae di Cassiodoro, da cui Barbati ricava elementi molti utili alla identificazione dei funzionari investiti di compiti giurisdizionali.
Premesso un accenno al dibattito relativo all’epoca di composizione, alle persone degli autori, alle tendenze ideologico-politiche da loro espresse, nonché all’attendibilità delle notizie da loro riferite nella varie Vitae che compongono l’Historia Augusta, Barbati ipotizza che “il corpus di biografie conosce ora un’estensione generale alla parola iudices, a contrassegnare il complesso dei magistrati-funzionari o anche quelli con funzioni civili contrapposti ai duces militari…ora un’identificazione specifica dei iudices ivi menzionati, che possono essere lo stesso princeps, oppure singoli funzionari, in specie il prafectus urbi e i governatori delle province” [35].
Alessandro Severo, in un’ottica di rigorosa politica di repressione dei reati, ricomprende nella prima categoria, con valenza negativa, coloro che commettevano illeciti a fini di lucro (SHA, Alex. Sev., 15.1: omnes iudices…inpurus; 17.1-2: …si umquam furem iudicem vidisset), analogamente equiparati ai fures nella biografia di Claudio (SHA, Claud., 2,6: fures iudices) oppure qualificati come soggetti inadeguati allo svolgimento della funzione svolta (SHA, Aurel., 43, 3-4); al contrario, e in chiave laudativa, i giudici sono indicati come soggetti chiamati, in generale, all’applicazione della lex romana (SHA, Prob., 20,5: Romanae leges…iudices nostri). Per una connotazione più specifica, invece, merita un richiamo il riferimento al iudex identificato con il sovrano (SHA, Alex. Sev., 28.2: severissimus iudex), con i governatori delle province (SHA, Sev., 8.4: a provincialibus iudices), nonché con i praesides o i proconsules (SHA, Tac., 15.2: praesidem imponat…proconsulem mittat…omnibus iudicet, ma anche –disgiuntamente- come proconsole in SHA, Aurel. 40.4: omnesque iudices…pro consule Asiae… o come preside in SHA, Alex. Sev. 42.4: iudices…praesides provinciarum), con il prefetto d’Egitto (SHA, Sev. 17.2: Deinde Alexandrinis…dedit…uno iudice contenti, quem Caesar dedisset) o, infine, con il praefectus urbi (SHA, Ant. Pius, 8,6: iudici…prafecto urbi).
Si tratta, in definitiva, di una ricca antologia di fonti che consente al Barbati di fondatamente concludere per l’individuazione di un “campo semantico nell’Historia Augusta della parola iudex…oscillante fra il polo generale dei funzionari civili e quello settoriale dei governatori delle province, figura istituzionale verso la quale il termine sembra spesso propendere” [36].
Ferma la qualificazione dei giudici per indicare, in generale, i magistrati (Amm., 15.5.18:…ad similitudinem iudicum salutatos principes legerimus), intesi come il complesso dei funzionari giusdicenti (Amm., 27.3.7: sed cavendum iudices), il racconto dello storico antiocheno Ammiano Marcellino risulta orientato ad una identificazione dei giudici con funzionari imperiali investiti di specifici compiti giurisdizionali, in qualità di delegati dall’imperatore, particolarmente nel settore criminale, fra cui spicca la qualifica di iudex attribuita specialmente nel settore dell’amministrazione militare, come nel caso del magister equitum, del quaestor sacri palatii e del praepositus sacri cubiculi (Amm., 16.8.3, ma anche, per il primo, seppure in un circoscritto ambito territoriale, in relazione ai magistri equitum regionales, in 14.9.3 e 18.6.12, nonché per l’attribuzione della qualifica di giudici ai comandanti militari in 29.4.5, 29.5.22 e 29.5.49) e del rationalis (28.2.13). Analoghe identificazioni quanto al prefetto del pretorio (16.8.3; 20.8.14; 21.12.19 e 20), ai governatori provinciali (Amm., 18.1.1; 31.14.2), al prefetto urbano (15.7.1; 26.3.1; 28.4.2), al comes rei militaris per Italiam (27.7.5), nonché infine al governatore della provincia siriana (23.2.3) [37].
Anche Simmaco privilegia l’utilizzo dell’espressione iudex per indicare, in generale, il complesso dei magistrati giusdicenti in ambito urbano (Ep., 5.63: iudices quos urbanis potestatibus imperialis praefecti electio, nonché Rell. 1; 2, 28, 39.4 e 5), quali il praefectus urbi [Rell. 16, 19, 21.3, 26.1, 33.3, 34.2, 39.1, ma anche, seppure indirettamente, 15, 21.4, 23.2, 23.10, 35.1], il praefectus annonae ed il praefectus vigilum, ma si rinvengono singole individuazioni per il prefetto del pretorio (Ep., 9.25, ma anche Rel., 31), i governatori delle province africane (iudices Africani: Rell., 18.2; 35.3), oltre ai giudici provinciali (denominati anche iudices provinciarum provinciales cognitores: Rell., 38.2; 34.7).
In un simile contesto, nella quantità di riferimenti giuridici contenuti nelle fonti letterarie, alcuni profili meritano particolare approfondimento, come emerge, per esempio, dalla lettura della Relatio 16, a cui pure Barbati attribuisce speciale rilevanza in relazione all’identificazione dell’espressione iudex con il prafectus urbi nell’opera simmachiana.
Per un’esatta comprensione del testo, la relatio va inquadrata nella legislazione imperiale in tema di impugnazione delle sentenze non definitive e consente di formulare alcune ipotesi ricostruttive sull’evoluzione del significato dell’espressione praeiudicium con cui tali pronunce venivano qualificate [38]: nel caso in esame, un processo super testamenti iure, Simmaco rimetteva agli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio una decisione sull’appello contro un provvedimento dello stesso prefetto, in materia di attribuzione della bonorum possessio, che la parte soccombente aveva impugnato: nel riferire il caso al tribunale supremo, Simmaco, seppure consapevole che l’impugnazione non sarebbe stata ricevibile, proprio perché avente natura di pronuncia non definitiva, dichiarava di averla accolta verecunde potius quam iure, perché non lo si considerasse offensus della libera, benchè prematura, proposizione dell’impugnazione:
Profiteor ultro, quod scio clementiam vestram posse rescribere: verecunde potius quan iure suscipi provocationem non extante sententia, ne existimarer offensus liberae quidem sed immaturae vocis obictu, ddd. imppp.
Ai nostri fini, rileva specialmente considerare che l’officium aveva proposto l’applicazione di una multa praeiudicii, proprio in considerazione dell’irricevibilità dell’appello, ad multam praeiudicii suggerendam, con la conseguenza che con l’espressione praeiudicium Simmaco indica la decisione di Simmaco in tema di bonorum possessio.
Ritengo che questo dato letterale consenta di ipotizzare come, nel corso della legislazione tarda, il significato rigorosamente tecnico che l’espressione praeiudicium aveva assunto nel quadro del processo formulare, in cui come è noto, indicava le azioni di mero accertamento, sia che esse fossero esercitata autonomamente[39], sia che costituissero il presupposto di un’ulteriore pronuncia[40], come nel caso di questioni si stato (D. 2.4.8.1; 22.3.18 pr.: …an libertus sit…; D. 25.3.1.16:…an filius sit…) o di natura patrimoniale (D. 42.5.30:…an iure bona venierint…), abbia gradualmente assunto un significato più ampio, giungendo a qualificare un provvedimento che non riguardava esclusivamente una questione di stato, ma che era comunque pregiudiziale alla questione di merito[41]. Un processo evolutivo che, del resto, trova conferma testuale nel contenuto della c. 44 CTh. 11.30, che costituisce la risposta alla relatio 16 Simmaco: nel provvedimento, infatti, in cui si stabilisce che obiecta appellatione, la causa debba essere rimessa al tribunale imperiale o a quello del cognitor sacri auditorii, l’impugnazione viene esplicitamente definita come interposita a praeiudicio:
CTh. 11.30.44: Obiecta appellatione, etiamsi a praeiudicio interposita dicatur, vel ad nos vel ad cognitorem sacri auditorii sollemniter causa mittatur, cum, si ea provocatio adversum leges fuerit emissa, facile post iudicium sacri examinis ab huiusmodi litigatoribus multa possit exculpi.
