Il bene e la cosa in senso giuridico: origine e significato dell’art. 810 c.c. di Federico Pergami
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1. Il libro terzo del nostro codice civile, dedicato al regime della proprietà, si apre, come è noto, con l’art. 810 che definisce il concetto di bene: “Sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti”.
Si tratta del risultato di una riflessione dei giuristi contemporanei, fra i quali è diffusa l’idea che la nozione di “cosa” preceda il diritto, laddove l’ordinamento giuridico, al contrario, considera esclusivamente il concetto di “bene”, con l’ulteriore conseguenza che tutti i beni in senso giuridico presuppongono il requisito della corporalità.
Nel sistema giuridico romano, emerge una realtà articolata e complessa: nelle classificazioni dei giuristi dei primi secoli dell’Impero, infatti, compaiono le cose “fuori patrimonio” (extra patrimonium) e le cose “non corporali” (res incorporales): classificazioni, occorre aggiungere, che sono state condivise e radicate, se esse ancora compaiono, identicamente ordinate, nelle Istituzioni di Istituzioni di Giustiniano.
- Le cose “fuori dal patrimonio” assumono significato se poste in relazione ad un’altra importante categoria, quella delle res communes omnium, cioè l’aria, l’acqua, il mare e il lido del mare, le quali provano che presso i Romani la “cosa” non è necessariamente “patrimoniale”, nel senso che in quel sistema giuridico esistono cose che non hanno un valore di mercato e alle quali non corrisponde, dunque, alcuna ricchezza.
L’alternativa patrimonialità o extra patrimonialità delle cose è avvertita come primaria nell’ordinamento romano, come è dimostrato dal fatto che essa è collocata prima di ogni altra: non è, dunque, un caso che si censiscano, tra le cose in senso giuridico, anche le cose prive di valore dal punto di vista economico, per quanto utilissime o addirittura vitali (come l’aria) e, perciò, come tutti sappiamo, proprie di tutti i cittadini, cioè communes.
Ciò che, in prima battuta, consente di revocare in dubbio la convinzione che, nel nostro attuale sistema giuridico, esista un unico modo di intendere il concetto giuridico di “proprio”, vale a dire attraverso l’esclusione di ogni altro soggetto, come avviene per gli altri diritto soggettivi privati.
Va detto che la categoria delle res communes omnium, quali l’aria e l’acqua provano come il diritto romano abbia considerato come cose giuridiche a pieno titolo anche le cose incorporali (quelle che neppure si possono toccare: res quae tangi non possunt), che però esistono in rerum natura e non soltanto quali artifici giuridici, quali il diritto di proprietà o il diritto di credito.
- Su tali basi normative, la sovrapposizione, concettuale e terminologica, fra “bene” e “cosa”, come delineata dall’art. 810 c.c., non pare trovare idonea giustificazione. In diritto romano, infatti, i beni (bona) erano assolutamente distinti dalle cose, come dimostra, fra l’altro, un famoso passo del giurista Ulpiano che ci informa dell’esistenza di un duplice significato del termine bona, uno civile e uno naturale (D. 50.16.49), per cui “i beni sono così detti in quanto beano, cioè rendono beati: beare significa essere utili”.
Indubbiamente esistono cose che sono, in questo senso (che è poi quello tuttora corrente nel linguaggio economico) anche beni: ma la riduzione delle cose a beni, effettuata dal nostro ordinamento, non trova fondamento nell’esperienza romana.
I confini delle res, infatti, nella matrice della nostra tradizione giuridica antica, non erano semplicisticamente funzionali all’appropriazione egoistica e utilitaristica: il pater difendeva la sua terra, perché rappresentava la tradizione e, dunque, l’eternità della sua famiglia. Per questo motivo, Gaio inizia la sua trattazione con la disciplina delle cose sacre e religiose e, fra queste, il sepolcro costituisce la res privata per eccellenza perché, lascia intendere il giurista, un luogo diventa davvero nostrum quando vi abbiamo seppellito un morto della famiglia.
- Questa spiritualità delle cose sembra oggi irrimediabilmente perduta e la concezione che rinveniamo nel codice civile resta affidata all’interesse puramente economico, che fa coincidere la cosa con il bene, inteso quale frutto dell’attività materiale dell’uomo e della sua capacità di produrre ricchezza.