Damnatio memoriae: sanzione infamante o diritto all’oblio? di Federico Pergami
- Nell’epoca di internet, è attuale il problema, oggetto di vivo dibattito dottrinale e anche giudiziario – anglosassone, ma anche interno – relativo al diritto del cittadino di vedere interrotta la divulgazione, nel sistema mediatico, di notizie in qualche modo pregiudizievoli, quale corollario del diritto alla diritto alla riservatezza e alla privacy, in contrapposizione all’opposta esigenza del “diritto di cronaca” e della funzione giornalistica, sancita dall’art. 137 del Decreto legislativo 196/2003 .
Un’esigenza particolarmente sentita, a causa della possibilità di una incontrollata diffusione dei dati relativi alla sfera personale di un soggetto attraverso la indicizzazione di una pagina web.
Da qui, le crescenti istanze, per il cittadino pregiudicato dalle informazioni che incidono sulla sfera personale, con tutela anche di rango costituzionale, di ottenere un diritto all’oblio, cioè la definitiva cancellazione di ogni riferimento alla propria persona, soprattutto se in riferimento ad un accadimento, particolarmente lontano nel tempo, inidoneo a rientrare fra le notizie di interesse sociale o generale: la richiesta, cioè, di una morte civile, almeno su internet e sui social network.
- Seppure con presupposti e finalità differenti, il tema era già stato affrontato nel diritto romano: mi riferisco, in particolare, ad una delle sanzioni più efficaci nel sistema giuridico di età repubblicana, la “damnatio memoriae”, letteralmente condanna della memoria, che comportava, per il cittadino che ne subiva gli effetti, la totale eliminazione della memoria e addirittura l’abolizione del nome (abolitio nominis), che impediva la trasmissione del prenonem agli eredi, nonché la distruzione o la revoca degli atti compiuti in vita (rescissio actorum).
La pena era riservata ai traditori e ai nemici di Roma (hostits publicus) e del suo Senato, cioè a coloro che erano considerati tali sotto il profilo politico.
- In età imperiale, le modalità di applicazione della pena subirono un’involuzione degenerativa, poiché la sanzione venne applicata anche dopo la morte del soggetto condannato, specialmente nei confronti degli imperatori precedentemente in carica, cui il soggetto che irrogava la pena era succeduto.
Dalla damnatio memoriae discendeva, oltre alla pronuncia di indegnità, una serie di conseguenze infamanti, come quella con cui si stabiliva di fare trascinare il corpo del damnatus per la città, poichè ormai non più degno di toccare il suolo romano.
Analogamente era vietata una sepoltura dignitosa, come pure la possibilità, per i parenti, anche prossimi, di mantenere il lutto.
Il nome del condannato era cancellato dalle iscrizioni imperiali, come pure erano distrutte le statue e i templi eretti in suo onore: l’esposizione dell’immagine del damnatus era vietata nei funerali e nell’atrio familiare, a conferma della prassi, di epoca molto più antica, di coprire il volto del condannato, ormai estranei alla collettività perché indegni, prima dell’esecuzione della pena capitale.
- Si trattava, a ben vedere di uno strumento di lotta politica più che di un istituto con implicazioni di carattere giuridico, come dimostra la possibilità di documentate riabilitazioni che addirittura coincidevano, specialmente nell’età dei Severi, con la consacrazione del condannato e con la riviviscenza del valore giuridico degli atti rescissi.
- Il rigore della disciplina romana della damnatio memoriae, dunque, può assurgere a utile strumento di conoscenza di fronte alla urgente necessità –de iure condendo– di sancire il diritto all’oblio, una sorta di “morte civile” per il cittadino moderno, vittima della memorizzazione all’infinito delle informazioni, divenute prive del requisito della attualità e dell’esigenza di tutela dell’interesse collettivo.
Avv. Prof. Federico Pergami