1. Nel sistema processuale romano, alla dichiarazione di ammissibilità dell’impugnazione da parte del giudice inferiore, conseguiva la devoluzione della causa al giudice ad quem gerarchicamente superiore, il quale ne era investito per un’autonoma decisione rispetto a quella di primo grado.
Il principio dell’effetto devolutivo conseguente all’appello era normativamente affermato nell’editto di Diocleziano dell’anno 294, contenuto in C. 7.62.6 pr., nel quale, infatti, è sancita con insistenza la regola secondo cui, una volta proposta l’impugnazione da parte del soccombente, non era possibile rimettere la controversia al giudice a quo e vi si stabilisce che il giudice superiore, una volta investito della controversia, deve decidere omnem causam con la nuova sentenza d’appello.
La disposizione normativa, il cui contenuto viene ribadito per ben tre volte, quasi con identiche parole, richiama la salubritas legis constitutae, lasciando intuire che il principio dell’effetto devolutivo dell’appello, in base al quale il giudice superiore non poteva approfittare di una occasio per rimettere la lite al iudex a quo fuerit provocatum, operava, e non solo nella prassi, anche nel sistema processuale di epoca anteriore.
In realtà, il precedente normativo, cui l’editto dei Tetrarchi fa esplicito riferimento e che doveva essere frequentemente disatteso, considerando l’insistenza con cui viene ribadito, non può essere individuato con sicurezza.
Un cenno, sia pure generico, è possibile rintracciare in un passo di Modestino, D. 50.16.106, nel quale è affermato che la controversia, ad eum qui appellatus, est dimittitur, mentre più espliciti, nel descrivere lo svolgimento di un nuovo giudizio conseguente all’impugnazione, sono Scevola, il quale parla di cognitio appellationis (D. 4.4.39 pr.) e Papiniano, che definisce quale iudex appellationis il funzionario imperiale di fronte al quale tale nuovo giudizio si svolgeva (D. 2.14.40.1).
Particolarmente interessanti nella legislazione tardoantica, sono i richiami al principio in base al quale l’impugnazione costituiva lo strumento per un riesame della controversia in secondo grado: ne costituisce una significativa testimonianza il tenore della costituzione dell’anno 315, la c. 3 CTh. 11.30, con cui l’imperatore Costantino, invitando, in generale, ad audire gli appelli ut edicto quod super appellationes negotiis finiendis iam generaliter constitutum est, esortava il destinatario del provvedimento, il proconsole d’Africa Probiano, cui era rimessa la lite in secondo grado, ad explicare quam maturissime eadem negotia.
2. Intimamente connesso al tema dell’effetto devolutivo, poiché ne costituisce una diretta applicazione pratica, è il problema relativo alla possibilità o meno, ed entro quali limiti, di introdurre nella seconda fase processuale elementi nuovi e diversi da quelli proposti in prime cure.
Il problema non sembra sia stato affrontato in termini generali dai giuristi romani, ai quali è dovuta la necessariamente tarda elaborazione dei principi che erano venuti affermandosi nella prassi del processo d’appello durante il Principato e, a sua volta, la dottrina romanistica non è concorde nel decidere quale fosse, sotto questo profilo, il carattere del giudizio, di impugnazione. La maggioranza degli autori è incline a ritenere che l’appello aprisse l’adito ad un nuovo giudizio, ma non è concorde nel definire in quali limiti questo potesse svolgersi e, a parte le decisioni di casi concreti dalle quali può desumersi che l’appello portasse ad un riesame dell’intera controversia anche, eventualmente, con nuovi profili, il suo punto di riferimento più concreto è, in definitiva, il sintetico accenno di Ulpiano (D. 49.1.3.3) alla possibilità che l’appellante perseguisse il proprio intento di riforma della sentenza che l’avesse visto soccombente, quibuscumque modis.
La risposta a simili interrogativi non può essere, comunque, univoca.
Per un’esatta impostazione del problema, è necessario, anzitutto, distinguere i vari aspetti che il ius novorum poteva assumere, al cui proposito si pone la fondamentale differenziazione tra la possibilità di introdurre nella seconda fase del processo nuove domande, nuove eccezioni e nuove allegazioni di fatto, con la conseguente necessità di nuovi mezzi di prova. Ma è, del pari, necessario distinguere i vari momenti del processo storico, che è l’aspetto del problema meno considerato dalla dottrina.