L’importanza della costituzione in esame, del resto, emerge anche in relazione ad un altro profilo di speciale interesse per lo svolgimento dei giudizi nella tarda antichità: essa, infatti, differentemente da quanto era stato previsto nel processo di età classica, in cui al giudice inferiore, a cui l’impugnazione era rivolta, era affidato un esame preliminare sull’ammissibilità dell’impugnazione[42], prevede che non sia più il iudex a quo a svolgere tale compito, ma etiamsi appellatione a praeiudicio interposita dicatur, si dovrà attendere l’esame del giudizio di impugnazione per stabilire se l’appello sia stato proposto adversus leges e per eventualmente applicare la relativa sanzione[43]. A corroborare tale ipotesi milita la pressochè coeva c. 43 h.t., indirizzata al dux Aegypti Merobaude, nella quale, a proposito degli appelli rivolti all’imperatore contro le sentenze di giudici superiori, ribadisce che le multe agli appellanti possono essere irrogate solo con decisione imperiale[44].
Dalle Variae di Cassiodoro, infine, Barbati ricava utili elementi per confermare come il termine iudex sia alternativamente utilizzato per indicare, in generale, la “trama dei funzionari giusdicenti” (3.23; 7.28.2, 9.14.7) ovvero il tribunale del prefetto del pretorio (11.2.5), dei governatori provinciali (5.14.5, 7, 8; 9.18.11) o del quaestor sacri palatii (6.5.1), escludendo, invece, con rilievo che merita speciale attenzione per le conseguenze sottese a tale evidenza documentale, l’uso della qualifica giudiziaria in relazione ai funzionari periferici del fisco, comites largitionum e rationales rei privatae.
- L’indagine di Barbati è completata dall’esame delle fonti ecclesiastiche, sulla cui importanza per la ricostruzione della realtà giuridica della tarda antichità, la dottrina si è da tempo espressa in maniera non equivoca, nella convinzione che, soprattutto in relazione ai rapporti fra diritto romano e cristianesimo, una serie di fonti quali gli atti conciliari, le storie ecclesiastiche e gli epistolari dei padri della Chiesa costituiscano un indispensabile strumentario per il giusantichista[45].
Spiccano, fra gli autori latini, le opere di Arnobio di Sicca, in cui la parola iudex ricorre in un significa astratto, idoneo a qualificare qualunque organo giudiziario investito di funzioni decisorie (Nat., 4.16: quo disceptatore, quo iudice controversias tollemus tantas ?), come pure quella del suo allievo Lattanzio, dove la qualificazione assume un significato così generale da ricomprendere anche attività estranee all’esercizio delle funzioni giurisdizionali (De mort. Pers., 15.4: nam iudices per omnia templa dispersi universos ad sacrificia cogebant; 36.4: sed comprehendos suo iure ad sacrificia cogerent vel iudicibus offerent).
Al contrario, nelle opere di S. Ambrogio, l’espressione iudex è riferita a specifiche categorie di funzionari imperiali, quali il magister officiorum (Ep., 45.1) o il governatore provinciale (De exces. Fratr. 1.58) [46], come pure emerge dall’opera dello storico ecclesiastico Sulpicio Severo, che associa il lemma al governatore provinciale o al vicario diocesano (Chron., 2.42.1-3).
