Jeremy Bentham ci propone l’utilitarismo giuridico, in qualche misura seguito da Austin: secondo i filosofi del diritto, questa dottrina afferma che una condotta è moralmente corretta quando aumenta la felicità del maggior numero di persone.
Ci viene anche insegnato che l’utilitarismo giuridico o, più precisamente, il principio di utilità – che ne costituisce il nucleo fondante – rappresenta un principio morale valido universalmente e giustificabile razionalmente.
Premesso che sono interessato alle discipline giuridiche, mentre ignoro tutto della filosofia, per cui mi muovo a disagio nell’ambito di tale categoria, noto comunque che il principio in argomento si è arricchito di ulteriori due qualificazioni definitorie: l’universalità e la razionalità.
Sul primo predicato, nulla quaestio: a qualunque ramo della conoscenza appartenga, nessuno costruisce una teoria per limitarne l’applicazione ad alcuni soggetti, anziché a tutti i consociati.
Desta viceversa elementi di non indifferente perplessità la compatibilità del binomio moralità-razionalità e, peggio ancora, l’accostamento della moralità all’economicità.
Il primo insegnamento che una matricola della facoltà di economia riceve è che si tratta di una disciplina amorale, si badi non immorale, poichè il concetto di utilità marginale si fonda sul principio dell’egoismo, spinto fino al sacrificio altrui.
Principio, quest’ultimo, che trova, del resto, accoglimento in una norma del nostro sistema positivo: si tratta del noto istituto dello stato di necessità, in ordine al quale l’art. 54 cod. pen. ci precisa che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sè od altri dall’involontario pericolo di un danno grave e inevitabile alla persona.
Tali canoni comportamentali, che rientrano nel campo della razionalità, mal si accordano, come si è potuto osservare, con il principio di moralità generalmente riconosciuto, atteso che sono fondati essenzialmente su una caratteristica diametralmente opposta alla morale altruistica: l’egoismo eretto a sistema di vita, senza altra morale che il proprio benessere, salva solo l’adesione al principio dell’evitare che il proprio comportamento urti contro prescrizioni inibitorie munite di sanzione negativa.
Va d’altronde considerato che l’utilitarismo richiama inevitabilmente il concetto di egoismo, ossia di auto-soddisfazione, che può essere riferito ad un soggetto singolo o ed una pluralità di individui, ma che contrasta in maniera evidente, quanto insostenibile, con il concetto di universalità.
In definitiva, le sopra richiamate specificazioni non si rivelano di qualche utilità nell’identificazione del dato centrale del principio qui in commento, ossia se la moralità della condotta (recte se la correttezza morale della condotta) può essere o meno condizionata dai risultati che da essa conseguono a carico di soggetti non appartenenti alla maggioranza beneficiaria di una maggior felicità: applicando i criteri informatori della morale corrente (non saprei come meglio definirla in termini più propriamente filosofici) la risposta parrebbe dover essere negativa.
Se, viceversa, il raggiungimento dello scopo – l’aumento della felicità del maggior numero di persone – predica di moralità (di correttezza morale) la condotta, qualsiasi condotta che attinga a tale risultato, in virtù di una sorta di vis extensiva, l’effetto riflessivo della moralità della condotta neutralizza, per così dire, eventuali conseguenze di segno contrario (negativo).
In concreto non mi è dato conoscere se ed in che misura le concezioni giusutilitaristiche derivate dal pensiero di Bentham e accolte da Austin siano effettivamente recepite in sistemi positivi vigenti.
Questa nota, peraltro, pone il giusutilitarismo in netto contrasto innanzitutto con il giuspositivismo ideologico, atteso che nella visione istituzionale di questa corrente non esistono giudizi valutativi e, se esistessero, non potrebbero che derivare dal complesso delle norme positive costituenti l’ordinamento giuridico vigente in quel determinato momento spazio-temporale.
In realtà, la tesi portante della visione utilitaristica del diritto disattende la pietra angolare dell’ortodossia giuspositiva, il formalismo giuridico, secondo il quale il diritto è costituito unicamente da precetti normativi che non sopportano alcuna valutazione in termini morali, ma solo di validità formale.
In definitiva, la teoria in argomento si presenta come un modello sui generis che, anche storicamente e nonostante il prestigio dei padri ideatori, si è perso per strada.
Patrocinante avanti alle Magistrature Superiori
Professore presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi