Di che cosa propriamente parliamo, quando parliamo di tardo antico?
Che il termine faccia convenzionalmente riferimento ad un periodo di transizione dal mondo antico a quello medievale è circostanza comunemente accreditata, per meglio dire scontata.
E che tale arco temporale sia stato oggetto di opposte analisi, come quella pessimistica dello Stilicone che Santo Mazzarino pubblicò nel pieno del II conflitto mondiale, è circostanza sin troppo nota. Se poi volessimo inforcare gli occhiali del giurista di jemoliana memoria allora si manifesterebbe al nostro sguardo un periodo storico che se letto come raccolta delle edictales generalesque constitutiones, cui il programma culturale di Teodosio il Grande era proteso ad imporre, si ridurrebbe ad appendicula della giurisprudenza romana classica, nella quale i giuristi rivestivano (a detta loro) gli abiti curiali di indiscussi sacerdotes iuris.
Ma evitando di impantanarsi nel solco tracciato da deformanti interpretazioni di un periodo storico che per la sua stessa onomastica pare connotato da buio e decadenza, Federico Pergami restituisce alla contraddittorietà caratterizzante il IV secolo d.C., che trovò in Ammiano Marcellino, come credeva Arnaldo Momigliano, uno dei suoi cantori più paradossali e per ciò stesso più congeniali, la sua profondità storica. E vi riesce indicando al lettore la corretta prospettiva storiografica con la quale immergerci in una realtà caleidoscopica e in continuo divenire, che difficilmente imbrigliabile in periodizzazioni forgiate a tavolino.
Se è vero – ed è vero – che la libertas repubblicana rappresentava oramai un lontano ricordo del passato, essendo stata definitivamente schiacciata dalla voluntas principis, non si deve comunque ritenere, come avviene, che il nuovo inafferrabile Volkgeist si manifestasse solo nelle grandiose raccolte legislative ufficiali. Lo spoglio attento compiuto dall’autore delle fonti non solo giuridiche, ma anche letterarie, papirologiche ed epigrafiche dimostra, infatti, l’esatto opposto. Sarebbe, pertanto, del tutto in errore il lettore frettoloso che presumesse di trovarsi tra le mani l’ennesima ricognizione sulla convulsa legislazione del basso Impero.
Lo studioso attraverso un respiro dilatato e denso di stimoli, reso possibile dal connubio tra formazione giuridica e sensibilità storica/filologica, offre una attenta disamina su problemi dell’impero romano sotto il Dominato, che per la loro eterogeneità assumono profondo interesse non solo per gli storici del diritto, ma anche per gli storici tout court.
Ma non solo.
Grazie alla sua quotidiana frequentazione delle aule di giustizia come “avvocato di razza”, l’autore giustifica lo studio dell’esperienza giuridica del Tardo Antico come strumento professionalizzante il bagaglio culturale dei giuristi di domani. Sin troppo noto il fatto che proprio allo sviluppo della cognizione straordinaria è da ricondurre il nostro sistema processualistico, penale e civile. Ed infatti la maggior parte del volume è dedicata a dimensioni del giuridico che impegnano tutt’oggi i cultori del diritto positivo: dalla ambigua natura della cognitio extra ordinem come procedura che registra come registi del processo talora le parti in lite tal altra lo iudex, alle categorie della negozialità declinata attraverso le costruzioni moderne della nullità ed inefficacia contrattuale sino al trattamento giuridico del patrimonio immobiliare.
Temi che riversano nell’attualità tutta la loro inesauribile complessità.
D’altronde, l’autore, riconosciuto dalla comunità scientifica come una delle voci più autorevoli sulla Tarda Antichità, ha da sempre focalizzato la propria attenzione su argomenti spesso dimenticati dalla dottrina dominante, che, lungi dall’essere sterili curiosità antiquarie, sono stati adoperati quali chiavi di volta per aprire scenari del tutto inediti su aspetti di ermeneutica giuridica che hanno innervato lo sviluppo del diritto.
