L’art. 161 cpc e il diritto romano – Prof. Federico Pergami.
- Come è noto, l’art. 161 del nostro codice di procedura civile prevede che “la nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione. Questa disposizione non si applica quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice.”
Dal tenore tutt’altro che perspicuo della disposizione normativa emergono le difficoltà di distinguere le ipotesi in cui, in generale, la nullità delle decisioni giurisdizionali deve essere fatta valere con lo strumento dell’appello o del ricorso per Cassazione, da quelle in cui, al contrario, è esclusa la necessità di una nuova pronuncia per l’accertamento dell’improduttività degli effetti giuridici.
L’argomento trattato è l’art. 161 cpc e il diritto romano.
- Anche nel sistema processuale romano, fra i gravi e complessi problemi che si pongono nello studio della nullità delle sentenze, emesse all’esito di un procedimento giurisdizionale, spicca quello relativo alle modalità della sua rilevazione, se cioè, e con quali strumenti, fosse necessario esperire un autonomo ricorso per una censura ed un eventuale riesame della decisione priva di effetti giuridici, perché emanata per qualche aspetto irregolarmente, oppure, se, al contrario, l’improduttività dei profili processuali della pronuncia vulnerata operasse ipso iure, quale mero accertamento dichiarativo, senza la necessità di un nuovo vaglio giurisdizionale, neppure limitatamente all’esperimento di una fase ulteriore dello stesso giudizio.
Un problema che, ovviamente, non si poneva nel sistema processuale dell’ordo, nel quale, pur essendo chiara la nozione della possibile esistenza di vizi di cui poteva essere inficiato il procedimento giurisdizionale, mancava, però, per la natura stessa del giudizio, la configurabilità di un controllo da parte di un organo sovraordinato al giudice che aveva pronunciato le sentenze i mezzi per reagire contro la nullità.
Il possibile contrasto nell’individuazione e nell’utilizzo pratico dei mezzi di rilevazione della nullità di una pronuncia giudiziale, resa in violazione dei principi informatori dell’ordinamento, emergeva, al contrario, e con particolare evidenza, nel momento in cui, con la graduale diffusione delle cognitiones extra ordinem, fu introdotto, nel sistema processuale romano, un formale sistema di impugnazioni contro le decisioni dei funzionari imperiali e l’appellatio veniva utilizzata anche per l’accertamento della nullità delle pronunce giurisdizionali, come conseguenza, per certi aspetti, inevitabile della generalizzazione del nuovo concetto della possibilità di censurare le sentenze ritenute ingiuste o pregiudizievoli per la parte soccombente: un rimedio che pure avrebbe dovuto considerarsi superfluo di fronte ad una pronuncia priva del requisito dell’esistenza giuridica stessa (nec ulla sententia).
Le fonti testimoniano, infatti, con chiarezza l’esistenza di un simile contrasto e documentano come la tendenza a sottoporre a riesame anche una sentenza gravata da nullità fosse già largamente diffusa sullo scorcio del II e nel corso del III secolo, come si ricava dall’esame dei numerosi interventi imperiali del titolo che i compilatori giustinianei hanno raccolto sotto la rubrica Quando provocare necesse non est, C. 7.64, ma soprattutto, al di fuori di esso, con importanti provvedimenti normativi, attribuiti all’imperatore Caracalla ed espressamente finalizzati a contrastare una simile prassi processuale, che doveva apparire come un inutile appesantimento della struttura, già complessa, del nuovo sistema cognitorio.
- La soluzione reiteratamente adottata, con cui l’imperatore Caracalla mirava ad escludere l’avvio di un nuovo procedimento giudiziario, o quantomeno un successivo grado di giudizio, per la rilevazione della nullità di una sentenza, doveva essere comunque molto dibattuta e controversa, se la riflessione della giurisprudenza ci trasmette soluzioni pratiche a singoli casi specifici, nei quali, al contrario, si ammette la proposizione di uno specifico mezzo di gravame per l’accertamento della totale invalidità di una decisione giudiziale. Del travaglio normativo e giurisprudenziale di età severiana, le fonti più tarde hanno conservato, nelle raccolte ufficiali, tracce significative, seppure quantitativamente scarse.
- Nell’esperienza giuridica romana, dunque, il problema relativo necessità o meno dell’esperimento di un autonomo strumento per la rilevazione della nullità delle sentenze resta estremamente controverso, anche per la difficoltà di individuare, nelle disposizioni normative e nella riflessione della giurisprudenza, un criterio veramente sicuro per distinguere i casi in cui la nullità opera ipso iure da quelli in cui, invece, deve essere accertata giudizialmente: il problema emerge ancora nel moderno ordinamento processuale, come si ricava dal vigente art. 161 cpc, che ancora distingue, pur senza una precisa delineazione delle relative fattispecie considerate, le ipotesi in cui, in generale, la nullità delle decisioni giurisdizionali deve essere fatta valere con un autonomo strumento di reclamo, dalle ipotesi in cui non era necessaria una impugnazione, come per il caso di una sentenza priva della sottoscrizione del giudice: un vizio tanto grave da non richiedere, per l’accertamento dell’improduttività degli effetti giuridici, l’esperimento di un apposito mezzo di gravame, che la lunga riflessione del diritto intermedio qualificherà come querela nullitatis.