3. Un primo dato relativo al problema delle nuove domande in appello è quello che si incontra nell’editto del 294, C. 7.62.6.1, nel quale si affermava che si quid in agendo negotio minus se adlegasse litigator crediderit, ciò che era stato omesso potesse esser fatto valere apud eum qui de appellatione cognoscit, concessione che il legislatore motivava con l’intento di assicurare il pieno conseguimento dell’obbiettivo di giustizia che considerava essenziale come scopo del processo nel quadro della sua politica di governo.
A questa norma è stata data, in genere, un’interpretazione alquanto restrittiva attribuendole, in sostanza, il solo effetto di rendere possibile la deduzione in appello di nuovi mezzi di prova o, al massimo, di eccezioni perentorie non dedotte in primo grado.
Io credo, però, che tali conclusioni meritino qualche approfondimento. Le parole del testo edittale, infatti, possono prestarsi ad un’interpretazione meno rigida, poiché il quid minus litigator se adlegasse crediderit potrebbe indicare qualunque elemento, di fatto o di diritto, non dedotto in primo grado. Ed è quantomeno necessario un esame più attento prima di giungere ad escludere che tale fosse stato, in realtà, l’intento del legislatore.
Che l’editto non estendesse alle nuove domande la possibilità di deduzione in appello potrebbe, in verità, desumersi dall’uso del termine adlegare, per indicare il quid minus che il litigator ritenesse di aver dedotto in primo grado e di dovere, perciò, integrare in appello.
L’espressione adlegare è usato, per lo più, nel linguaggio dei giuristi romani per indicare le ragioni, gli argomenti suscettibili di sostenere e fondare una domanda o un’eccezione.
Se anche nel redigere l’editto del 294, questa si è attenuta a tale significato del termine, se ne dovrebbe dedurre che il minus se adlegasse si riferisse, in effetti, solo alla carenza o insufficienza di deduzioni formulate in primo grado dall’attore a sostegno della domanda o dal convenuto nelle sue difese, fermo restando il loro contenuto.
Ma io credo che non si possa neppure escludere che con l’emanazione del testo normativo, che non doveva tener conto del caso concreto sottoposto alla singola decisone imperiale, ma affrontare il problema in generale, il legislatore volesse andar oltre l’ammissione di sole nuove deduzioni e a questo fa pensare il minus, che sembra alludere a qualche cosa di più, alla possibilità, cioè, di integrare in appello anche una domanda carente sotto il profilo quantitativo, per esempio con la richiesta di interessi, omessa in primo grado o con l’aumento dell’entità del petitum, somma di denaro o cosa determinata.
4. A maggior ragione e come è, del resto, diffusamente ammesso, il sistema della cognitio extra ordinem è incline ad ammettere l’invocazione in appello di eccezioni, quantomeno di quelle perentorie, che il convenuto avesse omesso nel giudizio di primo grado.
E’ stato autorevolmente sostenuto che tale regime fosse definitivamente attestato già all’età dei Severi, sulla scorta di un rescritto di Gordiano, riportato in C. 2.12(13).13.
Il tenore del provvedimento non credo autorizzi una simile conclusione: esso, infatti, non contiene se non l’affermazione secondo cui al postulante non potrà essere opposta in appello la praescriptio militiae, senza nulla dire, neppure implicitamente, in relazione alle altre eccezioni dilatorie.
La prima attestazione normativa di tale possibilità si ricava nel più tardo rescritto di Diocleziano, raccolto in C. 7.50.2, nel quale, in mancanza di riferimenti al regime anteriore e in considerazione del solenne tono precettivo, potrebbe ravvisarsi la propensione della cancelleria di Diocleziano di affermare il nuovo principio.
Il regime permissivo in tema di ammissibilità in appello di eccezioni perentorie è confermato, per la normativa del IV secolo, da una costituzione di Giuliano, riportata esclusivamente nel Codice Giustinianeo, la c. 12 C. 8.35(36) del 363.
Il provvedimento prevede l’irrogazione di una sanzione pecuniaria a carico dell’advocatus che, dopo avere omesso la presentazione di una praescriptio dilatoria inter exordia litis, reiteri la richiesta di accoglimento, implicitamente confermando l’ammissibilità in appello delle sole prescrizioni perentorie, che non dovevano obbligatoriamente essere proposte all’inizio del procedimento.
5. Quanto al tema dell’ammissibilità di nuove prove, la dottrina ha pacificamente ritenuto che anche tale principio fosse consolidato in età severiana.