Si pensi ai fondamentali studi sull’appello richiamati nel primo capitolo delle pagine che seguono. Un istituto a cui Federico Pergami ha dedicato riflessioni importanti che rappresentano un punto obbligato di partenza per chi voglia accingersi con simile impervio argomento e i cui risultati offrono densa materia di discussione. A dir poco curioso appare, ad esempio, il fatto che tanto ampli e dettagliati siano stati gli studi in materia di provocatio – appellatio, concetti che seguendo la prospettiva del Mommsen si sarebbero unificati sotto l’Impero, quanto esigui restani i contributi dedicati all’appello nel processo privato, circoscritti essenzialmente alla monografia dell’Orestano risalente ai primi anni ’50, al Princeps iudex del Kelly, o alla trattazione manualistica del Das römische Zivilprozeßrecht di Kaser e Hackl. Orbene, Pergami ha provveduto a colmare simili lacune nel suo L’appello nella legislazione tardo imperiale (Milano, 2000) ed oggi integra le conclusioni ivi raggiunte. Lo fà tesaurizzando le tesi di Wenger e, per certi aspetti, di Riccobono, ed evidenzia con precisione i criteri che informavano il secondo grado di giudizio, che a seguito dell’energico intervento dioclezianeo si era cristallizzato come strumento devolutivo dell’intera controversia da parte del giudice di seconde cure. Questione di non poco conto, se si pensa sia che la circostanza che la sentenza di secondo grado potesse aver luogo anche in presenza di impugnazione su decisioni emanate in forza dei diritti locali irradiava corposi riflessi di carattere sostanziale oltre il perimetro del singolo giudizio, fissandosi come principio suscettibile di applicazioni diverse. Sia che il giudicante investito del gravame in applicazione del diritto romano era inevitabilmente costretto a tenere conto di talune tendenze di origine orientale recepite in chiave etica nell’attività normativa imperiale e ad innalzarle a livello di regula iuris.
Appare d’altra parte non poco significativo il fatto che nella romanistica risulta spesso trascurato il fatto che tanto l’affermarsi del rescritto quanto l’incremento del numero di appelli si localizzino storicamente durante i regni di quanti si occuparono della fortificazione delle frontiere.
Basti pensare al riguardo al regno di Adriano profondamente accentratore e basato sulla “politica del muro” diretta a separare il mondo romano da quello barbarico, ma indirettamente provvisto dell’effetto di unificare il mondo romano posto all’interno del vallo stesso. Non a caso con Adriano, che assunse appellativi quali Olimpo e Panelleno, si ebbe l’estensione alle classi dirigenti orientali della cittadinanza romana, la concessione del connubium ai veterani, la politica dell’erroris causae probatio e, in linea di massima, la tendenza ad estendere la romanizzazione fino a culminare, nell’età dei Severi, con la Costituitio Antoninana.
In queste pagine Pergami dà atto della unificazione autoritativa di Diocleziano e di Costantino tra loro profondamente diverse (sol che si pensi alla concezione patrimoniale del potere dell’autore dell’editto di Milano), che posero fine al variare tra Adriano ed i suoi successori dei motivi ispiratori sia dei rescritti sia della politica dell’appello.
Con questi studi si dimostra come sotto la politica legislativa di Diocleziano si collochi il riassetto definitivo del processo civile anche, ma non solo, in campo probatorio, così illuminando la portata innovativa delle novelle dell’imperatore dalmata, che mirava a «rafforzare una struttura imperiale, squassata da pressioni esterne e forze disgregatrici interne» (pag. 20). Ma nell’evidenziare simili aspetti l’autore non se ne sottace uno ben diverso ed altrettanto importante: la funzione dello iudex nel processo tardo imperiale, ed in particolare la sua dialettica con le parti in giudizio relativa, soprattutto, alla regolamentazione degli impulsi istruttori del processo.
Di vivo interesse anche l’attenta ed organica ricostruzione circa la legislazione tardoantica in merito alla difesa frontaliera, nella quale lo studioso indaga, i meccanismi e le dinamiche attraverso cui il potere imperiale, ha tentato con alterne fortune di fronteggiare la pressione nemica che cercava uno sfondamento sul limes. In particolare, ponendo attenzione a plurimi provvedimenti della cancelleria imperiale accolti nel Teodosiano e relativi all’erogatio dell’annona ai soldati impegnati nelle campagne militari. Interventi dello “Stato” più genericamente volti a moralizzare e rendere meno gravosa la gestione delle spese militari.
Riuscendo a scavare con profitto nella prassi legislativa di allora Federico Pergami torna su un tema a lui caro anche perché ha segnato i suoi primi passi nella romanistica: l’unità o la separazione legislativa nella realtà tardoantica, con particolare riferimento alla coreggenza di Valentiniano e Valente.
Riprendendo le posizioni espresse al riguardo dal Mommsen e dalla Nagl, i quali individuarono nella politica di Valentiniano una generale volontà unitaria diretta ad evitare uno smembramento dell’Impero, e attraverso una lettura di sintesi delle testimonianze antiche, lo studioso svela punti critici della dottrina che si è interrogata da lunghissimo tempo su tale argomento, ed evidenza come si possa effettivamente identificare in Valentiniano il cardine dell’azione politico-militare di tutto l’Impero, poiché da lui appaiono dipendere le sorti anche della parte governata da Valente. Ciò pare convalidato dal dato per cui tra le oltre quattrocento costituzioni raccolte nel Codice Teodosiano solo poco più di settanta, sia per luogo di emanazione che per il destinatario, possono ricondursi alla pars Orientis.
La cifra metodologica che da sempre contraddistingue Federico Pergami, come detto, è la sua costante tensione ad una controllata disamina diacronica tra l’esperienza giuridica antica e quella contemporanea. Un controllo e una prudenza nell’interpretazione delle fonti che consentono allo studioso di non cedere a facili e sterili parallelismi tra esperienze giuridiche distanti millenni. Rifuggendo, pertanto, dalla malía esercitata sui ricercatori da una tanto ingenua quanto pericolosa descrizione comparativa tra istituti romani ed attuali, volta a trovare, ad ogni costo, punti di sutura tra le due realtà, lo studioso analizza la patologia negoziale nella tarda antichità, facendo proprie le parole di Antonio Guarino, per il quale «in nessuna epoca del diritto romano si formò mai una consistente dottrina, una compiuta teoria generale del negozio giuridico in quanto tale» (Diritto privato romano, Napoli, 200111, pag. 339). Forte di questa prospettiva euristica, e di questo taglio metodologico, l’autore oppone alle categorie dogmatiche di Ungültigkeit e di Unwirksamkeit di formazione pandettistica quella più propriamente romana di inutilitas (invalidità/inefficacia) e nel caso opposto di utilitas. Dopo una preziosa ricognizione sulla teoria generale del negozio giuridico nelle fonti giustinianee, il flusso argomentativo della ricerca sgorga dall’esame di un importante testo di epoca tardo antica che si occupa per l’appunto della disciplina della patologia degli atti negoziali, più precisamente Nov. Theod. 9 (a. 439) parzialmente riportata nel Codice di Giustiniano nel titolo De legibus et constituionibus principum et edictis (1.14.5). Ben sottolinea al riguardo come dal corpo della Novella si possa trarre una elaborata disciplina che si poneva in contrasto con la rigida alternativa tra validità ed inesistenza che aveva informato tutta la riflessione della giurisprudenza romana in materia.
Viene poi messo opportunamente in luce come l’accentramento del potere rese sempre più pressante il tema della gestione del patrimonio immobiliare imperiale, inteso come res privata principis, settore strategico dell’amministrazione centrale, la cui funzione consisteva nella gestione dei beni appartenenti allo Stato e nella riscossione e nell’impiego delle relative rendite. Dall’analisi congiunta delle fonti emerge una legislazione quanto mai contraddittoria che conobbe alterne fortune ma che testimonia indiscutibilmente la centralità dell’argomento nella riflessione della cancelleria imperiale stante la stringente preoccupazioni dei sovrani circa l’afflusso di denaro nella casse imperiali.
Numerosissimi, pertanto, i pregi di questo libro, peraltro in parte già evidenziati, in modo più o meno esplicito, nella rapida ricognizione del suo contenuto. E su tutti risalta la solidità del metodo d’indagine che si sviluppa secondo coordinate euristiche di estremo impatto teorico. Molteplici sono, dunque, le suggestioni e gli stimoli a riflettere sollecitati dalla lettura di quest’opera, che si inserisce appieno e nel migliore dei modi nel solco tracciato da Manlio Sargenti, compianto Maestro di Federico Pergami, di cui l’allievo tratteggia un accorato itinerario scientifico, augurandosi di seguire degnamente il suo esempio. Ebbene, caro Federico, proprio pensando al Tuo Maestro, se chi possiede una autentica autorevolezza illumina la strada non a sé stesso, ma a chi si pone alla sua sequela, ben meritando l’elogio dantesco: Facesti come quei che va di notte / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte (Purg. XXII.67-69) rassicurati del fatto che il percorso che stai tracciando da diversi anni nello studio della Tarda Antichità sta rischiarando la giusta direzione a quanti vogliano dedicarsi con serietà e dedizione a una così affascinante materia.
Prof. Antonio Palma – Professore ordinario di Istituzioni di diritto romano
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