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E’ noto agli operatori del diritto il dibattito relativo al concetto di giusto processo, la cui esatta identificazione, quale modello ideale, si presta ad interpretazioni spesso fra loro difformi, ove non addirittura fuorvianti rispetto all’effettiva finalità perseguita dal legislatore.
- Il caposaldo legislativo che attribuisce al cittadino il diritto ad un “processo equo” è costituito dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma il 4 novembre del 1950, dal seguente tenore: “Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole davanti ad un tribunale indipendente e imparziale e costituito per legge, che decide sia in ordine alla controversia sui suoi diritti e obblighi di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale derivata contro di lei”. Si tratta di un principio generale al quale ogni Stato membro del Consiglio d’Europa si deve attenere nella prassi dell’amministrazione della giustizia.
Alla predetta statuizione, il Protocollo di Strasburgo del 1994 ha aggiunto la specifica rubrica denominata “Droit à un procès équitable, che è stata tradotta in italiano nella locuzione: “Diritto ad un processo equo”.
- Il nostro ordinamento interno, a seguito di un complesso e molto acceso dibattito parlamentare, ha recepito le indicazioni sovranazionali, giungendo alla emanazione della legge costituzionale (G.U. 23.12.1999), in forza della quale è stato integrato l’art. 111 della Carta Costituzionale, la cui nuova versione prevede che: “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo di svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.
Perché un processo possa definirsi giusto, come si evince dal tenore del richiamato articolo e dalle correlate decisioni della Corte Europea dei diritti dell’uomo, occorre, oltre al rispetto formale delle regole procedurali, che il processo risponda a una serie di requisiti, che si sostanziano nella indipendenza e imparzialità del giudice, nella pubblicità dell’intero procedimento, nel contradditorio fra le parti e nella conseguente “parità d’armi” fra i contendenti, nonchè nella ragionevole durata dei tempi processuali.
- E’ opinione diffusa, autorevolmente sostenuta da studiosi dell’esperienza processuale non solo italiana, che il diritto ad un giusto processo derivi dalla prassi giudiziaria anglosassone dei sistemi di common law, segnatamente in base all’esigenza, particolarmente sentita in quella realtà giuridica, di quello che è noto come “right to a fair trial” (è questa la traduzione inglese, resa dal Consiglio d’Europa, dell’art. 6 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo), indipendentemente dalla natura -prevalentemente accusatoria o inquisitoria- dell’impianto processuale.
A ben vedere, però, l’aspirazione ad un giusto processo risale all’esperienza giuridica romana, che sottolinea come tal esigenza fosse particolarmente sentita, sia sul piano terminologico, sia in relazione al concreto svolgimento dell’attività giurisdizionale, che mirava, per tale via, all’affermazione della iustitia.
Appare persino sorprendente come la terminologia utilizzata nell’esperienza giuridica romana trovi riscontro con quanto stabilito nella nostra carta costituzionale: sia sufficiente qui richiamare lo svolgimento dei processi nel sistema delle quaestiones perpetuae epoca classica, in particolare il caso di Aulo Cluenzio Abito, accusato dell’avvelenamento del padre e difeso da Cicerone, che aveva denunciato il clima di sospetto e di condizionamento dell’opinione pubblica, destinato a compromettere la decisione della giuria popolare.
E’ nel quadro di tali complesse vicende processuali che il retore non esita a precisare che non ogni giudizio, anche se formalmente svolto nel rispetto delle regole di un rito accusatorio, può definirsi equo (“aequum iudicium”: pro Cluentio 3.7): tale qualifica, infatti, si attaglia esclusivamente alla vicenda processuale in cui il dibattito fra accusato e accusatore si svolga in condizione di assoluto ed effettivo equilibrio fra le parti (“aequa condicio”: pro Cluentio 34.94) e può essere utilizzata esclusivamente nel caso in cui la parità d’armi costituisca il canone interpretativo dell’intera processo.
Solo un giudizio improntato ad una generale condizione di parità, dunque, precisano ancora le fonti romane, assicura una decisione equa, frutto del convincimento del giudice formatosi all’interno del dibattimento, senza condizionamenti esterni o prove precostituite, da parte di un tribunale terzo e imparziale. Ma neppure questo è considerato sufficiente a Roma per l’affermazione di un giusto processo: perché un giudizio possa definirsi tale, occorre il rispetto di una ragionevole durata dei tempi processuali, poiché l’anomalia di un processo troppo lungo vanifica l’aspirazione della politica giudiziaria romana: è a proposito di questo principio che Cicerone, nell’orazione pro Caecina, parla di denegata giustizia per il caso di un atteggiamento dei giudici destinato a concretizzarsi in un tardisisme iudicare (pro Caec. 2.7).
Anche nel settore processuale, dunque, l’esperienza giuridica romana costituisce viatico imprescindibile per un’esatta comprensione del diritto positivo e, per quanto rileva ai fini della presente nota, per una corretta “lettura” della nuova formulazione dell’art. 111 della Costituzione, i cui dettami si modellano, in modo esplicito, sui principi enunciati nell’esercizio dell’attività giurisdizionale del diritto romano.
Prof. Federico Pergami
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