Le recenti vicende processuali, che coinvolgono direttamente o indirettamente, prestigiosi rappresentanti dell’ordine giudiziario, anche nel ruolo di componenti dell’organo di autogoverno della magistratura, il Consiglio Superiore della Magistratura, riportano all’attualità un tema di speciale rilevanza in ogni sistema giudiziario, quello della responsabilità dei giudici, che -nell’esercizio delle proprie funzioni- sono soggetti, come insegna l’art. 101 della Carta Costituzionale, soltanto alla legge.
Già nel processo romano, infatti, nell’ottica di un miglioramento dell’efficienza generale del sistema, era stata introdotta una serie di correttivi esplicitamente finalizzati a contrastare il fenomeno delle inadempienze dei magistrati.
Fra questi, spicca il fenomeno della renitenza dei giudici inferiori ad accogliere le impugnazioni contro le loro sentenze, con cui i funzionari imperiali cercavano di rallentare il corso dei successivi gradi di giudizio.
Un aspetto particolarmente rilevante, poiché in grado di mettere in luce quanto fosse determinante, per le sorti di un regolare svolgimento del giudizio, la funzione dei giudici inferiori contro le cui sentenze l’appello veniva proposto, in quanto essi, grazie al potere di “non recipere appellationem”, avevano la facoltà di impedire l’ulteriore corso del giudizio: una prerogativa che si fondava non tanto (o non solo) sulla suscettibilità dei funzionari imperiali, bensì sulla necessità di salvaguardare la stabilità di una decisione che era stata oggetto di un accordo illecito con una delle parti e che un eventuale riesame della controversia, effettuato esclusivamente sotto un profilo squisitamente tecnico-giuridico, avrebbe potuto non superare il vaglio di un’istanza superiore.
L’ostruzionismo dei giudici ad accogliere il gravame contro una loro sentenza era, del resto, largamente diffuso e fortemente radicato nel sistema processuale romano e le fonti giuridiche testimoniano quali e quanti espedienti fossero utilizzati dai giudici per ostacolare il corretto svolgimento del corso del processo.
Per contrastare tale fenomeno, la normativa imperiale giungeva a prevedere l’introduzione, per la prima volta nella normativa imperiale in materia, con una disposizione di carattere generale, l’irrogazione, per i casi meno gravi, di una pena pecuniaria sia a carico del magistrato, che dei componenti del suo ufficio (dieci e venti libbre d’oro).
Peraltro, tale disposizione non ottenne i risultati sperati, nonostante lo sforzo compiuto dagli imperatori succedutisi alla porpora imperiale per reprimere gli abusi dei giudici nell’esercizio dell’attività giurisdizionale, come risulta dall’emanazione di una fitta serie di disposizioni normative, e testimonia come il fenomeno fosse diffuso e difficile da estirpare, tanto da porsi come ostacolo all’obiettivo di un aequum iudicium, cui si era ispirato, nel regolare il settore processuale, il legislatore romano.
Fu per questo, che il diritto romano introdusse, per i casi di reiterata inadempienza al rispetto delle leggi, l’applicazione della pena capitale (capitale supplicium) nei confronti di quei giudici che avessero tentato di eludere il rispetto delle norme procedurali.
Una soluzione drastica e certo eccessiva, tipica della fase storica in cui la disposizione venne emanata, ma che impone una profonda riflessione sullo stato della magistratura nel nostro sistema processuale e sui rimedi da introdurre alle patologiche deviazioni dei giudici dalla funzione giurisdizionale loro attribuita dalla Costituzione.
Patrocinante avanti alle Magistrature Superiori
Professore presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi