- L’esame delle fonti romane in tema di esecuzione della sentenza, nel quadro generale del sistema della cognitio extra ordinem, autorizza ad ipotizzare che il processo esecutivo, anche nel diritto classico, fosse sottoposto al controllo ed alla direzione di un organo, l’exsecutor sententiae, che, in considerazione dei poteri di cui era titolare, potremmo definire, con linguaggio moderno, giudice dell’esecuzione.
Di ciò si ha conferma nel lungo passo di Ulpiano, tratto dal terzo libro de officio consulis, raccolto in D. 42.1.15, nel quale, tratteggiando le modalità di svolgimento del processo esecutivo realizzato mediante la pignoris capio, si fa esplicito riferimento al ruolo ed alle funzioni dei giudici, incaricati di sovraintendere all’intera procedura. E’ qui, infatti, che, richiamando un rescritto di Antonino Pio, si dice che l’esecuzione delle sentenze emesse da iudices dati o da arbitri deve essere curata da chi li ha nominati, hi qui eos dederunt. Ed è nello stesso frammento che si precisa che i governatori provinciali sono competenti anche per l’esecuzione delle sentenze pronunciate a Roma, si hoc iussi fuerint.
E’ ancora nel seguito del passo che si chiariscono le modalità dell’esecuzione e degli interventi del giudice per risolvere gli eventuali incidenti, precisando, appunto, che sono i governatori provinciali a curare l’esecuzione dei provvedimenti.
Infine, sempre nella trattazione ulpianea, si attribuisce ai giudici dell’esecuzione, qui rem iudicatam exsequentur, la competenza a risolvere l’eventuale controversia sorta in ordine alla proprietà della res sottoposta a pignoramento, in seguito a contestazione di un terzo estraneo ed il provvedimento relativo viene qualificato come sentenza.
- Lo stesso Ulpiano, peraltro, aveva fatto esplicito riferimento ad un giudice dell’esecuzione anche in un altro passo, tratto dal libro trentacinquesimo ad edictum, riportato in D. 27.9.3.1: nel frammento, destinato a regolare un caso di apprensione del pegno, si fa, infatti, menzione di un ordine magistratuale, iussus magistratus vel praesidis.
Un analogo ordine di idee è espresso anche da Caracalla in varie costituzioni, nelle quali, per un verso, si fa esplicita riferimento all’organo su cui iussus iure sententiam exsequebatur (C.I. VII.17[18].2) e all’iussus eius, cui ius debendi fuit (C.I. VIII.22[23].1); dall’altro si specifica che l’esecuzione della sentenza è affidata al preside, qui rem iudicatam exsequi debet.
Alla luce delle fonti sopra richiamate, i funzionari giusdicenti ed i governatori provinciali ben potevano essere indicati come exsecutores, senza, con ciò, confondere l’attività sostanzialmente giuridizionale che, anche nel processo esecutivo, essi svolgevano, con quella, meramente ausiliaria, dei loro apparitores.
- Intimamente connesso con la funzione svolta in executivis dai funzionari imperiali, è il tema dell’appellabilità delle loro pronunce: tale problema, riflesso nel pensiero della giurisprudenza tardoclassica, poteva, infatti, assumere significato, indipendentemente dalla soluzione pratica offerta dai singoli giuristi, unicamente se posto in relazione ai poteri di natura decisoria affidati, nel sistema della cognitio, all’organo incaricato della direzione del procedimento destinato a dare esecuzione coattiva alla sentenza, l’exsecutor sententiae. Poteri che potevano essere anche di rilevante portata, come, ad esempio, nei casi in cui, come s’è visto sopra, l’exsecutor fosse chiamato a risolvere una controversia sulla proprietà del bene sottoposto a pignoramento (D. 42.1.15.4).
Fra le fonti che si occupano specificamente del problema, spicca un frammento di Macro, estratto dal libro primo De appellationibus: il frammento, nell’affermare, in apertura, il divieto dell’appello contro provvedimenti emanati nel corso nel processo esecutivo, conferma che tale procedimento era sottoposto all’autorità di un exsecutor sententiae, cioè di un giudice dell’esecuzione. Ma quello che più interessa mettere in luce, è indicato nel seguito del passo, in cui si qualifica l’exsecutor sententiae come colui che è titolare di potestas interpretandi, quale è, ad esempio, il praeses provinciae oppure il procurator Caesaris.
Emerge, così, nel processo esecutivo, la distinzione fra atti aventi natura giurisdizionale e decisoria, che sono il frutto dell’attività di organi dotati di potestas interpretandi della sentenza in corso di esecuzione ed atti che, al contrario, sono privi di contenuto discrezionale ed autonomo.
Il problema dell’appellabilità si doveva essere posto, evidentemente, solo in relazione agli atti ed ai provvedimenti del primo tipo, che il giudice dell’esecuzione poteva emettere nel corso del processo esecutivo: atti e provvedimenti contro cui, quantomeno nella riflessione dei giuristi tardoclassici, era vietato l’appello ed a cui doveva fare riferimento, oltre che Macro nel passo in esame, anche Paolo in un altro frammento tratto dal liber singularis de appellationibus, D. 49.5.7.2, relativo al divieto di appello contro il provvedimento del giudice che, per soddisfare il creditore, disponeva la vendita all’asta del bene sottposto a pignoramento.
- Dell’esistenza di un giudice dell’esecuzione, cui è affidato lo svolgimento del procedimento esecutivo, si hanno precise testimonianze anche nella legislazione tardoimperiale che, talvolta, mostra di rifarsi, anche in modo esplicito, ai principi elaborati, in materia, dalla giurisprudenza tardoclassica.
Il più rilevante riferimento è contenuto in due costituzioni di Costantino, le cc. 2 e 3 C.Th. XI.36, Quorum appellationes non recipiantur, che, trattando di una serie di ipotesi di inammissibilità dell’appello, menzionano anche il divieto di impugnazione ab exsecutoribus (c.2) e ab exsecutione o ab exsecutionibus (c. 3), cioè il divieto di appello contro i provvedimenti del giudice dell’esecuzione.
Tali provvedimenti, fermi i problemi palingenetici che essi presentano, consentono di affermare che, nella legislazione costantiniana, era generalmente previsto l’appello nel processo esecutivo.
Del resto, la generale ammissibilità del gravame avverso i provvedimenti emessi nel corso del processo esecutivo non costituiva una novità nel quadro del sistema processuale romano, essendo principio già acquisito e riconosciuto, come s’è detto, dai giuristi tardoclassici.
Più in generale, le fonti consentono di affermare che il provvedimento del giudice dell’esecuzione era sottoposto a riesame qualora concretizzasse un’erronea interpretazione della sentenza di merito, destinata ad incidere sulle modalità di esecuzione: in tutti i casi, peraltro, doveva trattarsi di provvedimenti aventi natura discrezionale e sostanzialmente decisoria.
E’ in questo senso, dunque, che ritengo corretto interpretare la legislazione tardoimperiale in materia di impugnazioni contro gli atti emessi dal giudice nel processo esecutivo: l’appello è ammesso solo contro gli atti del giudice dell’esecuzione aventi natura propriamente giurisdizionale, restando, invece, vietato in tutti gli altri casi.
Interpretazione, quest’ultima, perfettamente coerente con i rilevanti poteri e le significative attribuzioni che, in tutto il sistema della cognitio extra ordinem, come s’è visto, erano normalmente e regolarmente affidati all’exsecutor sententiae, cioè, appunto, al giudice dell’esecuzione.