Particolare interesse assumono, inoltre, le opere di Agostino, nelle quali, se per un verso, in alcuni passi la titolatura giudiziaria non si riferisce ai funzionari cittadini, bensì specialmente ai governatori delle province comprese nella diocesi africana, nei cui territori erano situate le basiliche occupate dagli eretici (Contra litt. Petil. Donatist. 2.102; 3.45; Ep. De catholic. De secta donatist. 54), per altro verso emerge una considerazione più generale del termine, identificato con la stessa autorità statale, che si concretizza nell’esercizio dell’attività giurisdizionale da parte del proconsole, del vicario e del comes (mi riferisco ai iudices publici di Serm., 392.4). Come pure hanno rilievo i riferimenti ai giudici nelle opere di Orosio, identificati principalmente nei governatori provinciali (Hist. adv. pag. 3.8.5-6; 7.9.10, 7.12.3, 7.22.6; 7.40.5; 7.42.10), come pure per le opere del presbitero Salviano (De gub. Dei, 5.17).
Il lavoro si chiude con l’esame di alcuni documenti ufficiali provenienti dalle autorità ecclesiastiche, per la parte in cui esiste menzione di iudices civiles, tralasciando invece ogni riferimento a iudices ecclesiatici, iudices ecclesiae o iudices episcopi, da utilizzare, come opportunamente avverte l’autore, con la massima prudenza per i dubbi sulla genuinità, nonché con gli atti dei martiri[47], dove il riferimento all’autorità giudiziaria è specialmente riferito alla fase dell’esecuzione della condanna, oltre alle biografie dei santi, con specifico riferimento ad Agostino, Ambrogio, Antonio e Martino.
- Esame paziente delle fonti giuridiche ed extragiuridiche, padronanza della letteratura in materia e ampia prospettiva di indagine sono le qualità maggiori dell’opera di Barbati, che si segnala non soltanto per i risultati raggiunti (qualche volta, in verità, dispersi nelle pieghe della lunga e minuziosa esegesi), ma anche (e soprattutto) per le prospettive di ulteriori ricerche e per gli stimoli che la grande quantità di testi valorizzati dall’autore offrono agli studiosi per una più approfondita conoscenza del processo romano di età tarda e per una corretta identificazione dei funzionari imperiali che, con differente ripartizione di funzioni e di ruoli, ne governavano lo svolgimento.
Patrocinante avanti alle Magistrature Superiori
Professore presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi
[1] Vedi, al riguardo, alcune recenti indagini, fra cui, in relazione al diritto classico: N. Rampazzo, Sententiam dicere cogendum esse. Consenso e imperatività nelle funzioni giudicanti in diritto romano classico, Napoli 2012.
[2] Il quadro di tale sviluppo è reso con efficacia da L. Fanizza, L’amministrazione della giustizia nel Principato. Aspetti, problemi, Roma 1999, 61 ss., preceduta da alcune risalenti (ma utilissime) riflessioni generali di G. Scherillo, Lezioni sul processo. Introduzione alla cognitio extra ordinem, Milano 1960, 346 ss. Quanto alle fonti, per Papiniano (D. 1.12.1.1), l’attribuzione dei poteri ai mandatari era la conseguenza della mancanza di un loro autonomo potere di giudicare (“proprium nihil habet”), mentre Ulpiano, che utilizza l’espressione vice eius, specificava che l’esercizio dell’attività giurisdizionale dei mandatari era il frutto del conferimento di una specifica attribuzione da parte del mandante (“fungetur vice eius qui mandavit, non sua”).
[3] Una concezione “pubblicistica” di rappresentanza organica non era estranea al pensiero della tarda antichità, come è testimoniato da due passi del Panegirico in onore di Massimino (2.10[11].5), nei quali l’attività amministrativa dei funzionari delegati era considerata come l’estrinsecazione dell’attività dell’imperatore (etiam quae aliorum ductu geruntur, Diocletianus facit, tu tribuis effectum) e come frutto del potere del sovrano (a vobis profiscitur etiam quod per alios administratur). In argomento, F. Grelle, La forma dell’Impero, in Storia di Roma. 3. L’età tardoantica, 1, Torino 1993, 77; P. Cerami, Potere e ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, Torino 19963, 207.
[4] Segnalo, fra gli altri, il denso saggio “I iudices ordinarii nell’ordinamento giudiziario tardoromano”, in Jus 54 (2007), 67 ss., nonché il lavoro dal titolo Sugli elenchi degli organi giudiziari in età giustinianea, in Jus 57 (2010), 37 ss.
[5] Sul brano e, in generale, sulla organizzazione giudiziaria in Ammiano, vedi, per tutti, G. de Bonfils, Ammiano Marcellino e l’imperatore, Bari 1997, 31 ss.
[6] Interessanti spunti in F. De Marini Avonzo, I vescovi nella Variae di Cassiodoro, in Dall’impero cristiano al medioevo, Goldbach 2001, 41 ss.
[7] Sulla rilevanza delle fonti di epoca successiva al tradizionale confine posto dalla ricerca romanistica, di regola identificato con la pubblicazione della raccolta giustinianea, sono importanti le ricerche di Elio Dovere, fra cui spiccano i tre ultimi volumi, accomunati, nel titolo, dall’espressione tratta da una costituzione dell’anno 452, conservata negli atti conciliari calcedoniensi, con cui l’imperatore Marciano attribuiva all’ordinamento giuridico il compito di reprimere il male del diffuso dissenso religioso: “Verum quoniam principalis providentiae est omne malum inter initia opprimere et serpentem morbum legum medicina resecare” (ACO 2, 3, 2, 91 [350], 20): E. Dovere, Medicina legum. 1. Materiali Tardoromani e formae dell’ordinamento giuridico, Bari 2009; Id., Medicina legum 2. Formula fidei e normazione tardoantica, Bari 2011; Id., Medicina legum 3. Credo di Calcedonia e legislazione d’urgenza, Bari 2013.
[8] S. Barbati, Studi sui “iudices” nel diritto romano tardoantico, Milano 2012, 27.
[9] Opportunamente enfatizzata l’opera di “importanza imprescindibile” (Barbati, Studi, cit., 27 nt. 72) dovuta al Bethmann Hollweg, Der Civilprozess des gemeinen Rechts im geschichtlicher Entwicklung. 1. Der römische Civilprozess, Bonn 1864.
[10] Barbati, Studi, cit., 67.
[11] F. Goria, Valori e principi del processo civile nella legislazione tardo antica: brevi note, in . Atti del Convegno 18-19 giugno 2009, Parma 2010, 11 ss.
[12] S. Puliatti, “Officium iudicis” e certezza del diritto in età giustinianea, in Legislazione, cultura giuridica, prassi dell’Impero d’Oriente in età giustinianea tra passato e futuro. Atti del Convegno 21-22 maggio 1998 Modena, Milano 2000, 117 ss., ma anche Princìpi generali e tecniche operative del processo civile romano nei secoli IV-VI d.C. Atti del Convegno 18-19 giugno 2009, cit., 103ss.
[13] Brambati, Studi, cit., 70 s.
[14] Puliatti, “Officium iudicis”, cit., 116.
[15] Fernandez Barreiro, Un edicto generál de Diocleciano sobre procedimiento, in Estudios de derecho romano en honór de Álvaro D’Ors, 1, Pamplona 1987, 417 ss.
[16] Sul carattere innovativo delle disposizioni dioclezianee, vedi M. Lauria, Sull’appellatio, in AG 97 (1927), 7 ora in Studii e ricordi, Napoli 1983, 69, soprattutto in base a D. 34.9.5.12, in cui Paolo riferisce che sarebbe incorso in indegnità il giudice di primo grado, la cui decisione in materia di falso testamentario fosse stata riformata in sede di gravame: secondo il Lauria, ciò sarebbe stato possibile solo per il caso di una riforma senza necessità di nuove prove. A favore, invece, di una ammissibilità di nuove prove in un momento successivo alla fase introduttiva del giudizio già in età severiana, soprattutto in forza al passo ulpianeo, D. 49.1.3.3, in cui è previsto che sia possibile coltivare la propria domanda giudiziale quibuscumque modis, vedi Linares Pineda, “persequique provocationem suam quibuscumque modis potuerit, in Estudios Hernandez Tejero, 2, Madrid 1994, 343 ss.
[17] Barbati, Studi, cit. 74.
[18] J. Gaudemet, Constitutions constatiniennes relatives à l’appel, in ZSS 98 (1981), 64, ora in Droit et société aux derniers siècles de l’Empire romain, Napoli 1992, 84.
[19] W. Litewski, Consultatio ante sententiam, 251, in ZSS 86 (1969), 251; F. De Marini, Diritto e giustizia nell’Occidente tardoantico, in La giustizia nell’alto medioevo (sec. V-VIII), 1, Spoleto 1995, 111,
[20] W. Litewski, Die römische Appellation in Zivilsachen, 4, in RIDA 15 81968), 262.
[21] Sull’obbligo del iudex a quo di esprimere una opinio nel processo d’appello della cognitio extra ordinem, vedi già Macro (D. 49.5.6: “opinionem suam confestim manifestare”) e il paragrafo 3 del già citato editto di Diocleziano dell’anno 294 (C. 7.62.6: “opiniones suas iudices exemplo appellatoribus adito ac refutatorias eorum ad scrinia quorum interest transmittant). In argomento, Orestano, L’appello civile in diritto romano, Genova 1952, 381 ss.
[22] C.Th. 11.30.1. Imp. Contantinus A. ad Claudium Plotianum correctorem Lucaniae et Brittior(um). Si in negotio civili cognitis utriusque actionibus pronuntiaveris te ad nostram scientiam relaturum, consultationis exemplum litigatoribus intra decem dies edi aput acta iubeas, ut, si cui forte relatio tua minus plena vel contraria videatur, is refutatorias preces similiter tibi aput acta offerat intra dies quinque, quam illi exemplum consultationis tuae obtuleris. Iam dicationis tuae est omnia, quae aput te vel aput alios gesta fuerint in eo negotio, consultationi tuae cum refutatoriis litigantis adnectere, ita ut scias et decem dies, intra quos edi consultationem oportet, et quinque, intra quos preces refutatoriae offerendae sunt, continuos debere servari. Nam quinque diebus transactis nec offerentem preces refutatorias litigatorem debebis audire, sed sine his, quoniam intra statutum tempus oblatea non sunt, gesta omnia ad nostram referre scientiam. Et cetera. Dat iii kal. Ian. Trev(iris) Constantino A. III et Licinio III conss.
[23] Sul contenuto del provvedimento, utili informazioni in R. Lizzi Testa, Senatori, popolo, Papi. Il governo di Roma al tempo dei Valentiniani, Bari 2004, 244 s.
[24] Sull’attività di controllo, da parte dei prefetti del pretorio, sul comportamento dei giudici ordinari, si leggano anche le successive cc. 2 CTh. 1.7 di Teodosio, Arcadio ed Onorio e la 10 CTh. 1.5 (=C. 1.26.4) di Valentiniano, Teodosio e Arcadio.
[25] Barbati, Studi cit., 163.
[26] La costituzione, come si ricava dalla subscriptio, è stata prelata ad una lettera del vicarius Hispaniarum cui era diretta, che così la rendeva nota. Non è possibile mantenere Verona come località di emanazione, come voleva il Mommsen (ad h.l.), sia perché Verona appare come il luogo in cui la costituzione è stata prelata e non data, sia perché l’imperatore Valentiniano fu a Verona solo di passaggio, nell’ottobre 364, durante il viaggio verso Milano (cfr., CTh. 12.1.68 e 11.31.1). Neppure plausibile la soluzione proposta dal Seeck (Regesten der kaiser und Päpste für die Jahre 311 bis 476 n. Chr., Stuttgart 1919, rist. Frankfurt 1984, 108), che ipotizza di correggere il luogo di emanazione in Gerona, non essendo possibile provare, allo stato delle nostre conoscenze, che questo fosse già il nome della località spagnola di Gerunda.
[27] Barbati, Studi cit., 80 s.
[28] Sono le parole di Mario Lauria nel risalente, ma ancora fondamentale lavoro dal titolo: Accusatio-Inquisitio. Ordo-cogniio extra ordinem-cognitio: rapporti ed influenze reciproche, in Atti della Regia Accademia di Scienza Morali e Politiche 56 (1934), 304 (ora in Studii e ricordi, Napoli 1983, 277).
[29] Per qualche ulteriore esemplificazione, mi permetto di rinviare all’autore Accusatio-Inquisitio: ancora a proposito della struttura del processo criminale in età tardoantica, in Studi di diritto romano tardoantico, Milano 2012, 349 ss.
[30] Barbati, Studi cit., 243 s.
[31] Si noti che la costituzione richiama un precedente provvedimento non conservato (Lex sancientibus nobis rogata est), su cui L’autore, La legislazione di Valentiniano e Valente (364-375), Milano 1993, ad h.l.
[32] Barbati, Studi cit., 248.
[33] In argomento, A. H. M. Jones, The Later Roman Empire (284-602), 1 Oxford 1964, che cito nella traduzione italiana di Petretti, Il Tardo Impero Romano (284-602), 2, Milano 1974, 674 ss.
[34] E’ eccessivamente riduttivo il giudizio espresso dall’autore in relazione al lavoro svolto, nel corso degli ultimi trent’anni, dall’Accademia Romanistica Costantiniana, con la pubblicazione della seconda serie dei Materiali per una palingenesi delle costituzioni tardoimperiali (Barbati parla di “primi timidi contributi di aspirazione palingenetica”: Studi, cit. 297).
[35] Barbati, Studi cit., 393.
[36] Barbati, Studi cit., 407.
[37] Maggiore valorizzazione avrebbero meritato i risultati del lavoro di Marialuisa Navarra, Riferimenti normativi e prospettiva giuspubblicistiche nelle Res Gestae di Ammiano Marcellino, Milano 1994.
[38] In argomento, per tutti, Vincenti, “Ante sententiam appellari potest”. Contributo allo studio dell’appellabilità delle sentenze interlocutorie nel processo romano, Padova 1986, 8 ss.
[39] G. Pugliese, Note sull’ingiustizia della sentenza nel diritto romano, in Scritti giuridici scelti. Diritto romano. 2, Napoli 1985, 732 nt. 5.
[40] A. Marrone, L’efficacia pregiudiziale della sentenza nel processo civile romano, in AUPA 24 (1955), 367 ss.
[41] Di notevole interesse, gli spunti al riguardo in F. De Marini, Praeiudicium, in NNDI 13 (1956), 543 s.
[42] R. Orestano, L’appello civile, cit., 364 ss.
[43] CTh. 11.30.43: Provocantibus multas nisi ex nostris decretis non patimur inponi.
[44] Non è chiaro cosa intenda Barbati quando scrive che i giudici inferiori inoltravano le impugnazioni al giudice superiore “con riserva” (Barbati, Studi, cit., 455).
[45] Di grande interesse, al riguardo, le riflessioni di F. Amarelli, Cristianesimo e istituzioni giuridiche romane: influenze, recuperi, in BIDR 100 (1997), 453 ss. e di L. de Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardo antico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, 20 ss.
[46] Avrebbe giovato alla trattazione (seppure senza diretto riferimento alle fonti citate nel testo) un maggiore utilizzo delle notizie ricavabili dal volume, a cura di M. Sargenti e R. Bruno Siola, dal titolo: Normativa imperiale e diritto romano negli scritti di S. Ambrogio. Epistulae, de officiis, orationes funebres, Milano 1991.
[47] Di grande utilità, in proposito, F. De Marini, Leggere gli atti dei martiri come documenti processuali, in Filologia e diritto nel mondo antico. Giornata di studio in memoria di Giuliana Lanata (29 ottobre 2009), Genova 2011, 79 ss.