In verità, l’unico appiglio che è stato fornito a favore di tale interpretazione è il frammento di Ulpiano, D. 49.1.3.3, che ho sopra esaminato, nel quale si afferma che, una volta proposta l’impugnazione, l’appellante possa persequi provocationem suam quibuscumque modis.
Si tratta, però, di un dato non incontrovertibile, considerando che dalla lettura del frammento non pare potersi ravvisare il chiaro riconoscimento della possibilità di dedurre nuove prove nel giudizio di secondo grado.
Il problema discusso da Ulpiano, infatti, era relativo alla modificabilità, nel corso del giudizio di appello, dei motivi di impugnazione: una possibilità, quest’ultima, a favore della quale il giurista si esprimeva in modo esplicito, attribuendo alla parte appellante la facoltà di aliam causam provocationis reddere. In tale contesto, l’espressione “persequi provocationem suam quibuscumque modis” non si riferisce alla possibilità di nuove deduzioni, tema non considerato nel frammento in esame, bensì alla facoltà di ricorrere a tutti i mezzi argomentativi che il mutamento dei motivi, nella seconda fase del giudizio, poteva comportare.
E che quello indicato da Ulpiano non fosse un principio definitivamente consolidatosi nel sistema processuale della cognitio extra ordinem, si ricava dalla documentale circostanza che esso viene riferito con un puto tamen, quindi come opinione personale del giurista e lascia intravvedere l’esistenza di opinioni divergenti, verosimilmente eliminate dai Compilatori con l’inserzione del frammento nel Digesto.
Per vero, neppure può essere accolta con sicurezza la tesi attestante l’esistenza di un principio opposto, relativo ad un assoluto divieto di nuove prove, autorevolmente sostenuta dal Lauria, in base all’autorità di un passo di Paolo, tratto dal primo libro De iure fisci, D. 34.9.5.12, in cui il giurista affermava che sarebbe incorso nell’indegnità il giudice di prime cure la cui decisione, in tema di falso testamentario, fosse stata riformata in appello.
Nel caso in esame, l’opinione dei quidam, che il giurista riferisce, avrebbe assunto un preciso significato, esclusivamente nell’ipotesi in cui il giudice d’appello avesse riformato la sentenza senza bisogno di nuove prove oppure di nuova attività istruttoria: affermazione che può essere fondata, sebbene il passo non ne parli espressamente, ma non può significare, in generale, che fossero vietate nuove allegazioni nel giudizio di secondo grado.
L’attestazione normativa di un regime permissivo in tale materia è invece esplicitamente testimoniata da un altro frammento dell’editto di Diocleziano dell’anno 294, C. 7.62.6.2.
Il testo normativo attribuisce alle parti la facoltà di richiedere, anche post interpositam appellationem, nuove prove testimoniali, che siano utili per l’accertamento della verità (qui super appellatione cognoscet veritatem possit ostendere), a condizione che, nell’ipotesi di escussione di nuovi testimoni, le spese di viaggio siano poste a carico della parte richiedente.
6. Una nuova ed organica disciplina della materia si avrà nella costituzione di Giustino dell’anno 529 (C. 7.63.4 pr.): la disposizione, in sostanza, confermava e precisava le linee essenziali ricavabili dalla normativa anteriore, rappresentata essenzialmente dall’editto di Diocleziano, che pure viene inserito nel Codice Giustinianeo con una più puntuale limitazione della possibile estensione del ius novorum.
La costituzione di Giustino stabilisce che entrambi i litiganti possano addurre nuove deduzioni ed eccezioni, purchè esse non attengano ad un novum capitulum, ma siano la conseguenza, ex illis oriuntur et illis coniunctae sunt, delle domande quae apud anteriorem iudicem noscuntur propositae. Ammette, inoltre, che possano essere tenute in considerazione, apud sacros cognitores, elementi di prova che mancavano nel corso del precedente giudizio.
Il regime permissivo in ordine alle nuove allegazioni in appello è confermato da una costituzione di Giustiniano dell’anno 529, la c. 37 C. 7.62, che, al paragrafo 4, ammette la possibilità, ad exemplum consultationis, di introdurre novae adsertiones ad sacrum nostrum palatium, che venivano consentite alle parti sia di fronte al giudice unico, sia dinanzi a giudici collegiali.
Si delinea così, nel diritto giustinianeo, un regime del ius novorum in appello improntato su principi che si conservano sostanzialmente nei moderni ordinamenti processuali, come nel nostro codice di procedura civile (art.345), in quello francese (art.464) ed in quello tedesco (528 e ss.).
Patrocinante avanti alle Magistrature Superiori
Professore presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi