- Il tema dello ius novorum in appello continua a suscitare una vivace disputa dottrinale e giurisprudenziale nel nostro ordinamento giuridico: ne è prova la recente ordinanza della Suprema Corte di Cassazione, la n. 1244 del 20 febbraio 2019, che ha sancito come “non sussista violazione del principio del divieto di ius novorum in appello, stabilito dall’art. 345 cpc., nell’ipotesi in cui il giudice di appello, nel rispetto dei termini della controversia delineati in primo grado, accolga la domanda sulla base di una diversa qualificazione giuridica dei fatti, già implicitamente o esplicitamente acquisiti al processo”.
- Sebbene la pronuncia sia stata accolta come esempio di un principio innovativo dell’intero sistema processuale, va detto che si tratta di una conclusione cui erano già pervenuti, dopo attenta riflessione e approfondita indagine ermeneutica, i giuristi romani.
- Il tema delle nuove prove in appello fu affrontato, in particolare, dall’imperatore Diocleziano, in un provvedimento normativo dell’anno 294, raccolto nel Codice di Giustiniano (C. 7.62.6) nei paragrafi 1 e 2 della disposizione normativa, infatti, sono dedicati alla disciplina dei nova in appello, cioè alla possibilità di introdurre nuove deduzioni e nuovi elementi di prova nel giudizio di seconda istanza.
Anzitutto, la disposizione consente alle parti di integrare in sede di appello le allegazioni che fossero state omesse nel giudizio di primo grado, con la deliberata finalità di ottenere la iustitia che costituisce, afferma l’imperatore, la finalità del processo e l’obiettivo del suo governo.
In secondo luogo, viene ammessa la possibilità delle parti di richiedere, anche dopo avere interposto gravame, nuove prove testimoniali che siano utili per l’accertamento della verità, con l’unica condizione che, se questi nuovi mezzi di prova saranno ammessi, sia la parte richiedente a sopportare le spese di viaggio dei testimoni.
- In verità, le fonti a nostra disposizione non consentono di affermare con sicurezza se tale regime sia stato introdotto dall’editto dioclezianeo in esame oppure, al contrario, costituisca la formale attestazione normativa di princìpi che già vigevano nella prassi dei tribunali in epoca anteriore: si è sostenuto in dottrina, anche grazie al tenore letterale di un brevissimo frammento di Paolo (D. 34.9.5.1), che conterebbe un’ipotesi di riforma della sentenza senza l’utilizzo di nuove prove, che l’ampiezza delle motivazioni della norma dioclezianea farebbe pensare che le disposizioni in essa sancite costituissero una assoluta novità nel processo civile di epoca romana.
- A ben vedere, però, il passo di Paolo non sancisce esplicitamente il divieto di allegazione di nuove prove nel secondo grado di giudizio, poichè la riforma della sentenza di primo grado, oggetto della fattispecie riferita dal giurista, poteva essere la conseguenza -esattamente come affermato nell’ordinanza della Cassazione qui in commento- di una diversa valutazione dei profili giuridici del caso sottoposto al giudice di prima istanza, senza necessariamente comportare l’esame di nuovo materiale probatorio non offerto in atti nel primo grado di giudizio: si tratta, dunque, dell’identico principio sancito dalla Corte Suprema, allineatasi -dobbiamo credere, del tutto involontariamente- agli esiti della riflessione della giurisprudenza romana in tema di ius novorum in appello.
Patrocinante avanti alle Magistrature Superiori
Professore presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi